Vita per non morire, morte per continuare a vivere
Jurij Ferrini chiude il cartellone del Teatro Gobetti con la sua ultima regia, Il Panico, di Rafael Spregelburd, in scena fino al 9 giugno.
Il testo
Attore, regista e drammaturgo contemporaneo, Rafael Spregelburd scrive L’Eptalogia di Hieronymus Bosch tra il 2000 e il 2009. Si tratta di una raccolta di sette opere distinte, incentrate sull’idea dei sette peccati capitali. L’omaggio va al dipinto del pittore fiammingo, ma l’operazione di Spregelburd consiste nel sostituire ogni vizio capitale medievale con uno nuovo appartenente alla postmodernità: la lussuria diventa l’inappetenza, l’invidia la stravaganza, la superbia la modestia, l’avarizia la stupidità, l’accidia il panico, la gola la paranoia e l’ira la cocciutaggine. Quindi, come Hieronymus Bosch dipinge la dissoluzione della morale medievale, così Spregelburd rappresenta la dissoluzione della morale moderna.
Spregelburd sostiene che abbiamo perso il dizionario della modernità e questa perdita è una risposta politica al nostro caos: l’ordine non ci appartiene più e viviamo con un’angoscia, che chiamiamo “panico”, perché le regole non sono più chiare. Allora in quegli ordini, che lui definisce “aperti”, cioè incerti e sconosciuti, come quello della postmodernità o il periodo in cui dipinge Bosch, durante il quale si gettavano le basi dell’Umanesimo, gli artisti non hanno un messaggio da condividere, una verità, “possono solo contagiare al pubblico una serie di sintomi” della loro idea di verità.
Il contesto in cui si colloca l’Eptalogia è la crisi economica argentina. L’Argentina ha vissuto diverse crisi economiche negli ultimi decenni, caratterizzate da altissimi picchi d’inflazione, con conseguente eccessivo debito pubblico e recessione del Paese. Dopo il default del 2001-2002, il paese ha visto una ripresa grazie all’aumento dei prezzi delle materie prime, ma ha poi sofferto di nuove crisi a causa di politiche economiche instabili. Quindi, quando il pubblico vede per la prima volta Il Panico, nel 2003, ride perché, come dice Spregelburd, “prigioniero” della messa in scena. Il pubblico argentino si rivede in qualche modo in quella famiglia e ride per un’estrema espressione di umorismo, che è riso per un fatto tragico e poi riflessione.
Accostato all’accidia, alla noia, lo spleen, nel panico in realtà troviamo degli altissimi picchi di vita, di esplosione, di climax. In un’intervista che Oliviero Ponte di Pino fece a Luca Ronconi, il primo che portò Il Panico in Italia, il regista disse a proposito del testo:
“In realtà parla della vita! Ma dal momento che poi si muore, nel testo c’è anche la morte. Dietro al fatto che nel Panico convivano vita e morte, non c’è niente di filosofico: la vita e la morte sono solo due territori simultanei. È un chiasmo, più che una bilancia, o un’alternanza tra i due poli, perché vita e morte sono presenti nelle due storie che vengono rappresentate: la prima riguarda l’eredità della famiglia e già il fatto che si tratti di un’eredità, significa che continua un rapporto tra chi è morto e chi resta.”
Quindi, la vita ha bisogno della morte per la sua stessa sopravvivenza e la morte ha bisogno della vita per rifiutare la sua stessa natura. Difatti, Emilio, non accetta di essere morto, perché sarebbe, e poi lo diventa, troppo doloroso per lui.
Continua Ronconi: “L’altra vicenda si svolge su un palcoscenico, dove si prova un balletto, e poi si scopre che la coreografia è ispirata al libro dei morti egizio.” Anche in questo caso si tratta di una struttura circolare: si credeva che l’individuo, dopo la morte, sarebbe andato incontro alla vita eterna. E per tornare al testo e al chiasmo tra la vita e la morte: le ballerine (vive) eseguono una danza macabra, non a caso, tipicamente medievale.
Vi è anche una critica alla società, forse troppo presa da sé per rendersi conto di ciò che ci circonda. L’espediente è la ricerca della chiave della cassaforte. Tutti la cercano, ma quando viene trovata, nessuno se ne rende conto. Nessuno, tranne il pubblico, che in quel momento viene catturato e portato sul palco, ma anche lui da morto, perché non può comunicare con i vivi, i personaggi, che la chiave è lì, sotto gli occhi di tutti.
Federica Mangano
La messa in scena di Jurij Ferrini
Buio, l’eco di un suono intimo accoglie lo spettatore, sono gocce d’acqua, cadono scandendo l’inesorabile scorrere del tempo, questo suono mi ricorda la naturale solitudine dell’essere umano che quasi subito verrà smentita dalla molteplicità dei personaggi dello spettacolo. La trama è contorta, le scene sono dinamiche, hanno il sapore del caos, le storie dei vari personaggi sono individuali, ma si incontrano e si intrecciano in una commistione narrativa dinamica e inaspettata. Lo spettatore, travolto dal dinamismo entra in un circolo vizioso di angoscia, uno stress collettivo, tipico dei giorni nostri, una nevrosi compulsiva causata dalla ricerca di qualcosa che non c’è, una ricerca che determina l’identità del cercatore. Che sia una casa, una motivazione, una risposta o una chiave, questa ricerca disperata porta all’esasperazione, ad uno stato di agitazione fuori controllo, ad uno stato di “panico”. La scenografia si tinge dei colori caldi dell’Argentina, essa muta e si trasforma costantemente sotto una musica ritmata e palpitante, prima una casa, poi uno studio medico, un ufficio bancario, una sala prove e addirittura un carcere. Una scelta, quella della scenografia, che mette in risalto e in correlazione le varie identità della storia tra le quali anche quella dell’aldilà. Lo spettatore viene ingannato da una morte che non si palesa subito, vivendo in prima persona il disorientamento dello stesso spirito. Ballerine, artisti, vite familiari difficili e paradossali sono la chiave di lettura di una società che è sempre più vicina alla perdita di identità, come gli stessi spiriti, che una volta attraversato l’aldilà, nulla riconoscono, perdendo cognizione di ogni cosa, persino di sé. Il regista Jurij Ferrini vuole, attraverso questa messa in scena, raccontare del sottile liminale tra ciò che è vivo e ciò che non lo è più, definendo la morte, a mio avviso, come parte fondamentale della vita, determinandone la sua reale importanza. La morte non risolve i problemi dei vivi e nemmeno quelli di chi non c’è più, non è in grado di fermare il tempo e neanche di farlo scorrere più velocemente. La morte dona la pace che la vita non è riuscita ad insegnare e porta spesso alla vista di chi esiste e di chi non esiste più tutte quelle risposte che da sempre creano un vuoto incolmabile, riempito senza averne coscienza, con il più puro sentimento di inadeguatezza, il “panico”.
Rossella Cutaia
di Rafael Spregelburd
traduzione di Manuela Cherubini
regia Jurij Ferrini
scene e costumi Anna Varaldo
luci Alessandro Verazzi
suono Gian Andrea Francescutti
assistente regia Carla Carucci
con (in ordine alfabetico) Simona Bordasco, Roberta Calia, Jurij Ferrini, Lucia Limonta, Viola Marietti, Toni Mazzara, Elisabetta Mazzullo, Francesca Osso, Michele Puleio, Dalila Reas, Arianna Scommegna