Facce attonite, sguardi smarriti quando nel 2013 il nome di Claudio Magris faceva capolino nella prova di maturità. Stesse facce sbigottite, altrettanta meraviglia (nell’accezione greca: quella che terrorizza e ferisce) nel 2017 quando in luogo di Magris è Giorgio Caproni a fare la sua epifania nella tanto temuta prova. Il verdetto è inequivocabile: nella maggioranza dei casi la scuola non riesce a instillare una passione abbastanza intensa da valicare i confini didattici e dar vita a una ricerca letteraria personale che, cucendosi alle biografie personali, regali l’illusione di non essere soli.
Proprio con una magnifica lettura dei versi di Caproni, il 12 ottobre, si sono aperti i battenti del Teatro Astra. Un introitus che segna il percorso di una stagione teatrale che ha voluto accendere i riflettori sulla letteratura italiana contemporanea: Moravia, Testori, Gualtieri, Benni sono gli altri scrittori che personalmente o attraverso le loro pagine incontreremo al Teatro Astra.
Torniamo alla serata inaugurale. A dare voce e corpo alle parole di Caproni è stato Fabrizio Gifuni, attore ormai navigato, che da tempo propone in teatro testi di letteratura italiana e non solo – Gadda, Pasolini, Bolaño, per menzionarne alcuni.
Per un’ora, con un magnetismo davvero ammirevole, Gifuni ha tenuto l’attenzione di una sala stracolma (i posti in platea erano tutti occupati e per scontentare il minor numero di persone possibile sono stati aggiunte altre sedie sul palco ai lati dell’attore).
E chi c’era è stato fortunato non poco: perché senza temere smentita si può dire che la poesia di Caproni trova una completa pienezza nell’essere udita. Le si farebbe un torto volendole affiancare l’aggettivo musicale, perché è musica stessa. Nasce infatti per i corali a quattro voci di quando Caproni studiava composizione, avrebbe intrapreso la carriera musicale – suonava il violino – se un trac in età precoce non lo avesse convinto a smettere e a riporre il violino in una teca, nel suo studio. La musica però non lo abbandonerà mai. Lo dicono i suoi versi con una metrica impeccabile e una cura del significante certosina.
Nel parlarci di Livorno, di Genova, della madre, oppure dei temi esistenziali, Caproni oscilla tra il simbolismo e il linguaggio più semplice, quotidiano. Giorgio Caproni è un poeta incasellabile in quel sistema binario entro il quale si muoveva la poesia del dopoguerra in Italia: da una parte l’ermetismo e dall’altra in opposizione un movimento di semplificazione della lingua e del verso.
Gifuni, con grande sapienza, porge al pubblico Caproni con un’attenzione particolare alla fisicità della parola che diventa movimento e gesto: il verbo ritorna alla carne. Un lungo e caldo applauso.