La maieutica delle Albe – il dionisiaco degli «Asinelli zoppicanti»
Sono un idiota io?
Sono un cretino io?
Sono un asino io?
Sì, sono un asino
e non riesco
a non versare lacrime…
Da Siamo asini o pedanti? di Marco Martinelli, 1989.
«Cominciammo errando. Errare nel senso di cammino e di sbaglio».
Fin dalle prime epifanie teatrali, l’inciampo è Maestro nel cammino artistico di Ermanna Montanari e Marco Martinelli. Le Albe risalgono agli anni del loro incontro, un’alchimia che tutt’oggi vibra nel legame arte-vita che li unisce. L’ errare è quello di chi arde per la sapienza, degli «asinelli zoppiccanti» che abbracciano la sconfitta e germogliano dalle proprie ceneri: è la messa in vita – non la messa in scena – di un teatro eretico e inquieto in cui il fallimento è linfa per la ri-creazione.
La tempra scenica di Ermanna, agli occhi di Marco, è potente sin dagli esordi. È questo essere Fedeli, nell’ideazione artistica e in amore, che muoverà il regista verso la creazione di un’opera filmica dedicata all’arte-in-vita dell’attrice (Er, 2020, Martinelli). Una tale grandezza deve sopravvivere, e non soltanto nelle memorie di chi ha potuto conoscerla come interprete del loro teatro. L’accadimento – costitutivo dell’arte dell’attimo presente – è destinato a morire nel momento in cui si realizza, e questa non-conservazione cui il corpo scenico va incontro è, per l’attrice, necessaria al punto da renderla insofferente rispetto al processo dell’immortalare tipico del mezzo cinematografico, un linguaggio che riproduce il già accaduto, il concluso, e che non pertiene al qui e ora. L’arte di Ermanna è un intimo esserci e Marco, che ha condiviso con lei più di quarant’anni di vita e teatro, lo sa: la forza del suo stare in scena non può, e non deve, patire i limiti della finestra cinematografica. E così, l’urgenza di raccontarne il volto – nei cui confronti Martinelli ci parla in termini di «paesaggio e romanzo» – e la forza insita in esso, si serve dell’occhio del cinema, per indagare quella mimica più difficilmente fruibile dallo spettatore teatrale, ma rifiuta la mera trasposizione di linguaggio (palcoscenico-schermo) e la sterile “documentazione” per ri-pensare e ri-mettere in vita .
Quella di Ermanna Montanari è una robustezza artistica di granitica presenza. Un corpo minuto, sobrio nel movimento, che rivela la sua forza in una vocalità spiazzante, cifra particolarissima del suo lavoro. In scena – lo osserviamo in Pasolinacci e Pasolini – sintetizza nel gesto essenziale e composto, segnato da accenti dusiani nel tratto inquieto, alcune asprezze di matrice grottesca. Un gesto che incita la parola a venir fuori, la sradica con straordinaria accuratezza, come se in quella corporeità così misurata fossero trattenute, e poi poco a poco manifestate, innumerevoli voci. Un «condominio» dentro un unico corpo scenico. La percezione è quella di un’inspiegabile polifonia.
Singolare è la tempra propria dell’artifex – Bene è uno dei riferimenti nella creazione artistica delle Albe, una matrice ravvisabile anche in quell’intersezione di ricerca e tradizione – che trapela nella Montanari interprete, un ruolo incarnato oltre l’ordinaria rappresentazione e nutrito di componenti stridenti, spigolose e, per questo, interessanti. Si profila una postura artistica che, accanto alla forza del protagonismo attoriale, rivela un sottile processo di sottrazione, un porsi in condizione di ascolto. Anche questa dialettica presenza-assenza (quella che in Bene è, al massimo grado, sintetizzata nel non-attore) è forse leggibile attraverso la chiave Duse, con il fondamentale discrimine che vede l’attrice mattatrice rivelare con Cenere (1916) un’intenzionalità nel lasciare traccia del proprio operato e Montanari fare della cenere dell’evento teatrale – labile, ostico da afferrare – il senso profondo della propria arte. Esserci, ed esserci all’apice della forza attoriale, e al contempo nutrire una fascinazione per l’oblio. La concretezza scenica, a tratti nervosa, che in Duse si apre a componenti simboliste, in Ermanna Montanari coniuga accensioni visionarie (di risonanza artaudiana, forse) e accenti petroliniani (riceve il Golden Laurel quale “miglior attrice” nel ruolo di Madre Ubu): un’originale commistione attraversa i codici del suo linguaggio teatrale. Altrettanto curiosa è quella mescolanza di dialetto romagnolo, che l’attrice ha definito «di ferro» perché prepotentemente gutturale, e lingua wolof degli artisti senegalesi, a sua volta insistita sulle consonanti. Due lingue che in quell’ «inghiottire le vocali» scoprono un’affinità ritmica e musicale, ulteriore incremento per la già notevole ricerca vocale della compagnia (afro-romagnola dalla fine degli anni Ottanta), che fa del dialetto una forma di poesia e nelle cui radici (contadine, nel caso dei due artisti) trova una peculiare via comunicativa. La lingua – dice Martinelli – è la «musica del mondo».
Il porsi in ascolto rivela una sensibilità politico-sociale, oltreché artistica, e quel ragionare per negazione tipico beniano è in qualche modo ascrivibile anche all’orizzonte delle Albe: la non-scuola è uno dei progetti decisivi nello sviluppo di un lavoro che procede con-fusione, e cioè con unione-scambio, di corpi e di anime. Non-scuola perché non-addestrativa. L’iniziativa di un teatro “cantiere” (di rimbombo di voci), inaugurato nei primi anni Novanta nel territorio ravennate, fa del tradimento – il “dire-tra” beniano – il perno di un lavoro che vuole distruggere per resuscitare (Arrevuoto, un altro termine per designare il progetto, indica l’atto di sovvertire, di fare a pezzi). Fare-disfare-rifare. Tradire (dal latino tradere, «consegnare») il passato guardando al presente. E così, i satiri e le ninfe della classicità greca, incomunicabili negli originali termini sofoclei, prendono forma nei corpi di adolescenti pregni di angosce, silenzi e piaceri: è la potenza del Coro, che dai tragediografi ateniesi giunge a noi come prezioso segreto per la messa in vita di un teatro come incontro di umanità. Le «smisurate orecchie» degli asini necessitano di ricevere voci, e le voci sono quelle di Tutti. La recondita «bestia teatrale» – direbbe Valerio Binasco – abita tutti i corpi e tutte le voci, ma deve emanciparsi da quelle modalità di fruizione passiva affinché la potenza sovversiva dell’immaginazione teatrale possa essere tirata fuori, partorita. Soltanto mediante un’adesione entusiastica e sinceramente sentita il dionisiaco può manifestarsi e generare il «cortocircuito», l’imprevedibile. Non è la nozione aridamente trasferita ma la riscoperta del gioco teatrale, nel suo significato più letterale, l’autentica pulsione di un teatro vivo, di vibrazione e turbolenza, che è tale proprio per la sua «natura asinina».
L’errare del Teatro delle Albe si staglia sulla scena contemporanea con un fare artistico che sospende il ragionare intellettuale per insinuarsi nella carne e nello spirito e accendere quella fiamma teatrale che appartiene a Tutti. Ermanna Montanari e Marco Martinelli compiono – come il guerriero platonico – un viaggio negli inferi della psiche per tirare fuori e rendere Corpo vivo la luce/ombra che ci abita, facendo del teatro la lenza con cui pescare «dentro ai fanghi e all’oro della nostra anima». Ora asinelli ora pedanti.
Beati gli uomini perché sono sordi
e dei sordi è il regno dei cieli.
Degli asini è la terra, marcia
lamentosa e come se non bastasse io mi commuovo
come un idiota
sempre con gli occhi lucidi
sempre con gli occhi bagnati
Chiara Ceresola
progetto a cura di Armando Petrini, Mariapaola Pierini, Federica Mazzocchi (Università di Torino, Dipartimento Studium, Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione, DAMS e CAM)
in collaborazione con Albe / Ravenna Teatro, Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani Onlus, Museo Nazionale del Cinema di Torino
comitato organizzatore: Fabio Acca (DFE), Leonardo Mancini (Studium), Federica Mazzocchi (DFE), Armando Petrini (Studium), Laura Piazza (Studium), Mariapaola Pierini (Studium), Elio Sacchi
(Studium), Matteo Tamborrino (Studium), Paola Zeni (Studium).