FDCT23 – Birdie

Melilla. Cittadina spagnola autonoma dal 1995 in territorio Africano, sulla costa orientale del Marocco. Cristiani spagnoli, musulmani, ebrei convivono senza scontri. Come amano passare il tempo libero gli abitanti? Praticando sport all’aperto. Fin qui tutto normale. La sua peculiarità? Una recinzione metallica molto alta che circonda la città, costruita per bloccare l’ingresso dei migranti che tentano di entrare. Ora non già poi così tanto normale. Piccolo paradiso elitario in cui non si è tutti uguali, dove un dio di pelle chiara ha deciso di tenere fuori dai confini di Schengen i cosiddetti Mori.

Stanno arrivando, stanno arrivando!

La compagnia catalana Agrupacion Senor Serrano mette in scena per il Festival Delle Colline Torinesi Birdie. Spettacolo non banale o comune sul tema dell’ immigrazione. Gli immigrati sono paragonati agli uccelli del film omonimo di Alfred Hitchcock: come essi fanno paura e stanno arrivando! Una Voice Over  fa da narratore, dividendo lo spettacolo in quattro atti e raccontando una tipica giornata di Melilla, una giornata come tutte le altre, e come al solito piena di contraddizioni. Quattro attori, due che usano una videocamera e una tavoletta elettronica da disegno, uno che li supporta al computer occupandosi degli spezzoni del film, della voce narrante e della proiezione della videocamera, la quarta attrice seduta immobile fino alla fine dello spettacolo, simboleggiando un migrante che sta seduto ore sulla recinzione e quando si sente pronto si desta e vola come un uccello. La videocamera filtra cartoline della città di Melilla, un campo da golf in miniatura e i veri protagonisti dello spettacolo, modellini di animali di ogni specie.

Gli uccelli ci vogliono ammazzare, mamma!

Basterebbe questa frase per descrivere lo spettacolo e quello che sta accadendo nella nostra società. Se negli anni novanta si è cominciato a chiudere le città, ad innalzare una barriera, non memori dell’altra barriera caduta pochi anni prima a Berlino, ora non si sono fatti passi avanti. Se da una parte la sensibilità, l’attenzione verso gli immigrati è aumentata anche in positivo, si cerca di aiutarli, dall’altra le persone li odiano sempre di più e ne hanno paura, un memento di questo i nuovi muri e i porti chiusi.

Non finiranno più queste migrazioni?

C’è una forte sensazione che le persone stiano diventando sempre di più individualiste, trincerate dietro a scuse banali e spesso false. Un misto di egoismo e disprezzo del prossimo che chiede solo aiuto. Probabilmente non si ci accorge sbadatamente, o non si piò capire che questa gentaglia che viene dal mare e non solo, ha sofferto l’inimmaginabile. Vedono al nostra terra come un paradiso, e sentendoci padroni di questo paradiso ne chiudiamo i cancelli, innalziamo barriere. Lo sbaglio razzista, oltre che nel diniego di un aiuto, sta nel non capire una possibilità di un arricchimento culturale oltre che demografico.

Inoltre, lo spettacolo ci vuole mostrare che siamo tutti uguali, un popolo migratore come gli uccelli. Dall’alba dei tempi fino ad oggi, animali e uomini hanno viaggiato per trovare un posto dove poter vivere bene, secondo i propri fabbisogni e piaceri. Un movimento continuo, di città in città per lavoro, sport, vacanze etc.

La voce narrante ci dice che a Melilla vive un fotografo e come ogni mattina va in città a fare fotografie. Fotografa un campo da golf in cui due persone stanno giocando, sullo sfondo la recinzione con uomini a cavalcioni, dei migranti e poco più in là un poliziotto. Una foto all’apparenza normale,  può avere diversi piani di lettura, se osservata correttamente. I punti di vista dei personaggi formano la sezione aurea dell’immagine, mostrandone la sua perfezione. La voce narrante inoltre ci dice cosa pensano le persone in quest’immagine, creando dei divertenti e curiosi soliloqui.

Giochi di luce colorata e fumo ci immergono in un mondo altro, un’atmosfera da creazione del mondo, poi avvallata da video di una pallina da golf che muovendosi velocemente si scuote  producendo vita o prefigurazione dello sballottamento degli esseri viventi nella loro migrazione eterna. Una lunga fila di modellini di animali, ripresi dalla videocamera, attraversano le diverse ere e stravolgimenti climatici, in cammino verso un futuro lontano che è il nostro presente: questa lunga migrazione terminerà con un mucchio di animali che si arrampica sulla barriera di Melilla. Quegli animali simboleggiano il viaggio dei migranti, il viaggio degli uomini. Un uccello dall’alto guarda cosa accade nella barriera e non capisce. Finalmente il migrante si desta e prende il volo.

Uno spettacolo molto riuscito, che ci presenta un tema molto caldo, in una luce tutta nuova, ma non per questo inefficace. Inoltre ci mostra l’insensatezza di avere paura e bloccare dei migranti, perché tutti noi siamo migranti. Hitchcock diceva  che gli uccelli del suo film non esistono ma sono solo proiezioni della paura di Melania Daniels. Come quegli uccelli sono innocui anche i migranti lo sono, ma qualche persona cala in loro paure e frustrazioni proprie derivate da altre situazioni. Capro espiatorio di una società sempre più globalizzata.

Al “prima gli italiani”, “american first”, ai nazionalismi, populismi  e tante altre forme di disinformazione raccapriccianti, dovremmo contrapporre il “prima la vita”, perché la vita e la terra sono di tutti e il diritto a stare in paradiso, se si può chiamare così, spetta anche ai popoli di altre nazionalità.

Emanuele Biganzoli

 

di Agrupación Señor Serrano
regia Agrupación Señor Serrano

ideazione Àlex Serrano, Pau Palacios e Ferran Dordal
performance Ferran Dordal, Vicenç Viaplana e David Muñiz
voce Simone Milsdochter
project manager Barbara Bloin
light design e programmazione video Alberto Barberá
colonna sonora Roger Costa Vendrell
creazioni video Vicenç Viaplana
modellini Saray Ledesma e Nuria Manzano
costumi Nuria Manzano
assistente di produzione Marta Baran
consulente scientifico Irene Lapuente / La Mandarina de Newton
consulente progettuale Víctor Molina
consulente legale Cristina Soler
management Art Republic
distribuzione in Italia Ilaria Mancia

in collaborazione con Piemonte dal Vivo

FDCT23 La buona educazione

Che cosa accade quando un’anima solitaria, così solitaria da fare della solitudine la propria identità, si scontra con l’anima di un bambino di tredici anni appena rimasto orfano di madre? Cosa accade quando una solitudine così fiera e accanita viene forzata ad avere compagnia? Accade che comincia un viaggio, un viaggio scomodo, una viaggio stretto, spigoloso, accidentato, pericoloso. Un viaggio che vede protagonisti due compagni d’avventura che non parlano la stessa lingua, non si comprendono, non si assecondano, non hanno come fine un obiettivo comune. Un’anticipazione sul finale? Non andrà bene.

In una salotto che ha per tappeto persiano uno strato di terriccio e per mobilio una schiera di vigili e squadrati manichini, accasciata su un divano a dir poco demodé, racconta la sua storia – terribile – di figlia, sorella e zia, una donna che vive sola, vestita come la più classica delle rappresentazioni della categoria femminile comunemente nota come”zitella”.
Con il naso e gli occhi rossi di pianto, racconta dell’orribile visita notturna ricevuta poco prima: la madre e il padre, defunti e fantasmi, portano con la loro apparizione una notizia che sconvolgerà le sorti di quest’anima solitaria e risoluta. La mattina seguente, questa notizia si concretizza in una fredda telefonata che la informa della morte di sua sorella. Ma, per quanto doloroso possa essere la perdita di una persona cara, non è questa la novità che la metterà a dura prova: in ospedale, rimasto al capezzale della sorella deceduta, c’è suo nipote, l’ultimo erede della famiglia, un giovane uomo rimasto orfano e bisognoso adesso delle cure di sua zia, in attesa di sapere a chi verrà affidato in via definitiva. La donna, priva di alternative, porta il ragazzo a casa sua, gli cede la sua stanza, e si prepara a questa convivenza forzata. Una convivenza che passerà attraverso diverse fasi, prima tra tutte, la ricerca di un modo per comunicare. Un qualcosa che può apparire semplice a un primo sguardo ma che si rivela invece estremamente complesso. Zia e nipote infatti non parlano la stessa lingua: quando lei dice qualcosa, qualsiasi cosa, lui strabuzza gli occhi, la trapassa, non comprende quel che dice. Chiuso in un mondo fatto di videogiochi e verbi all’infinito, quasi come fosse una creatura primitiva proveniente dal futuro, il giovane uomo mostra interessi completamente differenti rispetto a quelli della zia. Ed è in questo momento di massima incomunicabilità che lei capisce di non dover mollare: proprio quando la situazione con il nipote diventa quasi insostenibile, sente gravare sulle sue spalle tutto il peso di quella giovane creatura che le è stata affidata. Lei non solo dovrà trovare un modo efficace per comunicare con lui, ma dovrà curarlo, indirizzarlo, educarlo. La felicità del suo tesoro, adesso, è sua responsabilità. Come se il vero tesoro fosse custodito proprio nel futuro di quel giovane, come se la felicità del ragazzo potesse diventare la sua stessa felicità.
Investita di una missione che non può fallire, la zia ci prova, ci prova con tutta se stessa: si interessa ai suoi piani, chiede al ragazzo quali sono i suoi sogni (così poveri per appartenere a quelli di un ragazzino che si affaccia alla vita), lo indirizza verso il liceo classico – per farlo formare come uomo, e non come re dei molari – , interviene a favore di un’insegnate di italiano, raccogliendo su di sé le ire dei genitori esperti utenti di facebook e whatsapp. Asseconda il giovane innamorato – di una lampada – e lo porta a vedere la Juventus, ma non prima di avergli fatto assaggiare la parmigiana (surgelata, del supermercato, ma pur sempre parmigiana). Si imbattono entrambi in un disperato tentativo di sperimentare la conoscenza di uno sconosciuto di nome Silenzio, e se pur staccare la corrente dell’intero appartamento per gioire di un silenzio di fine ottocento non si rivelerà un’idea vincente, andrebbe sicuramente premiata per l’audacia dimostrata.
Il tutto prende vita all’interno di una curatissima scenografia (opera di Stella Monesi) che fa vivere un salotto ora sogno ora incubo; un’ambiente così cupo e tagliente – di forme e di luce – da far rimanere ipnotizzati. I manichini di ferraglia sistemati sulla sfondo come una squadra pronta all’attacco vigilano silenziosi per tutta la durata della storia. 

Un mondo invaso da persone che pensano di sapere tutto, che enunciano senza freni la propria opinione protetti dallo schermo luminoso di un portatile o uno smartphone, pronti a difendere a spada tratta i propri pargoli, a proteggerli dal mondo intero. Un mondo di sedicenti genitori che crescono i figli secondo le proprie regole, chiusi a qualsiasi possibilità di confronto, incapaci di qualsiasi possibilità di miglioramento per il semplice fatto che loro non ne hanno alcun bisogno. Un mondo dove gli insegnanti vengono pestati all’uscita dalla scuola o minacciati sul gruppo whatsapp. In un mondo come questo, vive una donna che non pretende certamente di sapere come si alleva un giovane essere umano. Una donna che ha paura. Paura di quel ragazzo, della responsabilità che sente esserle scesa sul capo a turbare la tranquillità di un’esistenza così ben costruita. Ha paura di non saper come fare, di non riuscire nel suo grande compito di affidataria temporanea. E ce lo dice così, senza vergogna, senza troppi giri di parole. Non ha bisogno di atteggiarsi a zia modello, di darsi un tono come se dovesse dimostrare di essere infallibile (qualche genitore potrebbe e dovrebbe prendere nota). Una donna che ammette i propri limiti, che cerca di migliorare se stessa prima di pretendere di migliorare la giovane vita che le è stata affidata. Una donna che si mette in gioco con una dedizione e una tenerezza che quei sedicenti genitori-educatori non potrebbero nemmeno permettersi di sognare. Questa donna ci permette di vedere le sue debolezze, e così noi lo avvertiamo tutto, questo peso. Ed è ora che cose scontate e semplici come il parlare o la scelta di cosa fare dopo le scuole medie ci sembrano così difficili da affrontare. Cose che si danno un po’ troppo per scontate, forse.
Perché la bellezza e la forza di questo spettacolo sta proprio nell’insegnarci che non basta parlare la stessa lingua o trovarsi a vivere nella stessa casa per riuscire a comunicare davvero. E chi lo avrebbe mai pensato? 

Sola in scena, e al contrario del suo personaggio comunicando in modo meraviglioso con il suo pubblico, è anche Serena Balivo, membro della Piccola Compagnia Dammacco, premio Ubu 2017. Attrice di una misurata eleganza, cura in modo quasi maniacale un personaggio denso e tortuoso, dalle movenze e dalla parlata grottesca e ironica, pungente come il testo rappresentato, La buona educazione, che debutta in prima nazionale per la regia di Mariano Dammacco in questa fortunata edizione del Festival delle Colline Torinesi.

Un’ultima osservazione. Corre un brivido lungo la schiena, una scossa elettrica che fa drizzare i peli delle braccia, quando zia e nipote vanno dalla dottoressa. Questa dottoressa visita entrambi, che sono lì un po’ controvoglia. Visita il ragazzino di latta con lunghe pinze metalliche e occhiali da aviatore, poi fa alcuni esami che mostra alla zia. Dalle lastre, sono visibili tutte le macchie dall’anima del ragazzino. Quella sì che è una dottoressa molto speciale.

La buona educazione
Regia di Mariano Dammacco
con Serena Balivo
spazio scenico di Mariano Dammacco e Stella Monesi
Produzione Piccola Compagnia Dammacco / Teatro di Dioniso
In collaborazione con L’arboreto Teatro Dimora, Teatro Franco Parenti, Primavera dei Teatri, Asti Teatro 40

Eleonora Monticone

FDCT23-Summerless

Teheran vent’anni dopo la rivoluzione. Uno spaccato di società o meglio una società spaccata, piena di contraddizioni nella sua storia grande come in quella piccola di donne e uomini, e bambini che vanno a scuola. È difficile per noi capire fino in fondo quella parte di mondo, il Medio Oriente, con le sue terre devastate da guerre intestine e internazionali, contraddizioni religiose e civili, e ora  ancora di più attuali. L’Iran repubblica islamica dalla fine degli anni settanta, è uno degli stati più influenti e potenti della regione, sebbene le contraddizioni, di una società sempre più chiusa e integralista, non si fanno attendere, aggravate ulteriormente dall’embargo occidentale. Tutto questo nello spettacolo non c’è, non viene detto, ma è come se trasudasse dalle pareti della scuola, lo si percepisce nascosto tra le parole sconsolate della gente. Persone che non ci stanno, persone che nel loro piccolo pongono domande per comprendere, capire qualcosa che non sta accadendo come dovrebbe. Le domande di una mamma al maestro, sono le domande della maggioranza di un popolo che vuole un Iran senza restrizioni.

Il regista iraniano Amir Reza Koohestani, da tempo molto apprezzato nella scena internazionale, mette in scena Summerless ,in seconda rappresentazione europea, alla ventitreesima edizione del Festival delle Colline Torinesi. Uno spettacolo in lingua farsi che vuole indagare i rapporti tra diverse generazioni, tra i figli che aspirano a un cambiamento, a una vita in una società diversa e a scoprire il mondo, e i padri troppo ancorati ad un sistema di controllo, che  accettano perché hanno conosciuto solo quel sistema. Koohestani sceglie, come microcosmo per mostrare le trasformazioni che stanno avvenendo nella società iraniana, una scuola elementare. Un arco temporale di nove mesi,  scandito in tre stagioni, il periodo scolastico, in cui appunto, come si intuisce dal titolo, manca il periodo estivo. L’estate viene evocata come tempo futuro, lontano, dove i nostri protagonisti non vivono perché la scuola è chiusa, un tempo di sogno, utopia di un futuro migliore.

Tre personaggi: una sorvegliante, un pittore e una madre. Il pittore in passato viveva con la sorvegliante, ma avendo intenzioni di vita differenti si sono separati.  La sorvegliante viene incaricata di abbellire la scuola e creare laboratori. Non conoscendo altri,  chiama il pittore e gli dà la possibilità di insegnare arte in uno dei laboratori e di dipingere il muro. Si intravedono le prime crepe. Lui accetta il lavoro per guadagnare qualcosa e riconciliarsi con la donna, ma non verrà pagato. Inoltre il muro deve essere ridipinto perché ha ancora delle scritte propagandistiche  del vecchia dittatura. Parole che i bambini vedono continuamente, simbolo di una tara del passato che fa fatica a scomparire. Se si copre una crepa, mettendola da parte come cosa di poco conto, al minimo scossone si ingigantisce e poi crolla tutto. Così questi problemi si insinuano anche in un muro dipinto. Il pittore incontra una giovane madre in attesa della sua bambina nel cortile della scuola, le parla e si fa raccontare chi sia la sua bambina e il papà. Decide di dipingere la bambina con la madre e il padre. Costretto a cancellare il dipinto perchè si intravede ancora qualche scritta, decide di andarsene e continuare la sua vita da pittore in provincia. Una sua alunna crede di essere innamorata del maestro, ed è distrutta quando capisce che lui se ne va. Inoltre la madre, intravedendo sotto il bianco l’immagine di un uomo che tiene per mano la bambina,  comincia a pensare che il maestro nasconda qualcosa. Voci aggravate dagli altri genitori. La quiete tornerà quando si chiarirà col maestro e quando ci sarà un incontro tra lui e la bambina, per farla guarire dai suoi problemi. Non mangiava più, voleva vedere solo il maestro. Come è cominciato in punta di piedi, lo spettacolo finisce altrettanto, con la bambina che spinge la giostra in cortile, sogno di uno stravolgimento delle situazioni, sogno verso un futuro, forse adesso un po’ più dolce.

Uno spettacolo semplice nel suo sviluppo, che volutamente non intende mostrare apertamente tutti i problemi di una società che non riesce a scrollarsi di dosso il passato. Il regista li cela sotto altre situazioni, sotto simboli e piano piano piano i drammi vengono alla luce, uno dopo l’altro, forse con ancora più  forza. Siamo calati in una società dove la povertà delle strutture, come appunto le scuole, è diffusa, in cui i genitori non riescono a capire il motivo per cui pagare più tasse scolastiche, meglio più tasse in generale. Più welfare, più tasse diremmo noi. Una società che vuole farsi aperta, ma che grava i cittadini di limitazioni, addirittura i bambini nelle scuole, mentre queste nuove generazioni non le comprendono, aspirano a qualcosa di nuovo.

Amir Reza Koohestani ci mostra la speranza di un futuro forse migliore se certe limitazioni culturali saranno dissipate, e ci aiuta a spostare un poco più in là il nostro sguardo  sull’Iran.

Emanuele Biganzoli

 

di Amir Reza Koohestani
regia Amir Reza Koohestani

scenografia Shahryar Hatami
costumi Shima Mirhamidi
video Davoud Sadri e Ali Shirkhodaei
musica Ankido Darash
interpreti Mona Ahmadi, Saeid Changizian, Leyli Rashidi
soprattitoli in italiano Laura Bevione per Festival delle Colline Torinesi/Fondazione TPE

produzione Mehr Theatre Group
coproduzione con Kunstenfestivaldesarts, Festival d’Avignon, Festival delle Colline Torinesi / Fondazione TPE, La Bâtie – Festival de Genève, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt am Main, Théâtre National de Bretagne, Münchner Kammerspiele, La Filature – Scène nationale de Mulhouse, Théâtre populaire romand

FDCT23-VIENI SU MARTE/VICOQUARTOMAZZINI

 

VicoQuartoMazzini/ Vieni su Marte   

andato in scena il 6 Giugno alla Casa del Teatro

Uno spettacolo di VicoQuartoMazzi                  
regia Michele Altamura e Gabriele Paolocà

interpretato da Michele Altamura e Gabriele Paolocà
drammaturgia Gabriele Paolocà
scene Alessandro Ratti
costumi Lilian Indraccolo
produzione VicoQuartoMazzini, Gli Scarti

con il sostegno di Officina Teatro, Kilowatt Festival, Asini Bardasci, 20Chiavi Teatro

con il sostegno del MiBACT e di SIAE, nell’ambito dell’iniziativa “Sillumina – Copia privata per i giovani, per la cultura”

 

VicoQuartoMazzini è una compagnia di teatro indipendente formata da Michele Altamura e Gabriele Paolocà. Ultimamente ha portato avanti un personale progetto di rivisitazione dei classici e tra i lavori più recenti ricordiamo Karamazov (2017) e Little Europa(2016) dal Piccolo Eyolf di Ibsen. Questa volta la giovane compagnia porta al Festival delle Colline Torinesi, in una prima nazionale, la storia di una iperbolica e folle spedizione del genere umano su Marte. Il tutto liberamente ispirato a Cronache Marziane di Ray Bradbury.

Nel 2012  parte un progetto, dal nome Mars One, che intende installare una colonia permanete sul pianeta rosso; arriva un numero esorbitante di candidature: 202.560. Non basta più spostarsi in una città dall’altra parte del mondo ma l’uomo moderno sembra avere bisogno di un pianeta nuovo. Che cosa cerchiamo? Cosa stiamo inseguendo che non troviamo qui ma proiettiamo in un altro pianeta? Da cosa vogliamo scappare? Lo spettacolo, dalla durata di settanta minuti, cerca appunto di indagare quali siano i desideri e le motivazioni di queste persone pronte a lasciare tutto e ricominciare da zero. Questo viene reso alternando a scene teatrali proiezioni video, tra cui spezzoni delle candidature inviate per il progetto. I candidati spiegano le loro motivazioni a muoversi sul pianeta rosso e il piano che hanno in mente di sviluppare; emerge molto forte l’urgenza di avere uno spazio nuovo in cui potere trovare la propria identità da capo, uno spazio che li accolga, uno spazio dove non ci siano guerre, non ci sia corruzione e si possa, invece, essere felici. Vieni su Marte, infatti, parte proprio da questa riflessione, per poi aprire numerose finestre tematiche che riguardano l’umanità a tutto tondo, correndo il rischio, forse, di non riuscire ad approfondirle tutte nello stesso modo.

L’emigrazione viene trattata, innanzitutto, facendo rifermento al fenomeno dell’emigrazione italiana interna degli anni ’50 e ’60: gli attori parlano dialetti di varie località italiane durante tutta la durata dello spettacolo. C’è chi è costretto a spostarsi per motivi di lavoro oppure in cerca di fortuna perché non trova il proprio spazio nel mondo, come il clochard che vorrebbe fare l’attore. L’idea è molto interessante anche se non è così chiara la relazione dell’uso continuato del dialetto con tutte le tematiche trattate. L’emigrazione viene sviluppata, infatti, anche richiamando la colonizzazione europea degli indiani d’America; emigrazione come imposizione da parte degli occidentali dei propri usi e costumi che si presume siano più evoluti  e migliori rispetto agli usi “incivili” delle popolazioni indigene. Qui gli indigeni  sono i Marziani; non c’è neanche il tentativo di conoscerli ma da subito l’uomo si impone; vuole costruire un’altra “Terra” su Marte, il che collide con il desiderio di cambiamento e novità alla base dell’intera spedizione sul pianeta rosso. Sembra prevalere la paura. E’ inconcepibile la presenza di qualcuno che non sia come noi, Il Marziano va umanizzato ad ogni costo. Questo è reso possibile immaginando di sottoporre il marziano ad un percorso psicoanalitico in cui ovviamente l’analista è umano. La figura dell’analista, purtroppo poco credibile come tale perché troppo aggressivo e incalzante, si sforza di fare emergere i traumi inconsci, in realtà inesistenti, del paziente. Il povero marziano vive ignaro di ogni paura e inquietudine dipingendo stelle prima dello sbarco degli umani.

La scena finale, molto d’effetto, rappresenta il Marziano finalmente UMANIZZATO dopo un lungo tempo di lavaggio del cervello; piange sconsolato sulle ginocchia dell’analista che è fiero del proprio paziente. Vieni su Marte ha sicuramente il merito di portare in scena l’umano con le sue paure e contraddizioni grazie e una drammaturgia molto varia.

Carola Fasana

FDCT23 – PLATONOV

Il 7 e l’8 giugno, alle Fonderie Limone di Moncalieri per la settima e ottava giornata del Festival delle Colline Torinesi si è tenuta, in prima assoluta, la reinterpretazione del regista Marco Lorenzi (al quale siamo riusciti a strappare una piccola intervista), affiancato dalla compagnia “Il Mulino Di Amleto“, del Platonov di Anton Cechov, uno dei primi drammi da lui scritti (1880-81).

Nel pre-spettacolo avremo una veloce e gaia presentazione del regista, gioiosa infatti sarà anche la prima parte del primo atto, dove vedremo i nostri attori imbandire un grande tavolo con bottiglie e contenitori di vetro contenenti vodka, importante simbolo della Russia e dello spettacolo in sè, e nel contempo, accompagnati dalla musica, gestita da uno dei personaggi seduto alla console. Dopo qualche minuto dall’arrivo di Platonov entreranno in scena pure la rabbia, il risentimento e la frustrazione fra i personaggi, sia per sciocchezze che per fatti di una certa importanza, ma l’allegria non lascerà mai il palco, creando una vera e propria altalena di sentimenti, la “Russità“.

Ma cos’è la “Russità“? Come ci spiega il regista, la russità è un neologismo utilizzato dai personaggi stessi, appunto per descrivere questa complessità emotiva altalenante continuamente presente durante il dramma e a volte anche durante la vita di tutti i giorni.

Cechov mandò il suo testo a diverse personalità di rilievo, fra cui una grande attrice del Maly Theatre di San PietroburgoMarija Ermolova, che, ahimè, gli consigliò di cambiare mestiere, al che lui si sbarazzò del dramma. In seguito, nel 1920, venne scoperta la prima stesura dell’opera e finalmente fu resa pubblica.

Il Platonov di Cechov è un opera divisa in 4 atti, ma in questa reinterpretazione godremo dei primi 3 e il quarto ci verrà narrato. Cechov, dopo quest’opera, abbandonò per lungo tempo il teatro dedicandosi ai racconti, ma nei suoi futuri testi teatrali prevarrà comunque la costante ricerca dell’uomo della felicità, sempre convinto che essa non si trovi lì con lui ma da un altra parte, tema che troviamo nel Platonov e spesso anche nella nostra esistenza. Altro tema di massima importanza è l’amore, amore al cui centro troveremo appunto Platonov, sposato, con amante e spasimante, ma tutto quest’amore è falso, l’amore non è un dono che bisogna ricevere per sentirsi completi, ma qualcosa di spontaneo e puro. Marco Lorenzi ci racconta come Oskaras Koršunovas (importante regista lituano) gli  abbia spiegato la sua intenzione di mettere in scena il Platonov dandogli di un ottimo consiglio:

Devi pensare che racconta della crudeltà dell’amore.

A mio parere, per questo dramma, Cechov fu influenzato da Arthur Schopenhauer per sua stesura. Qui citerei una delle frasi più famose del filosofo per far capire in che modo:

La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia.

Quest’opera, a sua volta, ha influenzato il famoso regista, sceneggiatore e scrittore francese, Jean Renoir nella stesura della sceneggiatura de La regola del gioco, dove possiamo trovare situazioni e significati simili a quelli del Platonov.

Realizzare questo dramma si deve essere rivelata un’impresa ardua, considerata la profondità e l’intensità dell’opera, ma il regista insieme alla compagnia ha svolto, a mio avviso un ottimo lavoro donandoci una godibile revisione. Gli attori come il pendolo oscilleranno fra amore e odio, tristezza e felicità con una facilità incredibile e riuscendo a rimanere credibili per tutta la durata dello spettacolo.

Per quanto riguarda la scenografia, ci troveremo inizialmente un tavolo vuoto, gli attori seduti su delle sedie e un pannello vetrato mobile praticabile in fondo al Décor. In seguito gli attori imbandiranno il tavolo, sposteranno le sedie e ci sarà un continuo mutamento della scena. Il pannello verrà utilizzato per il cambio del’ambiente, e in una scena di grande confusione verrà pure fatto ruotare velocemente in un mix di euforia e caos che rappresenterà a pieno i contrastanti sentimenti dei personaggi ormai alla deriva.

Recensione a cura di Roberto Lentinello

Da Anton Cechov
Regia Marco Lorenzi

Uno spettacolo di Il Mulino di Amleto

Con Michele Sinisi
e con Stefano Braschi, Roberta Calia, Yuri D’agostino, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Angelo Maria Tronca
Adattamento Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi
Regista Assistente Anne Hirth
Style e visual concept Eleonora Diana
Disegno luci Giorgio Tedesco
Costumi Monica Di Pasqua

Co-produzione Elsinor Centro Di Produzione Teatrale, Festival delle Colline Torinesi, Tpe Teatro Piemonte Europa
Con il sostegno di La Corte Ospitale – Progetto Residenziale 2018
in collaborazione con Viartisti per La Residenza Al Parco Culturale Le Serre

FDCT23-LATE NIGHT_APPLAUSI SCROSCIANTI

Cosa si aspetta la società del XXI secolo dall’arte? Arduo compito dare una risposta a questo interrogativo e ai numerosi altri che il Bliz Theatre Group pone al pubblico con lo spettacolo Late Night. Novanta minuti di performance intensa, che racconta le macerie di un’Europa devastata dalla guerra attraverso gli occhi di tre donne e tre uomini che si trovano in una sala da ballo fatiscente. Qualcuno nemmeno si ricorda come ci sia finito. Padroni di questo luogo surreale sono il tempo e l’attesa. Ma cos’è che i sei stanno aspettando? Davvero siamo solo esseri umani in balia degli eventi e che altro non possono fare se non attendere che tutto quanto finisca? E, soprattutto, come trascorrere questo tempo? Danzando. Continua la lettura di FDCT23-LATE NIGHT_APPLAUSI SCROSCIANTI

FDCT23 – Intervista a Marco Lorenzi (Mulino di Amleto)

Il buongiorno dal Festival delle Colline Torinesi arriva oggi con un’intervista al regista Marco Lorenzi della compagnia Il Mulino di Amleto, in attesa del debutto in prima nazionale il 7 e l’8 giugno alle Fonderie Limone di Moncalieri di una personalissima e scatenatissima versione di Platonov, uno dei primi lavori, classe 1880, del maestro Anton Cechov.

Poche parole per descrivere il cuore di questo lavoro? Complessità, umanità, emotività, felicità, trasparenza, crudeltà dell’amore…  insomma:  russità!

E le Colline, cosa c’entrano con tutto questo?

“Il Festival delle Colline è un posto dove si può rischiare, si può sbagliare, si può cercare” Marco Lorenzi

Buona visione

A cura di

Andreea Hutanu, Eleonora Monticone, Roberto Lentinello

FDCT23 – RITRATTO DI DONNA ARABA CHE GUARDA IL MARE

Il 5 giugno alle Lavanderie a Vapore, quarta giornata della 23esima edizione del Festival delle Colline, è andato in scena  Ritratto di donna araba che guarda il mare. Il contrasto tra culture è essenzialmente al centro di questo spettacolo del regista Claudio Autelli e della compagnia milanese Lab121, che mettono  in scena il testo di Davide Carnevali, vincitore del 52° Premio Riccione per il Teatro nel 2013. 

La compagnia ha scelto di non apportare tagli al testo, ma di usarlo integralmente, accludendo sia didascalie che titoli dei capitoli. Per trasformare le parole di Carnevali in suono e immagini, hanno utilizzato una handycam, che durante la narrazione riprende piccoli luoghi creati del modellino attorno a cui gli attori recitano. La scenografa Maria Paola Di Francesco si è occupata anche della realizzazione del modellino: molto bello e preciso nei dettagli, mette lo  spettatore  davanti a luoghi creati con la carta. Grazie alle riprese della macchina si entra a far parte di posti misteriosi dei quali non conosciamo i nomi. Si intuisce solo di essere in una città del Nordafrica. È in queste riprese, utilizzate come fondale scenografico con l’aiuto di un videoproiettore, che ci viene raccontata la storia dei due personaggi principali. Un turista europeo che incontra una donna araba al tramontar del sole, di fronte al mare. Da qui nasce la curiosità da parte di entrambi di rincorrersi e conoscersi. Una storia che parla di amore, della condizione della donna e del potere dell’uomo. Le inquadrature che si creano davanti ai nostri occhi sembrano rappresentare dei quadri che ci ricordano per certi versi quelli di Hopper.

L’obiettivo dello spettacolo consiste nel tentativo di creare qualcosa che si componga pezzo per pezzo, come fosse un puzzle, mettendo insieme piccole parti che solo alla fine, unendosi, mostrino un disegno più grande. Il testo di per sé è, purtroppo, fin troppo statico e alcune delle scene potrebbero godere di un ritmo più incalzante, al fine di favorire la fluidità dell’azione. Quello su cui sembra giusto focalizzarsi, quando si va a vedere questo spettacolo, è la grande componente narrativa che ne costituisce l’ossatura: è il rapido articolarsi di un turbinio di battute, una “guerra verbale”, come l’ha definito il regista Claudio Autelli. Un testo che mostra quanto a volte la differenza di linguaggio, l’impossibilità comunicativa e le divergenze culturali non siano solo frutto di origini geografiche eterogenee ma anche di tradizioni sociali e radici etniche diverse. Una diatriba verbale che genera lontananza e fomenta malintesi, fino a degenerare nel disastro.

Quando la donna araba parla di “fratelli” non parla solo di parenti di sangue ma si porta dietro l’idea di “famiglia”, di onore, di protezione verso le “proprie” donne, di senso di possesso, di controllo. Da spettatrice italiana vedo queste dinamiche non totalmente estranee ad alcune delle nostre tradizioni. Poco cambia dalle situazioni che si verificano soprattutto al Sud Italia, come ha voluto aggiungere Giacomo Ferraù dopo lo spettacolo durante la “Mezz’ora con…”, essendo lui siciliano.

I personaggi sono quattro, tutti contornati da un’aura di mistero. Vengono usati soprattutto come simboli per manifestare dinamiche relative a differenti costumi e di abitudini sociali.

L’uomo europeo, interpretato da Michele Di Giacomo, è un personaggio molto schivo che vuole ammaliare la donna senza però riuscire a prendere coscienza di non essere in Europa ma di avere a che fare con una quotidianità totalmente diversa dalla sua. Uomo di grande presunzione, dai comportamenti egoistici, crede di poter ottenere tutto ciò che vuole.

Alice Conti veste i panni della donna araba, donna che non accetta il rigido stereotipo femminile inseguendo un desiderio di libertà non raggiunto appieno, nonostante le vedute decisamente aperte della sua famiglia. Si sente più indipendente rispetto alle amiche che è costretta ad accompagnare una ad una fino all’uscio di casa, anche a tarda notte. Però, nonostante la sua apparente forza interiore, chiama i suoi fratelli perché rivendichino il suo onore ne confronti dell’uomo che l’ha ferita.

Giulia Viana interpreta invece il bambino, fratello minore della donna, che si porta dietro un sentimento di inquietudine. È soprattutto sul finire della vicenda che si fa avanti il dubbio sulla sua reale natura: buona oppure no? Il suo compito è quello di aiutare veramente l’uomo europeo o, come per gli altri fratelli, ha gli occhi offuscati dalla vendetta? È una domanda a cui Davide Carnevali non vuole dar risposta, ma alla quale preferisce sia lo spettatore, a modo suo, a dare una soluzione interpretativa.

L’ultimo dei quattro, impersonato da Giacomo Ferraù, è il fratello maggiore della donna. Ci è dipinto come uomo compassionevole, nonostante si abbia l’impressione che non sia l’unica sfumatura della sua vera essenza. Si può essere caritatevoli e buoni anche quando un uomo ha fatto del male e ha approfittato della propria sorella? La sua rabbia è dovuta solo al senso di protezione verso la famiglia di appartenenza, o è invece la rivelazione di qualcosa di più oscuro?

L’autore, oltre a proporre una riflessione su migrazioni di popoli e scontri tra culture, se di speranza vuole parlare, non può che lasciar il messaggio finale al bambino. Si può, in questo caso, intravvedere uno spiraglio di ottimismo, vista l’ultima scena dello spettacolo? Possiamo credere inoltre che il confronto tra i due uomini (tra le due culture, aggiungerei) non si sia rivelato fatale? Anche questo non è esplicitato da Carnevali, stimolando così lo spettatore a concludere la storia in base al proprio pensiero e alla personale visione del mondo in cui vive.

Alessandra Botta

di Davide Carnevali
regia Claudio Autelli

con Alice Conti, Michele Di Giacomo , Giacomo Ferraù e Giulia Viana
scene e costumi Maria Paola Di Francesco
suono Gianluca Agostini
luci Marco D’Andrea
responsabile tecnico Stefano Capra
organizzazione Camilla Galloni e Carolina Pedrizzetti
distribuzione Monica Giacchetto
ufficio stampa e comunicazione Cristina Pileggi
assistente alla regia Marco Fragnelli

produzione LAB121
in coproduzione con Riccione Teatro
con il sostegno di Next/laboratorio delle idee per la produzione e la distribuzione dello spettacolo dal vivo in collaborazione con Teatro San Teodoro Cantù

FDCT23 – I LIBRI DI OZ

Ambiente scuro, un grande proiettore bianco che risalta sul fondo della scena. Un tavolino nero al centro con sopra un grande libro, una lente tonda, delle scarpette rosse. Ecco la scena semplice, essenziale e per questo estremamente esplicativa de I libri di Oz, spettacolo che è andato in scena domenica 3 Giugno presso Caffè Muller per il Festival delle Colline Torinesi.

Chiara Lagani, fondatrice della compagnia teatrale Fanny & Alexander, ha tradotto e antologizzato per i Millenni di Einaudi i quattordici romanzi di Baum ambientati nel magico mondo di Oz. Con lei ha collaborato l’illustratrice Mara Cerri, realizzando una serie di disegni a colori e in bianco e nero per accompagnare le storie, ma soprattutto per aprire nuove chiavi di lettura e per dare nuova vita a racconti che da più di un secolo accompagnano l’infanzia dei bambini.

È proprio con l’ausilio di queste interessanti illustrazioni, proiettate alle spalle dell’attrice, e di alcuni suoni abilmente scelti, che Chiara Lagani inizia a raccontare lo spirito del ciclo dei libri di Oz: inizia leggendo dal libro, ma subito quello che sembra essere un reading si trasforma in un vero e proprio recital grazie al carisma dell’attrice, che pur essendo sola sulla scena, dà l’impressione di essere circondata da tutti i personaggi nominati.
Con l’ausilio di un microfono crea effetti sonori e voci per ogni protagonista della storia che prende la parola.

Quasi come una maestra che vuole insegnare ai suoi alunni la creatività da dietro la cattedra, anche Chiara Lagani rimane quasi sempre in piedi dietro al tavolino e per questo può sembrare un po’ statica, ma grazie al movimento della parte superiore del corpo e al controllo e l’uso della voce, riesce a trasportare tutti gli spettatori nella storia che sta abilmente raccontando, catturando l’attenzione per tutto il tempo.

Tramite l’evocazione di queste storie e dei personaggi sono tanti i temi affrontati dall’antologia, che chiaramente si rivolge anche agli adulti, pur essendo pensata per i bambini: dall’immaginazione al mito, dall’amore alla morte, le tematiche sono molteplici e tutte possono dare spunti di riflessione.

Sebbene questi libri siano stati oggetto delle più svariate interpretazioni, da quelle politiche a quelle economiche, da quelle religiose a quelle psicanalitiche, lo spettacolo non vuole imporre al pubblico una chiave di lettura, ma mostrare semplicemente la varietà di questo mondo e la sua perfetta e logica costruzione: tutto, per quanto fantastico, ha un senso, anche geograficamente parlando; infatti anche l’attrice, circa a metà dello spettacolo, sente l’esigenza di spiegare agli spettatori la composizione geografica del Mondo di Oz, mostrandone la complessa articolazione, che appare infatti totalmente coerente. L’autore Baum non ha di certo lasciato niente al caso.

Vengono quindi dati allo spettatore tutti gli strumenti per comprendere queste storie, per amarle o per non aprezzarle, e per trovarvi significati nascosti.

 

a cura di Alice Del Mutolo

 

di Chiara Lagani
regia Luigi De Angelis

con Chiara Lagani
testi di Frank Baum tradotti da Chiara Lagani per I Millenni di Einaudi
illustrazioni Mara Cerri
paesaggio sonoro Mirto Baliani
animazioni video Luigi De Angelis

produzione Elastica, E/Fanny & Alexande

presentato in collaborazione con Giulio Einaudi Editore

FDCT23 – Copioni di commento. Giulio Cesare, Pezzi staccati

Seconda giornata del Festival delle Colline Torinesi, ormai arrivato alla sua 23esima edizione e alla nostra terza collaborazione con loro.

Io ed Emily ci siamo spostate dal nostro palchetto per andare a sederci sui cuscini alla Fondazione Merz per assistere alla performance di “Giulio Cesare, pezzi staccati”.

Cosa abbiamo visto? Questa è la domanda che ci siamo fatte appena siamo uscite dalla fondazione Merz.

SIPARIO

Sulla terrazza di casa, al calar della sera, mentre il glicine all’angolo segue le trame di una brezza leggermente fastidiosa, Emily ed Elisa discutono a proposito dello spettacolo visto poc’anzi.

Emily è seduta al grande tavolo bianco che cerca di bere da un bicchiere senza usare le mani.

Elisa entra reggendo tra le mani una grossa pentola (si capisce che scotta perchè usa le presine da forno) ma appena si accorge di quello che sta facendo Emily arresta la sua entrata per guardarla con un leggero disgusto dipinto in volto.

 

Emily (accorgendosi dell’ingresso di Elisa) :  Ma perché quando vengo a teatro con te non capisco mai cosa ho visto e ci ritroviamo a scriverci sempre su…?

Elisa (appoggia la pentola sul tavolo schiaffeggiando la mano dell’altra che è subito scattata verso il cibo) : Perchè scegliamo gli spettacoli in base al titolo e forse dovremmo smetterla. Secondo me dovremmo cambiare la metodologia  di scelta degli spettacoli.

Emily : Mi trovi d’accordo. Ora, siccome non so da dove partire, inizierò con la domanda più semplice: ti è piaciuto?

Elisa : Non è semplice dare un parere quando non hai capito bene cosa hai visto… Oddio, molto bello e interessante il modo di lavorare sulla ferita alla gola di Giulio Cesare creando nuovi metodi di comunicazione alternativi alla voce.

Emily (approfittando di un momento di distrazione ruba qualcosa dalla pentola cercando di mangiarlo di nascosto) : In effetti è una performance basata sull’origine  della comunicazione a partire proprio da dove il suono nasce all’interno della nostra gola. È stato abbastanza impressionante vedere la ripresa laringoscopica che il primo attore ha operato su se stesso. Non so tu ma io non avevo mai visto l’interno di una gola. (fa sparire il boccone in un morso)

Elisa le molla una sonora pacca tra le scapole accorgendosi che la meschina sta soffocando a causa del boccone rubato.

Elisa : Beh sono cose che non si vedono spesso a teatro. Sono impressionata dalla resistenza dell’attore perché mi ricordo del mio esame laringoscopico! è fastidioso avere la lucina nel naso e in gola  figuriamoci recitando Shakespeare! Complimenti!

finalmente iniziano a cenare e Emily non è un bello spettacolo. Elisa quasi non tocca cibo  disgustata dall’allegria famelica dell’altra.

Emily: Comunque con gli attori vestiti con quelle tuniche bianche sembrava di essere un po’ in un ospedale. Erano un mix tra medici,monaci e chierichetti. Anche la location contribuiva all’illusione ambulatoriale: bianco al limite dell’ossessione e scenografia scarna, essenziale e glaciale.

Elisa (ispirata, è ossessionata da cavalli e unicorni) : Vogliamo parlare del cavallo?

Emily( ribadendo l’ovvio): Era un vero cavallo!

Elisa : Era un bellissimo cavallo! Mi chiedo il significato delle parole bianche che gli hanno scritto addosso in contrasto con il cavallo che era l’unica cosa nera all’interno della performance: Mene Tekel Peres…

Emily (con la bocca piena) : Beata te che sei a questo punto, io sono rimasta a cercare di capire il significato del cavallo stesso. Forse per capire alcuni significati dovremmo ,come ci ha gentilmente suggerito la professoressa Mazzocchi (salve professoressa), evitare di intellettualizzare ciò che abbiamo visto attribuendo agli elementi scenografici il loro significato di base.

Elisa (aggrotta le sopracciglia) : Quindi per te il significato del cavallo è.. che è un cavallo? complimenti, molto profondo…

Elisa si alza e inizia a sparecchiare un po’ seccata perchè tocca sempre a lei fare tutto. Per manifestare la sua irritazione raccoglie le stoviglie con troppa veemenza, punteggiando la sua breve filippica di allegri tintinnii

Elisa (digrignando un po’ i denti) : Però hai ragione sul pensare basic,mi viene in mente il colore rosso che rievocava il sangue, il pulpito da cui era incomprensibile il discorso del laringectomizzato Marco Antonio o per concludere le lampadine accese tutte insieme e fatte scoppiare una ad una come se fossero le fasi di passaggio della vita che mano a mano si spengono e non torneranno più indietro.

Si alza anche Emily che, dopo aver schivato una lama sfuggita dalle mani nervosette di Elisa, decide di dare una mano all’amica.

Emily : Probabilmente assistendo a questo tipo di teatro concettuale non ci si dovrebbe interrogare troppo su ciò che si vede ma semplicemente, andando a casa, conservare la sensazione che ti resta.

Elisa : Ci sono degli spettacoli che vanno visti e basta, interiorizzandoli nell’intimo della propria camera da letto. Senza farci troppe parole sopra..e questo è uno di quelli.

Emily (sbadigliando) : Quindi camera da letto?

Elisa : Si, buonanotte!

Emily : Sicuramente sognerò il cavallo, buonanotte.

BUIO

SIPARIO.

A cura di Elisa Mina ed Emily Tartamelli

di Romeo Castellucci
regia Romeo Castellucci

ideazione Romeo Castellucci
con Giulio Cesare: Gianni Plazzi, Marcantonio: Maurizio Cerasoli, …vskji: Sergio Scaraltella
assistenza alla messa in scena Silvano Voltolina
tecnica Nicola Ratti
responsabile di produzione Benedetta Briglia
promozione e comunicazione Gilda Biasini, Giulia Colla
amministrazione Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci

produzione Societas

Nel quadro de “e la volpe disse al corvo. Corso di linguistica generale”
Progetto speciale della città di Bologna 2014