Muttersprache Mameloschn – Lingua madre Mameloschn: alla ricerca della propria dimensione.

Non tutti siamo fatti per restare dove siamo nati: c’è chi, allora, parte e rispetta l’intenzione di non tornare più, chi parte ma torna indietro quasi subito, e chi, come Rahel, figlia di Clara e nipote di Lin – le tre protagonista di questa dramma- salpa alla volta di New York per iniziare un nuovo capitolo della propria vita, portandosi dietro un amuleto pesante di confusione storica, di ricordi e di fragilità.
Si sa, all’inizio è sempre allettante trasferirsi in un posto nuovo ma poi, piano piano, subentrano le difficoltà;  la vita, infatti, sa essere crudele e mette a durissima prova l’essere umano.

Rahel, inizialmente, gode della sua confusione a proposito delle vie senza nomi ma solo numerate; è felice di tornare a sentirsi nuovamente come una sorella minore- come scrive nelle lettere rivolte al fratello assente- e di non capire la lingua del posto: un’incomprensione linguistica che ricorda tanto Alexander Bruno, il protagonista di un libro di J. Lethem , che cerca a tutti i costi di andare in posti esotici in cui la lingua a lui sconosciuta lo lasci felicemente ISOLATO nell’incomunicabilità; ma se per questo protagonista il tutto si rivela come un dolce balsamo, per Rahel, invece, a lungo andare, diventa estenuante.
“Io non capisco i piccoli dettagli, le allusioni, non capisco nemmeno le barzellette, niente!” scriverà al fratello, in modo sempre più disperato. Le barzellette che strappavano risate dolci-amare, le barzellette simbolo di casa, simbolo di una lingua parlata da sempre con sua madre e sua nonna, una lingua madre appunto -un mameloschn– che ora ha perduto e non sa come ritrovare.

Sentirsi continuamente fuori posto, affermare la propria identità mediante la storia passata e ricercare una propria lingua madre in cui sentirsi a casa: sono questi i temi di un dialogo politico, religioso, familiare ed intimo che le straordinarie Elena Callegari, Francesca Cutolo e Maria Roveran portano in scena con tenerezza, passione e delicatezza.

È intorno al tema della partenza, però, che si snoda l’intero dramma. Il primo a essere andato via e a non aver fatto più ritorno è Davie, unica figura maschile dell’intero dramma che presenta la sua assenza unicamente con delle lettere spedite alla sorella Rahel, dalle quali si alzerà il coro delle voci della coscienza delle donne, con un sistema narrativo che ricorda il romanzo La grande sera di Pontiggia. Seguirà poi, la partenza della giovane ragazza, che segnerà un ennesimo colpo al cuore per una madre ormai “orfana” di due figli.
Partire, dunque, per cercare di risolvere le questioni in sospeso o addirittura lasciarle alle spalle, ma è davvero sempre possibile? Il poeta latino Orazio, in un famoso esametro, diceva che è il cielo a mutare per coloro che attraversano il mare, e non l’animo; lo stesso vale per gli affanni dell’anima dell’adolescente, che non riuscendo a superare il dolore causato dalla partenza definitiva dell’ amato fratello maggiore, prova a superarla attraverso una partenza in un nuovo Stato -che comunica allo spettatore attraverso un intimo monologo- ma nemmeno a lei è dato da sapere se riuscirà nel suo intento: quando il dolore c’è e non passa, te lo porti dietro ovunque, anche dall’altra parte del continente!

Oltre alla figura pregnante della ragazza, protagoniste di questo dramma sono, poi, altre due donne, altre due generazioni che sono l’una l’antitesi dell’altra: una nonna e una figlia- a sua volta madre di Rahel- che ne hanno vissute tante insieme, dagli spettacoli di cabaret alle manifestazioni socialiste guidate dall’ormai anziana Lin e , tutt’ora, si ritrovano a (soprav)vivere con tutte le loro contraddizioni, in un vortice di amore e odio, in un appartamento berlinese, all’ombra della caduta del Muro.
Si amano, si uccidono con una mezza parola che è peggio di una freccia imbevuta nel veleno, come solo una madre sa lanciare…e ancora si amano e si disprezzano e più si amano e più si rinfacciano i dogmi di un ebraismo ormai diventato un peso per entrambe. Tentano, invano, di lasciarsi ma non riescono a stare l’una separata dall’altra, sono l’una l’ossigeno per l’altra; solo la morte sarà in grado di separarle, ma solo apparentemente poiché un filo rosso le terrà per sempre unite.

Sasha Marianna Salzmann è nata nel 1985 a Volgograd nell’Unione Sovietica, vive tra Berlino e Instanbul, è scrittrice e curatrice del teatro Maxim Gorki di Berlino, ed è l’autrice di questo dramma, la cui regia è stata curata da Paola Rota, attrice di cinema e teatro, nonché regista di spettacoli prodotti dal Teatro Stabile di Torino, della Biennale di Venezia e del Teatro dell’Elfo di Milano.

 

Martina Di Nolfo

 

di Sasha Marianna Salzmann
traduzione Alessandra Griffoni
con Elena Callegari, Francesca Cutolo, Maria Roveran
regia Paola Rota
costumi Ursula Patzak
luci Camilla Piccioni
Teatro Stabile di Genova
Festival delle Colline Torinesi
PAV nell’ambito di Fabulamundi .
Playwriting Europe – BEYOND BORDERS?
con il supporto del programma dell’unione Europea Creative Europe e del Goethe Institut

Re Lear: il trionfo del bene sul male, è utopia o realtà?

È un Re Lear decisamente più calcato e più “underground” rispetto all’opera originale del bardo, il Re Lear di Giorgio Barberio Corsetti, regista teatrale romano, interpretato da un eccezionale Ennio Fantastichini, fasciato da un completo in velluto rosso. Riscritto in chiave moderna senza azzardare troppo, ripulito da lirismi di marca secentesca sostituti da qualche battuta odierna, l’opera si fa piacevolmente seguire e trascina lo spettatore per l’intera durata dello spettacolo, nonostante la lunghezza – alla quale non siamo più abituati, vista la velocità eccessiva con cui tutto scorre nel nostro tempo- sia non poco impegnativa; merito anche di un cast numeroso e pulsante che conosce davvero il lavoro dell’ attore su stesso.

Re Lear è la storia di padri che fraintendono i figli, e di figli che tradiscono i padri; è una storia intrecciata di legami di sangue infangati da menzogne e sotterfugi per un unico grande desiderio: il potere, che prende forma in svariati modi: nella dominazione, nella supremazia, nel denaro e nella sessualità. Soprattutto, però, è la storia di “animali umani” che dimostrano di essere più istintivi e affamati degli animali stessi, che non uccidono per sussistenza ma per smania di possessione e per egoismo. Ecco infatti, che la storia si ripete: Re Lear non è solamente una tragedia teatrale, ma è un affresco della violenza che domina i nostri telegiornali e i social network, un dipinto del profitto sul più debole e il riflesso di un meccanismo sociale presente fin dagli albori, che premia cioè chi tace e punisce chi parla. L’intero Re Lear è quella sensazione di olio fritto che non si ha digerito, è la nausea di una sbornia triste dopo una felice festa di carnevale all’insegna di brindisi e balli ma che, ad ogni modo, lascia una piccola speranza alle generazioni future.

“A noi spetta gravarci del peso di questo triste tempo, dire quel che si prova, e non quel che si deve”, sono queste, infatti, le ultime parole affidate ad Edgar (un toccante Gabriele Portoghese), unico superstite della tragedia che rappresenta uno spiraglio di speranza e di miglioramento per le generazioni future.

La suddivisione dello spettacolo ricorda molto la Commedia dantesca, concepita però a ritroso. Lo spettacolo si apre nel salone del palazzo del Re, con un modernissimo party colorato con tante luci e tanto spumante, con un sottofondo di musiche composte e eseguite dal vivo da Luca Nostro; un Eden contemporaneo insomma, dove spiccano abiti eleganti e colorati che caratterizzano anche i vari personaggi, e il loro stato d’animo: Lear è caratterizzato dal rosso, la figlia Cordelia ( una delicata Alice Giroldini) dal nero, le spietate sorelle di quest’ultima e i loro mariti (Mariano Pirello e Pierluigi Corallo) , rispettivamente Goneril (un’ irruenta Francesca Ciocchetti) dal blu e Regan (una sensuale Sara Putignano) dal verde. In questa prima parte si svolge il dramma delle due famiglie.

Il primo dramma riguarda Re Lear appunto, un re rinascimentale e barbaro che fa della parola il metro di giudizio dell’amore. Egli ha, infatti, deciso di abdicare e di spartire i territori del suo regno in proporzione all’amore che ogni figlia, con le sue parole, saprà dimostrare al padre. Cordelia sarà l’unica fra le tre figlie, però, che si rifiuterà di adulare il padre in questo modo, poiché fermamente convinta che l’amore puro si dimostri con i fatti e non con parole condite di reverenza; ma d’altronde questo è il dramma in cui è la parola a rivelare l’azione e non viceversa, dunque a venir punita sarà la sincerità, tanto che Cordelia verrà rinnegata come figlia dal padre; sarà, invece, la parola che non sentiamo ma che conviene dire ad avere la meglio.
Sempre in questa prima parte assistiamo a un altro dramma che si sovrappone e si intreccia alla vicenda dei Lear, e cioè quella della famiglia Gloucester composta dal Conte in questione- interpretato da un incisivo Michele Di Mauro che sfodera una straordinaria capacità di far prendere a cuore allo spettatore quella tenerezza e quell’ ingenuità tipica di un padre innamorato dei propri figli, come lo è Gloucester- e dai suoi figli Edgar e Edmund. Quest’ultimo interpretato dall’atletico Francesco Villano che ci regala tutto se stesso, in particolare durante i monologhi che sembrano essere cuciti su di lui, stregando il pubblico con l’ ambiguità feroce e distruttiva del suo personaggio.

Nella seconda parte, che si può paragonare ad un Purgatorio, si svolge la tempesta che imperversa nella brughiera, il simbolo della follia che Lear farnetica. È proprio qui che l’incubo inizia a farsi avanti, confondendosi con la realtà: ecco che gli abiti perdono la vivacità dei colori che avevano in precedenza e la musica si fa più cupa.
Ed è sempre in questa parte che prende vita un altro tema, quello della strategia che si manifesta nell’ amore opportunista delle sorelle che tradiscono prima il padre e poi i loro mariti, e nel linguaggio colmo di falsità e invidia di Edmund, un Caino invidioso del fratello, che stufo di esser il figlio “bastardo” di Gloucester è disposto a tutto, persino a denunciare il padre come spia e a farlo accecare, pur di raggiungere una posizione elevata e di riscattare la bassa stima del proprio sé .

     

Infine la terza e ultima parte: il girone infernale ovvero la guerra, che porta con sé la dissoluzione finale della stirpe di Lear e della sua famiglia, sotto una scarica di musica rock che rivela i complotti e i tradimenti. Un girone infernale dove però la morte non guarda in faccia nessuno, punendo sia innocenti sia peccatori, ed è proprio a conclusione di questa tragedia che la domanda sorge spontanea: è possibile ancora credere nel trionfo del bene sul male o è solo un’utopia? E ancora, è possibile credere nella giustizia, visto che a pagare sono quasi sempre i puri d’animo?

Siamo invasi oggi da un interessamento su alcuni temi- come quello di farsi o meno giustizia in modo autonomo- da parte degli organi politici, che è solo apparente e che poi, col passare del tempo dimostra falle, trascuratezza e poca serietà; questo è pericoloso e non è da sottovalutare, perché comporta un trionfo di ignoranza- nel vero senso della parola, cioè di non conoscenza- che sfocia in atti ingiustificabili, violenti, fascisti e razzisti (e non solo verso stranieri), che rischia di finire in un’autogestione confusa e pregna di fraintendimenti, dove distinguere poi tra carnefice e vittima diventa difficile se non impossibile. È su questi problemi, quindi, che succedono oggi come succedevano anche ai tempi del drammaturgo inglese, che dovremmo riflettere.
Scritta quattro secoli fa, tra il 1605 e il 1606, Re Lear è, purtroppo e per fortuna, come tutte le opere di Shakespeare, estremamente attuale: quanti dissidi familiari sorgono a causa di eredità? Quante morti innocenti per la spartizione di territori- penso per esempio agli israeliani e ai palestinesi – ci sono state? Quante gare si facevano nel medioevo sulla torre più alta che al giorno d’oggi mi ricorda tanto una gara a chi possiede l’arma da guerra più tossica o devastante? Riflettiamoci, e cerchiamo di affermare un po’ di giustizia nel nostro piccolo mondo: è questo il messaggio di quest’opera. Come dice Edmund nell’ultimo atto, la ruota gira e gira per tutti, e anche se le strade asfaltate che tutti intraprendono sembrano essere le più facili da percorre, non è detto che siano le più convenienti; a volte, inoltrarsi nel sottobosco può essere la strada più giusta e perché no più vantaggiosa.
C’è ancora tanto bisogno delle opere di Shakespeare in questo mondo per le generazioni presenti e per quelle future!

Martina Di Nolfo

 

Re Lear

di William Shakespeare
traduzione Cesare Garboli
con Ennio Fantastichini
e con Michele Di Mauro, Roberto Rustioni, Francesco Villano, Francesca Ciocchetti, Sara Putignano, Alice Giroldini, Mariano Pirrello, Pierluigi Corallo,
Gabriele Portoghese, Andrea Di Casa, Antonio Bannò, Zoe Zolferino
regia e adattamento Giorgio Barberio Corsetti
scene e costumi Francesco Esposito
luci Gianluca Cappelletti
musiche composte e eseguite dal vivo Luca Nostro
ideazione e realizzazione video Igor Renzetti e Lorenzo Bruno
Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Teatro Biondo – Stabile di Palermo

 

Teatro, salute e disuguaglianze

“ll teatro è politica fatta con altri mezzi” ci ha ricordato a suo tempo Eugenio Barba. Se questa massima non si è sbiadita si riconferma oggi più attuale che mai, ribadendo quel dovere proprio di tutti gli addetti al multiforme settore dello spettacolo dal vivo di farsi carico di una non secondaria responsabilità. La chiamata si fa tanto più impellente quanto più si sfilaccia la comunità che la genera, in un presente storico nel quale la partecipazione politica non è delle più fortunate e la fatidica forbice fra cittadino e istituzioni va intensificandosi anziché accorciarsi.

Quel vasto territorio pedagogico, artistico e politico che oggi si definisce sotto il nome di Teatro sociale e di comunità sembra accettare tale sfida e accoglierne le problematiche pratiche e le contraddizioni metodologiche. Si è svolta a questo proposito, il primo di febbraio, una giornata internazionale di studio dal titolo Teatro, salute e disuguaglianza. Dodici ore di lezioni, approfondimenti e tavole rotonde organizzate dall’Università di Torino presso l’Aula Magna dello stesso ateneo e il Teatro Vittoria di via Gramsci. Docenti, operatori, esperti e ricercatori si sono succeduti in un exploit di esposizioni che avessero, come ha sottolineato l’Assessora Monica Cerutti, un comune filo rosso che riconducesse ad una impellente quanto scottante tematica: l’ascolto della persona. Una materia complessa che richiede un approccio trasversale ma al contempo delicato, in un contesto amministrativo nel quale, al contrario, l’ambito pubblico sembra ragionare per compartimenti stagni.

L’unità di ricerca del PRIN – Per-formare il sociale, riallacciandosi a quell’antica tradizione di un teatro come forma di cura, vuole riaggiornare l’argomento all’epoca dell’istituzione sanitaria, all’insegna delle nuove strategie comunitarie e delle pratiche artistico-terapeutiche, affinché il teatro sociale possa acquisire un suo autonomo statuto scientifico. Si ricorda a tal proposito che il teatro sociale così inteso è nato proprio sul suolo torinese e che la sua natura democratica e paritara lo rende uno strumento efficace sia all’interno delle performing-arts sia come risorsa per i settori socio-sanitari e socio-educativi. Chi ha a cuore la comunità come produttrice di cultura e la cultura come indicatore di salute della stessa comunità non può prescindere dal promuovere le possibilità dell’arte di coltivare i rapporti sociali laddove ve ne sia carenza. Il Social Community Theatre Centre (SCT) dell’Università di Torino, diretto da Alessandra Rossi Ghiglione e ideato insieme ad Alessandro Pontremoli, forte di una lunga esperienza sul campo, offre oggi una metodologia riconosciuta a livello internazionale, un dispositivo culturale di innovazione sociale e di contrasto alle disuguaglianze.

Per contro bisogna tener presente che chi il teatro lo fa da una vita ha a cuore il suo ruolo professionale e difficilmente accetterà con serenità di condividere il suo bagaglio di competenze con una fetta di pubblico estranea al suo mondo operativo. O, se lo farà, ne trarrà ben poca soddisfazione. Questa impasse viene portata alla luce dall’intervento di Pier Luigi Sacco. Il Professore dell’Università IULM di Milano, infatti, sottolinea li rischio considerevole di strumentalizzazione culturale ai fini terapeutici cui lo strumento artistico in mano ai non artisti può andare incontro. In altre parole sarebbe facile ritrovarsi a somministrare dosi di pratiche teatrali in sostituzione a prescrizioni mediche. Siccome non sono disponibili facili risposte, la necessità è quella di co-progettare a stretto contatto con gli artisti del teatro che siano volenterosi di farlo, per rispettare un ampio spettro di competenze preziose e valorizzare un ambito artistico-professionale che necessariamente possiede regole e metodi tutti suoi. Diversa è invece la posizione di Giuseppe Costa, docente di Sanità Pubblica presso l’Università di Torino, il quale, occupandosi da vicino di epidemiologica, considera a prescindere gli strumenti culturali e sociali i più validi a migliorare quella costruzione sociale che è la salute. Chiude la lunga giornata l’intervento di Claudio Bernardi il quale, con sarcasmo, collocandosi fra i due tavoli dell’istituzione (i docenti) e del mercato (gli operatori), sottolinea la difficoltà implicita di chi si trova nel mezzo dei due tavoli (il cittadino) di farsi sentire e contemporaneamente di comprendere e condividere gli equilibri dei due colossi posti ai suoi lati, con partecipazione e fiducia.

La sfida lanciata da Eugenio Barba, al fine di ricreare quello spazio potenziale dove differenze fra dominato e dominatore si possano, non solo retoricamente, superare, rimane aperta e quanto mai attuale. In particolare se confrontata ai recenti sviluppi storico-politici. La giornata di studio denota l’intenso impegno dell’istituzione universitaria, capace di sporcarsi le mani con le problematiche sociali e di non rifugiarsi, soprattutto in campo artistico, nello sterile accademismo.

Sei Personaggi in cerca d’autore

I sei personaggi pirandelliani cercano il loro autore sul palcoscenico del Teatro Astra dal 24 al 28 Gennaio, diretti da Luca de Fusco.

Uno dei testi teatrali italiani più importanti del Novecento; un’opera, come afferma lo stesso de Fusco, “che proveniva dal futuro, anticipando i tempi in modo clamoroso”.

Per apprenderla appieno e comprendere il motore che ha spinto Pirandello a scrivere quest’opera credo sia necessario un breve excursus storico sul dramma.

A partire dall’Ottocento il sistema di valori del dramma borghese, ossia il suo essere assoluto, primario, presente e basato su rapporti intersoggettivi, va in crisi.

Con autori come Ibsen, Cechov e Strindberg, comincia a scardinarsi il modello secondo il quale un dramma per essere tale deve essere un concatenamento di azioni mosse da rapporti interpersonali che avvengono nel momento stesso in cui noi vi assistiamo.

Si comincia a riconoscere l’impossibilità di continuare a portare sulla scena drammi di questo tipo, e ad intravedere la necessità di lasciare spazio ad altri temi, come il passato, la frammentazione dell’io e l’impossibilità dei rapporti umani.

Pirandello, agli inizi del Novecento, appena dopo la fine della Prima guerra mondiale, è proprio questo che porta in scena: l’impossibilità.

Ma impossibilità di cosa?

I personaggi, entità che provengono da un altro mondo, che esistono e vivono come il loro autore li ha concepiti, “più vivi di quelli che respirano e vestono panni; meno reali forse, ma più veri” (come dice il Padre al Capocomico), costretti a vivere giorno dopo giorno il loro dramma, senza possibilità di uscirne, non possono essere rappresentati a teatro senza perdere la loro autenticità. Ogni attore interpreta un personaggio inevitabilmente a modo suo, e lo stesso spazio teatrale non permette la rappresentazione realistica dei fatti, ma è necessario mettere in atto delle convenzioni che i personaggi non accettano.

Allo stesso tempo però essi hanno bisogno di vivere il loro dramma, dal momento che esistono in relazione ad esso. Cercano un autore perchè colui che li ha concepiti (Pirandello stesso) si è rifiutato di completare l’opera dal momento in cui si è reso consapevole della sua irrappresentabilità.

Dovevano essere predestinati al romanzo, ma sono approdati al teatro, e smaniano per avere una vita artistica. Ma forse non è il teatro la forma più adatta per quello che cercano.

Questo il punto di partenza di Luca de Fusco.

Citando lo stesso regista: “la loro vicenda, così piena di ricordi, di visioni, di particolari di splendente importanza, mi ha subito fatto pensare ad una trama che si presta ad essere rappresentata più attraverso l’occhio visionario del cinema che tramite quello più concreto del teatro”.

Il lavoro del regista nasce dal pensare ai personaggi come un esperimento in rapporto con una fase iniziale dell’arte cinematografica.

Come ci racconta Gianni Garrera “i sei personaggi rinviano ad un eventualità di un cinema parlante, in un epoca in cui il cinema era ancora muto e in cui l’ipotesi avveniristica di un cinema parlante era vista come una minaccia per il teatro”.

I comportamenti dei personaggi appartengono al linguaggio cinematografico più che a quello teatrale, grazie al quale si possono udire i sottovoce, lo zoom può passare da un primo piano ad una panoramica o ad un dettaglio e ci permette di assistere ad azioni simultanee guidandoci tra i diversi luoghi senza difficoltà.

Con questo lavoro di contaminazione tra teatro e cinema de Fusco cerca di dare ai personaggi “ciò che chiedono invano al regista”.

Il video è usato per accentuare la dimensione “altra” dei personaggi, per creare gli spazi da loro richiesti e per permetterci di entrare nei loro ricordi.

Per il resto viene mantenuta l’atmosfera esplicitata dalle indicazioni di Pirandello, anche se queste non vengono rispettate alla lettera: gli attori e il capocomico entrano dalla platea, la prima attrice fa la sua entrata con un cagnolino al guinzaglio, i personaggi, molto differenziati rispetto agli attori grazie a trucco, costumi e luci (anche se non portano le maschere), non entrano dalla platea ma dal fondale del teatro che si apre “come per magia”.

La scenografia rappresenta uno spazio teatrale, più sobrio e crudele rispetto a quello che ci raccontano le didascalie dell’autore.

A completare la grande efficacia della messa in scena c’è l’interpretazione magistrale degli attori e dei personaggi, in particolare Eros Pagni e Gaia Aprea rispettivamente nel ruolo di Padre e Figliastra.

Meravigliosa e surreale l’entrata di Madama Pace (Angela Pagano), agghiacciante la scena del bordello, indisponente il silenzio del Figlio (Gianluca Musiu), emozionante l’annegamento della bambina (non un attrice ma una bambola) dietro ad uno schermo d’acqua, sorprendente lo sparo del giovinetto (Silvia Biancalana).

Immancabile il finale in cui non è più possibile distinguere i due mondi di realtà e finzione, che ci lascia, ora come nella prima rappresentazione del 1921, senza parole.

Concludo citando ancora una volta de Fusco: “Spero di indurre ad una rilettura scenica e letteraria di un testo che parla ancora oggi alla nostra coscienza contemporanea e ci invita a farci le domande più importanti e terribili sulla natura, il significato, l’essenza stessa della nostra esistenza”.

Lara Barzon

Il dramaturg come figura di potere

Per il ciclo “Partecipare” alla Lavanderia a Vapore di Collegno continuano gli incontri di teoria sulla danza e sullo spettacolo dal vivo aperti a tutti, e che in questo caso premiano i partecipanti con agevolazioni, grazie alla nuova carta “IO PARTECIPO”. La ragione della conferenza è da ricercare in un simposio svoltosi nell’intera giornata del 3 dicembre del 2016 intorno alla figura del dramaturg, convegno del quale sono da poco stati pubblicati gli atti. Ospiti di questa presentazione, Alessandro Pontremoli e Carlo Salone (entrambi dell’Università di Torino, rispettivamente Dipartimento di Studi Umanistici e DIST), in dialogo con Workspace Ricerca X e Piemonte dal Vivo, il cui nuovo direttore, Matteo Negrin, si è presentato al pubblico della Lavanderia in apertura all’incontro. Per inciso, Negrin ha specificato l’intenzione di capitalizzare il prezioso lavoro svolto nello scorso triennio da Paolo Cantù e migliorarne l’andamento confrontandosi con i risultati già ottenuti.

Dalle riflessioni di Bourriaud a quelle di Foucault, passando per de Certau, si nota subito di come la semplice presentazione di un convegno sulla discutibile figura del dramaturg conduca in zone del dibattito teorico ben più vaste ed urgenti del solo mercato dello spettacolo. Il sistema teatrale, il suo sviluppo, e soprattutto il suo presunto inviluppo, si confermano strettamente legati alla vita politica di un paese, muovendosi fra sociologia e tradizione impresariale. Titolo del convegno del 2016 era RE: SEARCH DANCE DRAMATURGY, laddove si cercava di identificare un preciso ruolo professionale che si distinguesse da quello del semplice drammaturgo. Se quest’ultimo è per definizione colui che firma il testo teatrale da mettere in scena attraverso l’interpretazione di un regista e della sua compagnia, il dramaturg sarebbe invece quell’individuo, ma anche quel processo creativo in senso più generale, che sta all’origine della contemporanea creazione artistica post-moderna (o post-drammatica, secondo una fortunata definizione di Hans-Thies Lehmann) ormai ampiamente svincolata dalla narratività intesa in senso classico, quella della tradizione aristotelica e della costruzione di situazioni e personaggi facilmente riconoscibili e condivisibili.

Figura tanto ricercata quanto temuta per l’importanza che evidentemente riveste nella riuscita di uno spettacolo, il dramaturg da un lato dona speranza agli operatori che si ritrovano assistiti nel difficile compito di produrre e distribuire spettacoli impossibili, dall’altro preoccupa oltremodo gli artisti che richiedono una libertà d’azione sempre più ampia, ma che facilmente sfocia in un apparente caos. Specialmente se si parla di artisti della danza contemporanea (ricordiamo che la Lavanderia a Vapore, in quanto centro europeo per la coreografia, ha molto a cuore l’argomento). La danza cosiddetta “del terzo paesaggio” (la puntuale definizione è di Fabio Acca) sappiamo infatti essere una disciplina che, in virtù forse del suo linguaggio strettamente fisico, ha con la cultura letteraria e/o drammaturgica, da sempre, un cattivo rapporto. Ma se fosse solo una questione di fisicità sarebbe tutto molto più facile. Se invece la risoluzione dei problemi relativi alla fruizione della danza non è così scontata, e questo convegno ne è una delle molte conferme, si tratta di ricercarne le cause, più audacemente, alla radice.

La definizione di Fabio Acca, per esempio, ci induce a pensare che possa essere proprio la sua innata tendenza allo sconfinamento ad impoverire le manifestazioni della performance contemporanea, non consentendole mai acquisire fondamento sociale, culturale, etico e politico. Di diventare, in altre parole, una disciplina, con una sua più o meno ben delineata identità. Identità che, per statuto, necessita di limiti per definirsi, e in mancanza della quale non può consolidarsi un interesse spettatoriale che vada al di là della mera fascinazione passeggera.

La problematica “danza contemporanea” richiede forse una rivalutazione del suo statuto, ma da parte degli stessi artisti. Non più un terzo paesaggio nel senso di un luogo abbandonato dall’uomo, come vorrebbe la natura della definizione, mutuata da un celebre saggio di Clément, ma nel senso di un luogo certamente altro dal paesaggio comune, ma pur tuttavia dotato di tutte quelle caratteristiche che fanno di un paesaggio un territorio.

Chissà poi se sarà più corretto farlo sfruttando l’apporto di nuove circostanze progettuali o, al contrario, sfoltendo considerevolmente la mole di labirintiche strutture produttive fra le quali il nuovo addetto ai lavori si trova suo malgrado a doversi orientare?

Per risposte a queste ed altre domande invitiamo a consultare il libro in questione, RE:SEARCH_DANCE DRAMATURGY, Prinp Editore, 2017.

Per una panoramica dei due spettacoli che hanno seguito la conferenza alla Lavanderia (Why are we so f***ing dramatic, produzione Fattoria Vittadini e Peurbleue, di C&C Company) rimandiamo alla recensione di Lucrezia Collimato.

La Turandot al Teatro Regio – Puccini ai tempi di Matrix

Una Turandot “attraverso il cervello moderno” aveva chiesto Puccini in una lettera del 18 marzo 1920 a Renato Simoni, autore del libretto con Giuseppe Adami. La grande “incompiuta” del Novecento, tratta dalla fiaba teatrale di Carlo Gozzi, sembra proprio abitare il palcoscenico mentale contemporaneo nel nuovo allestimento del Teatro Regio, in scena dal 16 al 25 gennaio.

Gianandrea Noseda, Direttore musicale del Teatro, che ha appena ricevuto una nomination ai 60th Grammy Awards, sceglie di fermarsi là dove si fermò Toscanini, alla prima assoluta, il 25 aprile 1926 al Teatro alla Scala. Si dice che a metà del terz’atto il leggendario Direttore si sia voltato verso il pubblico dicendo: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto». La versione più eseguita è quella di Franco Alfano, con i pesanti tagli di Toscanini; sono da citare, inoltre, la versione di Alfano senza tagli, resa disponibile dal 1979 e quella di Luciano Berio del 2001.

Sul finale dell’opera le questioni sono aperte: non fu la morte a interromperne la creazione ma complessità compositive sul fronte musicale e drammaturgico. Il problema della Turandot è soprattutto un problema teatrale. Può un bacio sgelare una tiranna che si dedica con ferocia a decapitazioni seriali? Il melodramma ha esigenze interne di coerenza, da cui la fiaba può dirsi libera. Il disagio che si cela tra le pieghe delle due linee tematiche incarnate da Turandot-donna carnefice e Liù-donna vittima sembra irrisolvibile. Liù si presenta come l’ultimo anello della catena di donne pucciniane, martiri di una passione amorosa, vissuta come religione. Proprio sul sacrificio della dolce schiava termina l’allestimento del Regio. Noseda dichiara: «Quella fine non mi ha mai convinto. Non ho mai capito quel lieto fine esagerato». Turandot non esiste, dicono le maschere Ping Pang e Pong. Non esiste che il Niente, nel quale ti annulli!

La regia di Stefano Poda, che cura anche scene, costumi, coreografia e luci, segue questa suggestione e crea uno spazio mentale in cui l’io onirico di Calaf è chiamato a confrontarsi con l’enigma dell’Alterità. Turandot è la proiezione del fantasmatico Altro che si replica all’infinito sul palcoscenico. Ad interpretarla il soprano sloveno Rebeka Lokar, mentre Calaf è il tenore Jorge de León e Liù è il soprano Erika Grimaldi. Danzatrici e danzatori accompagnano la messa in scena e ne sono, a detta dello stesso Poda, l’anima profonda. La sua è una Turandot tanto cantata quanto coreografata, nella quale il validissimo corpo di ballo, selezionato fra centinaia di danzatori torinesi, ha consentito al regista-coreografo una scrittura motoria impeccabile, che niente ha da invidiare ai migliori pezzi di danza contemporanea presenti sulle scene oggi. Corpi seminudi, pitturati di bianco e privi di caratterizzazioni, apparentemente inanimati, riportano la materia coreica ad un incedere primitivo e misterioso, un sussulto spirituale, fra l’atletico e l’inquietante.

Lo spettacolo ha un forte impatto visivo che, pur senza compiacimenti decorativi, cerca evidentemente il gusto di un pubblico, la cui cultura visuale è nutrita da campagne pubblicitarie, serie televisive, riviste di moda e post glamour di giovani influencer. Espressamente debitore di tale immaginario si rivela tutto il materiale scenico di cui si avvale l’opera. La scena è un’unica stanza asettica, nella quale un minimalismo architettonico convive con un’estetica hi-tech da ultimo grido, mentre un’immancabile struttura circolare consente al palcoscenico di girare nei momenti salienti della recita. I costumi incrociano lo stile dei film di fantascienza, tra armi e copricapo alla Guerre Stellari, e parrucche e mantelli cyberpunk in stile Matrix, attraversando un orientalismo coerentemente riadattato ai tempi contemporanei. Orientalismo che, tra l’altro, è da sempre parte della tradizione estetica e tematica del più alto teatro europeo. La matrice cinematografica risulta inoltre dalla commistione di riferimenti che intrecciano universi culturali i più diversificati in una miscela spettacolare tipicamente post-moderna dove le possibili citazioni si sprecano. Tale ottica forse non è in contrasto con quella capacità, tutta pucciniana, di tradurre attraverso nuove estetiche i valori della modernità. Tra il fashion design e la sfilata in passerella, lo stesso futuro del melodramma sembra così traslare la sua provenienza artigianale dal campo del teatro a quello della moda. La scelta di lasciare l’opera aperta è senz’altro suggestiva perché mette in risalto il mistero del dramma e le contraddizioni che i vari finali non sono riusciti a risolvere: una scelta “di tendenza”, anche questa.

Sottolineiamo, in coerenza con gli aggiornamenti in atto all’interno della secolare industria dello spettacolo, che questa produzione è il primo contributo del Teatro Regio al progetto europeo OperaVision, piattaforma video dedicata all’opera, sulla quale sarà visibile in streaming gratuito per sei mesi a partire dal 25 gennaio, offrendosi ad una platea virtuale internazionale.

Quella di Noseda e Poda è, in definitiva, una Turandot plastica, attraente e sensuale, che contemporaneamente sa e vuole essere algida e fredda come una sala operatoria. Gli 11 minuti di applausi rendono onore al mastodontico lavoro che l’opera ha alle sue spalle.

Foto di copertina di Ramella&Giannese

 

Recensione di Tobia Rossetti e Marida Bruson

Rumori fuori scena

Rumori fuori scena, titolo originale Noise off è una commedia scritta dal drammaturgo britannico Michael Frayn nel 1977, che ha avuto, e continua ad avere, un successo clamoroso: tradotta in 29 lingue è la commedia più rappresentata del Novecento e nel 1992 è diventata un film diretto da Peter Bogdanovich.
Non è difficile immaginare il motivo di questo successo: si tratta di una commedia che porta lo spettatore nel dietro le quinte svelandogli i segreti di una stravagante compagnia che racchiude in sé tutti i “tipi” umani: il dongiovanni, la bella e frivola, l’insicuro, l’ottimista e l’ubriacone.

È l’intreccio di due linee narrative, che mette in luce la semplicità nell’uomo, influenzabile e anche disarmato quando si parla di sentimenti, battibecchi e pettegolezzi. Ci viene presentata infatti una compagnia, traboccante dei caratteri-cliché di cui dicevamo, con la loro farsa che, con forza di volontà e buone intenzioni, sta mettendo in scena: Niente Addosso di Robert Hausemonger (titolo e autore sono inventati dallo stesso Frayn). Il tutto però è mescolato e strettamente collegato con le dinamiche personali tra gli attori, che nascono, fioriscono e interagiscono continuamente con il loro lavoro. Sembra insomma di ritrovarsi davanti a una classica tele novelas con i colpi di scena, le storie d’amore, i tradimenti, l’imbranato e via discorrendo, con la differenza che si è a teatro. Proprio per questo suo tono è inevitabile che i personaggi siano parecchi; se escludiamo il regista, Lloyd Dallas (interpretato da Fabrizio Martorelli), il direttore di scena Tim Allgood ( Ettore Lalli ) e l’assistente di scena Poppy Norton Taylor ( Lia Tomatis ), gli altri attori si trovano ad avere un doppio ruolo:
Dotty Otley, nello spettacolo La signora Clackett ( Daniela de Pellegrin ), Garry Lejeune, nello spettacolo Roger Tramplemain, ( Claudio Insegno ), Brooke Ashton, nello spettacolo Vicky (Carlotta Iossetti ), Frederick Fellowes, nello spettacolo Philip Brent e Lo Sceicco (Andrea Beltramo), Belinda Blair, nello spettacolo Flavia Brent (Carlotta Viscovo), Selsdon Mowbray, nello spettacolo Lo Scassinatore (Guido Ruffa).
La commedia, divisa in tre atti, si apre con una musichetta leggera, con l’entrata di quella che pare una donna di casa intenta a prepararsi a guardare la tv, comodamente sul divano, con giornale e acciughe, approfittando dell’assenza dei padroni. Lo spettatore inizia così, come naturale, a concentrarsi, per capire chi sia, quale sia il suo rapporto con la casa, con il lavoro, insomma mette in moto i classici meccanismi per cercare di crearsi il nodo iniziale da cui far partire il filo della storia. Per questo rimane quasi scombussolato, dopo cinque o sei minuti, all’irrompente voce che grida dalla platea. Il castello di ragionamenti viene bellamente buttato giù e ci si rende conto di trovarsi in una situazione meta teatrale con il regista che interrompe la scena. La mente allora scatta e capiamo di assistere alle prove generali, disperate della compagnia che da quel momento in poi ci porteranno all’interno di un perfetto meccanismo di equivoci, tra la commedia Niente addosso e gli errori degli attori, tanto che la fine del primo atto coincide con la fine del primo atto della commedia.

Nel secondo atto, invece, la situazione si capovolge. Il pubblico non si trova più dalla parte degli spettatori, ma è invitato a spiare dietro le quinte, dove si troverà faccia a faccia con le dinamiche sentimentali, i litigi e le piccole vendette degli attori, che inevitabilmente andranno a condizionare l’andamento dello spettacolo. Sapendo già le dinamiche della farsa, però, che si sente echeggiare dietro le scenografie, ci si sente quasi complici del disastro. L’aprirsi delle porte, l’entrare, l’uscire, gli oggetti di scena che cadono, si impigliano, rianimano nella memoria di chi guarda il loro ruolo nello spettacolo, ruolo che, ovviamente, andrà perso per via degli attori impulsivi e ormai completamente persi nelle loro sfere personali di vita quotidiana.

Nel terzo atto, il nostro sguardo viene nuovamente ribaltato. Si rivede il palco con la scenografia della casa, il divano, il tavolino e la tv. Ci si rende anche conto della degenerazione che ha avuto il tour di questa compagnia grazie a quella messa in scena che, organizzata in modo casuale, disordinato e sporco, grida pietà. Per la terza ed ultima volta ci si riprepara così a godere di Niente addosso resa ancora più esilarante dall’aumentare dei litigi nel retroscena che dirompano nel quadro in piena vista al pubblico.
Nel finale, quando ormai sembra impossibile recuperare la situazione, tutto si sistema per il meglio, come in ogni commedia che si rispetti. I personaggi infatti, si ritrovano imbarazzati tutti sulla scena, persino il regista, che aveva affermato più volta di non volerne sapere più nulla, all’ultimo si veste come può ed entra in scena cercando di recuperare le fila di quella commedia naufragante.

Nella regia di Claudio Insigno, gli effetti comici sono portati sul palcoscenico con estrema maestria; lo spettacolo è una continua risata dall’inizio alla fine, grazie alla caratterizzazione comica dei personaggi e ai ritmi sostenuti.
La scena, curata da Francesco Fassone, e i costumi, di Barbara Tomada, ci riportano ad un teatro tradizionale, in cui la scenografia è realistica e costruita, e i costumi rappresentativi del ruolo, cosa al giorno d’oggi alquanto rara.
Uno spettacolo famigliare, che mira allo svago, all’alleggerire la mente e fa sentire lo spettatore un’ospite ben accolto, in un umile, semplice e sentimentale compagnia allo sbaraglio.

Lara Barzon e Gisella Grandis

 

Don Chisciotte: tragicommedia dell’arte

La stagione Live Show Cumiana ha ospitato presso il teatro Carena lo Stivalaccio Teatro, compagnia veneta da Scorzé (VE), proponendo una serata ispirata al teatro popolare e alla commedia dell’arte. Marco Zoppello e Michele Mori portano in scena un Don Chisciotte raccontato da due Comici Gelosi della seconda metà del ‘500: Giulio Pasquati, padovano, in arte Pantalone e Girolamo Salimbeni fiorentino, in arte Piombino.

Sul fondale una tela quadrata fatta di pezze color terra su toni marroni, rossi, aranciati. Poco più avanti, al centro, un vecchio e misterioso baule verde; verde speranza, come quella di salvezza che i due comici ripongono nel teatro e nella vita. Gli attori iniziano a recitare tra il pubbico, come si addice a quel teatro comico a cui piace disintegrare la quarta parete nelle due direzioni: non solo dal palco alla platea, ma anche dalla platea al palco.

Tutto ha inizio con una condanna a morte. E’ il 25 febbraio dell’anno 1545, siamo a Venezia e sua eccellenza l’Inquisitore dichiara i due comici colpevoli di aver inscenato sulla pubblica via uno “sconcio” spettacolo di commedia dell’arte in tempo di Quaresima, per di più senza aver pagato il plateatico. Ma i condannati hanno un ultimo desiderio: recitare una commedia. E’ concessa loro una sola ora di vita, poi la forca. Allora ecco che decidono di mettere in scena le buffe “imprese” del famoso hidalgo della Mancia e del suo fedele scudiero-contadino. Salimbeni nei panni di un Don Chisciotte toscano e Pasquati in quelli di un Sancho Panza veneto ripercorrono le avventure dei due celebri personaggi in un incalzare di episodi, conditi talvolta con qualche trovata inedita; laddove non si ricordano come va avanti la storia si inventano alcuni particolari, ma qualsiasi trovata va bene pur di ritardare l’esecuzione e assaporare qualche minuto in più di vita.

Prima di tutto urge il cosiddetto momento equino, ovvero la presentazione del nobile destriero, dell’immane quadrupede, della fiera bestia: Ronzinante, il ronzino “unigamba”, così classificato da Salimbeni. Come definire con altrettanta eleganza un fantoccio che ha per testa un grumo di pezza e per corpo un manico di scopa? Mai definizione fu più calzante. Dal canto suo anche Pasquati procura al suo Sancho l’asinello di rito: un modellino di cavallo a dondolo per nani da giardino. Una volta recuperata la cavalcatura più adatta, possono finalmente dedicarsi a imprese gloriose: combattono nel nome della dolce Dulcinea, in un mondo deformato, tra osti castellani e catini fatti elmi, tra giganti mulini a vento ed eserciti di pecore, “perché – come alla fine si rende conto Don Chisciotte – viviamo in un mondo in cui vivere non è che sognare” (La vita è sogno, Calderon De la Barca).

Di tanto in tanto l’inquisitore, quando nota che i due comici temporeggiano, interviene battendo il tempo. Ma i due guitti cialtroni si aggrappano a qualunque pretesto in modo da tirare la commedia per le lunghe; si inventano persino un nuovo capitolo del romanzo pur di rimandare la condanna. Grazie ai suggerimenti di un pubblico attivo e partecipe, ecco il capitolo inedito di Cervantes: la nuova avventura di Don Chisciotte contro il tremendo Gianni Morandi. Il marrano tiene nascosta Dulcinea nel comune di Napoli, ma verrà sconfitto dal cavaliere errante con un potentissimo schiaccianoci.

Con Don Chisciotte: tragicommedia dell’arte ci troviamo di fronte a quel teatro che sembra all’improvviso, ma non lo è. Marco Zoppello e Michele Mori seguono precisi codici comici della commedia dell’arte: se danno l’impressione di andare a braccio, in realtà sanno benissimo dove andare a parare e dove portare il pubblico. Curato nel dettaglio a livello tecnico, di movimento e di parola, lo spettacolo si regge anche su una drammaturgia ben pensata. A fianco al gesto, al ritmo, alle onomatopee incalzanti, ai lazzi e alle tirate, si pone un testo intessuto di citazioni come una ragnatela: da Dante a De la Barca, da Shakespeare a Leopardi e molti altri.

Perché però far raccontare il Don Chisciotte da due comici dell’arte? Il motivo di questa scelta è duplice. Innanzitutto la predisposizione naturale del romanzo di Cervantes alla messa in scena. Si tratta infatti di un testo dotato di dinamiche e meccanismi comici, che risultano assimilabili alla Commedia dell’arte, in particolare i due protagonisti possono corrispondere ad alcuni “tipi fissi”: da un lato troviamo Don Chisciotte, a metà tra un Capitano sognatore e un cieco Amoroso, che vive di letteratura e ama di un amore puro, platonico, idealizzato; dall’altro Sancho Panza, più simile ad uno Zanni, umile contadino e servo affamato, che punta al sodo per appagare i suoi bisogni primari (fame, sonno, sesso).

In secondo luogo la scelta è simbolica, strettamente legata ad un momento critico e di rinascita della compagnia lo Stivalaccio. Unici “superstiti” della compagnia originaria, Marco Zoppello e Michele Mori, si sono dovuti inventare uno spettacolo che permettesse loro di poter continuare a vivere di teatro. E allora, rimasti duo, perché non raccontare con Don Chisciotte e Sancho Panza le loro disavventure e magari farle raccontare da due Comici Gelosi condannati a morte?
Pasquati e Salimbeni rischiano la morte e cercano attraverso il pubblico di salvarsi la vita, si aggrappano a quello che sanno fare meglio: recitare, fingere, modellare e plasmare il pubblico, giocarci e prendersene gioco, metterlo in burla, ottenere consenso, plausi, approvazione, la grazia, la vita. Alla fine il pubblico applaude e i comici si salvano, vox populi, vox dei.

Alessandra Minchillo

 

Live Show Cumiana – Teatro Carena
22 dicembre 2017

Don Chisciotte: tragicommedia dell’arte
Produzione Stivalaccio Teatro

interpretazione e regia:
Michele Mori – Girolamo Salimbeni/Don Chisciotte
Marco Zoppello – Giulio Pasquati/Sancho Panza

soggetto originale Marco Zoppello
dialoghi Carlo Boso, Marco Zoppello
costumi e fondale Antonia Munaretti
maschere Roberto Maria Macchi
audio e luci Matteo Pozzobon