La ventiquattresima edizione del Festival delle Colline Torinesi si è aperta domenica 2 giugno 2019 alla Lavanderia a Vapore di Collegno. Ad inaugurarla una delle compagnie della sezione “grandi ritorni”, la Socìetas, che, solcando la storia del teatro italiano fin dall’anno della sua fondazione nel 1981, ha anche segnato quella del Festival, contribuendo, come scrive Sergio Ariotti, «in modo determinante a definirne l’immagine in Italia e in Europa». Un grande omaggio ed un grande onore dunque avere sulla scena Chiara Guidi e Claudia Castellucci a stendere il tappeto rosso a quest’edizione, il cui tema dominante è “Fluctus. Declinazioni del viaggio”. E proprio di un viaggio tratta lo spettacolo Il regno profondo. Perché sei qui?. Non di un viaggio nel senso letterale del termine, concreto, ma di un viaggio paralizzato, immobile, che paradossalmente attraversa in maniera trasversale la storia dell’intera umanità e la storia di ogni singolo individuo, posto davanti ad un primo, semplice interrogativo “perché sei qui?” e all’impossibilità di darvi una risposta.
Lo spettacolo segue una serie incalzante di domande, tanto banali quanto esistenziali, intervallate da provvisorie risposte, che più che tali sembrano delle insoddisfacenti consolazioni. Le due attrici, nella figura di due luogotenenti, per il solo motivo di presidiare il piccolo palchetto su cui sono imprigionate, si cimentano in quella che è possibile definire una vera e propria aggressione allo spettatore, in un impatto frontale. Le due voci studiatissime parlano all’unisono, si sfasano e dialogano tra di loro e con se stesse, seguendo un ritmo, una cadenza ed un’intonazione che non sono né quelli della parola né quelli della musica, ma sembrano provenire dalle cavità interiori, non tanto delle due sagome che si stagliano sul palco, ma del singolo spettatore. Le due donne, nel loro percorso pluriennale di studio della voce, finiscono per perderla e rubarla ad altri, agli spettatori, facendosi carico di interrogativi e flussi di coscienza e incoscienza di cui probabilmente non si sarebbe in grado di sopportare la responsabilità da soli. Ecco che la pervasione densa e totale di tutti sensi in cui ci si ritrova immersi assume forme sovrannaturali, quasi extracorporee: lo spettatore sembra vedere di fronte a sé ma udire dentro di sé.
Tutto concorre a questa dislocazione, confusione e straniamento dei sensi. La bidimensionalità scenografica, che emerge dal buio, a tratti offuscata da fumi ottenebranti. Il fascio triangolare di luce che cambia colore e calore ed illumina dall’alto le due luogotenenti, come piccole voci all’interno della coscienza umana poste sotto ad un riflettore, che le schiaccia e le circoscrive. L’immobilità della Castellucci e la gestualità della Guidi, che dirige il ritmo delle intonazioni con la mano destra. Le due voci che si rimpiccioliscono e si ingigantiscono attraversando fasi di soggezione e deliri di potenza, in una costante dipendenza reciproca col “Tu” a cui si riferiscono sin dall’inizio con ostinata e disperata insistenza, nel tentativo di liberarsi dalla sua incombenza. Un “Tu” divino, un “Tu” che pare conoscere tutto in anticipo, un “Tu” al quale, nella seconda parte dello spettacolo, si cerca di sostituire un “Io” solo in apparenza forte perché dichiarato con veemenza, mentre cerca di non essere schiacciato. Un “Io” che viene fuori assieme alla cattiveria, che vuole essere artefice del proprio destino ma si sente colpevole in ogni suo desiderio. Un “Io” che sfasa le voci in preda al dubbio e sul finale lascia spazio ad un nome, “Paola”, che sembra rispondere alla domanda “Come ti chiami?”, formalizzando finalmente un’identità a lungo ricercata. È tuttavia un nome vuoto, pronunciato quasi da un automa, che gira su se stesso in cortocircuito e che nuovamente non risponde a nessuna domanda, poiché quel “ti” nasconde il vero interrogativo senza risposta: come Tu chiami te stesso?
Il teatro non è completamente buio, la luce è flebilmente pulsante, ci si vede, si colgono i movimenti di tutti, si condivide eppure si è soli. Si parla con se stessi circondati da altre persone la cui presenza è fortemente percepibile, ai limiti del tollerabile. Si parla con se stessi eppure a parlare è qualcun altro. Le due voci, poiché solo di voci si può parlare, mentre i corpi paiono i contenitori risonanti dell’eco del suono, tra veemenza, ironia e indifesa dolcezza, striscianti si insinuano tra il pubblico e lo spogliano, lasciandolo nudo di fronte agli altri, di una nudità paralizzante nella sua verità.
Il finale aperto, di magistrale impatto, lascia col fiato sospeso, dinanzi alla genialità eppur semplicità dell’invenzione. Lascia oscillanti tra l’amarezza di un’inappagata speranza in una risposta conclusiva e la consapevolezza di aver forse trovato quella riposta proprio nella sua mancata esistenza definitiva.
Il regno profondo. Perché sei qui? è il teatro di cui si sente il bisogno. È il teatro che ha trovato la chiave per rivolgersi al pubblico contemporaneo nel rispondere al delirio col delirio in una semplicità che non cade mai nella banalità, nel combattere il bombardamento dell’immagine e lo sfarzo incontrollato di stimoli e visioni, nel calcare il gioco del teatro con sensibile rispetto, in una sorta di inchino riverente a tutta la potenza di cui è capace.
Ada Turco
IL REGNO PROFONDO. PERCHÉ SEI QUI?
scritto da Claudia Castellucci
regia vocale Chiara Guidi
interpretato da Claudia Castellucci e Chiara Guidi
musiche Scott Gibbons, Giuseppe Ielasi
direttore tecnico Eugenio Resta
fonico Andrea Scardovi
organizzazione Elena De Pascale e Stefania Lora
produzione Socìetas