Nel profondo silenzio amniotico
In una fresca serata di fine novembre il palco dell’Off topic s’irradia di fasci di luce caravaggeschi; riecheggia il suono del silenzio, punteggiato da rumori di vita quotidiana e sentimenti sinceri.
Cinquanta minuti di puro teatro fisico ripulito dalla parola, tuttavia mai stonata nei suoi sporadici interventi, vengono sostenuti da una prova d’attore eccezionale. Lo spettatore è agganciato alla scena in continua attesa di quel che accadrà, coinvolto in un flusso continuo di occasioni per riflettere.
Fabiana Iacozzilli dipinge delle vere e proprie immagini in movimento animate da Marta Meneghetti e Roberto Montosi, due interpreti trasparenti e luminosi che si consegnano al pubblico con onestà. È a partire dalla stessa carne dei performer che scaturisce un’emotività mai sovradimensionata, in una lucida operazione di cruda realtà.
Al contrario l’allestimento metonimico ingigantisce ed enfatizza alcuni elementi della scenografia, rendendoli nella loro sproporzione portatori di un forte significante.
Così, a una dimensione genuina e sensistica della recitazione si contrappone una messa in scena iperbolica e icastica.
L’inclemente e fatale procedere della rappresentazione dà vita a un tema ancestrale ricreato con profonda autenticità: la capacità di prendersi cura. Secondo capitolo della Trilogia del Vento in cui la regista indaga l’infanzia, la maturità e la vecchiaia, Una cosa enorme ci interroga su una questione comune a tutte le mamme, ma più in generale alla maggior parte degli esseri viventi.
Fabiana Iacozzilli racconta di essere partita da un dato autobiografico per esplorare quell’incertezza tra il voler essere genitori e il restare figli. Ha poi condotto delle interviste ascoltando molte voci, tra cui quella della sociologa israeliana Orna Donath e della scrittrice canadese Sheila Heti, per investigare la realizzazione e lo smarrimento di sé, la paura e il desiderio dell’abbandonare se stessi alla tutela di un altro essere umano.
La messa in scena mostra come ‘una cosa enorme’, oltre al pancione prominente della protagonista, non sia solo l’aggravio e la sofferenza dell’anima di una madre che non vuole essere madre, ma in antitesi anche l’amore che ella è in grado di provare e offrire.
Seduti in sala nel buio impenetrabile ascoltiamo alcune testimonianze registrate di voci femminili che affrontano la maternità in modi divergenti: chi desidera diventare mamma da quando ha memoria e sarebbe disposta a tutto pur di avere un figlio, chi sogna di cucirsi la vagina per ostruire la fuoriuscita del neonato e chi pensa che avere un bambino privi della propria libertà ma restituisca un affetto infinito.
A poco a poco dinanzi ai nostri occhi si delinea un enorme involucro, un ventre madornale che sfiora la terra. Pare illuminato dall’interno, come se la vita lì nascosta ardesse per venire al mondo. La tensione della pelle e le vene affaticate ci consegnano una fotografia estremamente grottesca di questo grembo gravido. Effetto ottenuto tramite una protesi di 12 chili che pone l’attrice in una condizione scomoda, alle prese con una fisicità artificiale molto ingombrante.
Ella si muove appesantita tra un frigo logoro, una cucina a gas arrugginita, una poltrona sdrucita e una pianta secca.
Imbraccia nervosamente un fucile, grugnisce e osserva il pubblico con ferocia, è tormentata dallo stridio degli uccelli. Spara furiosamente finché non abbatte una grossa cicogna di pezza, leggendario simbolo di fecondità.
La pace conquistata è precaria. Le acque si rompono ed ella prova di tutto per trattenere il bimbo dentro di sé. Con freddezza e determinazione afferra una corda attaccata alla sua pancia, la lega a un palo, se la fa passare fra le gambe e si dirige spietatamente verso il lato opposto della sala con l’intenzione di impedire il parto per mezzo del suo stesso cordone ombelicale.
Una luce di taglio modella il viso stremato ma stoico della donna che tenta di soffocare il feto e le proprie angosce nel fumo di una sigaretta.
Sentiamo una voce fuoricampo: “Ognuno di noi nella sua vita ha un punto conficcato come un palo nel terreno al quale lo lega un elastico. Cerca d’allontanarsi; al prezzo di sforzi sovrumani avanza nel corso dei giorni, dei mesi, degli anni. Ma più si discosta dal palo, più l’elastico si tende e lo trattiene. E quanta più strada farà, tanto più violento sarà il rinculo quando il palo lo richiamerà a sé […]”.
Lo spettacolo procede lento e inesorabile come lo sviluppo embrionale nel liquido amniotico. Il bambino è in fine venuto alla luce ed è nato già adulto, proporzionato al grande ventre e alla gravidanza lungamente protratta.
Al centro del palco un uomo seminudo in posizione fetale emerge dall’oscurità; porta un pannolone, ha un aspetto gracile, vulnerabile e indifeso. Accompagnato dai vagiti di un neonato gradualmente si alza in piedi.
Come sedesse su un enorme trono, dall’alto del proprio seggiolone insistentemente chiede attenzioni, chiede premure, cerca indipendenza, cerca autogestione. Una colazione da re offerta su un gigantesco tavolo che sembra provenire dal paese dei balocchi non può bastare, solo l’affetto della mamma può soddisfare i suoi bisogni.
“Nel momento in cui dai la vita a qualcuno lo stai in realtà condannando alla morte?” si domanda l’autrice. Questo interrogativo si traduce nella coincidenza tra padre e figlio. La donna diventa genitrice del suo stesso genitore. Perché accudire un bimbo non è tanto diverso dall’accudire un papà ormai anziano. E il corpo raggrinzito di un neonato non si allontana molto da un corpo stanco e rugoso.
Offrendo lo sguardo alla platea, arreso all’esistenza il vecchio bambino con il pannolone fuma una sigaretta. Lei colma d’amore e pazienza lo lava e lo veste.
Fabiana Iacozzilli si chiede: “forse, alla fine, si è madri comunque? Ho comunque un ruolo di genitrice da assolvere, quella spinta tristemente umana che ci porta a essere genitori dei nostri genitori”.
“Mi piace pensare che in quel momento io e mio padre fossimo insieme in un unico grembo, come Pinocchio e Geppetto nella pancia della balena. E che quel grembo potesse riempirsi solo d’amore per cui non aveva più importanza chi è padre, chi è madre e chi è figlio. Semplicemente un accudirsi l’un l’altro, come gli uccelli e gli animali quando stanno vicini”, rivela la voce fuoricampo.
La morte giunge rapida e gelida come parte del ciclo della vita e la protagonista si ritrova nuovamente a fronteggiare l’oblio della solitudine.
I fari si spengono e perdura il profondo silenzio, nel quale è impossibile nascondersi. Anche gli spettatori restano senza scampo, ammutoliti.
Ariel Ciravegna Thedy
di Fabiana Iacozzilli
Spettacolo vincitore: Last Seen 2021 Krapp’s Last Post
con Marta Meneghetti, Roberto Montosi
scene Fiammetta Mandich
luci Luigi Biondi, Francesca Zerilli
suono Hubert Westkemper
realizzazione body suit (special – visual – effects) Makinarium
collaborazione ai costumi Davide Zanotti, Anna Coluccia
aiuto regia Francesco Meloni
assistente alla regia Cesare Santiago Del Beato
assistente alla drammaturgia Carola Fasana
fonico Jacopo Ruben Dell’Abate
foto di scena Manuela Giusto
collaborazione artistica Lorenzo Letizia, Luca Lòtano, Ramona Nardò
un ringraziamento a Giorgio Testa
produzione Cranpi, La Fabbrica dell’Attore-Teatro Vascello Centro di Produzione Teatrale, Fondazione Sipario Toscana-Centro di Produzione teatrale, Carrozzerie | n.o.t
con il contributo di MiC – Ministero della Cultura, Regione Lazio – Direzione Regionale Cultura e Politiche Giovanili – Area Spettacolo dal Vivo
con il sostegno di Teatro Biblioteca Quarticciolo, Periferie Artistiche Centro di Residenza Multidisciplinare della Regione Lazio, ATCL Circuito multidisciplinare della Regione Lazio per Spazio Rossellini
con il supporto di Nuovo Cinema Palazzo, Labirion Officine Trasversali
Si ringraziano Sheila Heti, Orna Donath e tutte le donne e gli uomini intervistati durante il cammino.
debutto Biennale Teatro 2020