C’era una volta una metropoli. Dentro la metropoli un quartiere. Dentro al quartiere, il bar.
Vincitore del Premio Hystrio Twister 2016, Animali da bar giunge in tournèe anche a Torino al Teatro Gobetti. Scritto da Gabriele Di Luca, la compagnia Carrozzeria Orfeo chiude con questo spettacolo la trilogia inaugurata con Cous Cous Klan e Thank for Vaselina.
Il bar è luogo di incontro quotidiano, punto fisso in cui cercare un appiglio alla realtà delle cose per non smarrirsi nella vacuità metropolitana. La dispersione e velocità che attanaglia le relazioni nella città trova nel bar una propria controparte, un porto sicuro cui è ancora possibile approdare in cerca di pausa dalla vita, dal lavoro, dalla propria solitudine. Il solito bar con le solite bariste, è accogliente, e tramite il rito quotidiano del caffè si istaura un rapporto di fiducia, l’unico collante possibile per le relazioni con le altre persone, a patto che si consumi all’interno di questo luogo. Simbolo della quotidianità per le chiacchiere inutili sul tempo, sulla cronaca scadente da isolato, sullo stereotipo semplificatorio di fatti, sempre con quella musica commerciale di qualche canale radio e il giornale sportivo sgualcito sul tavolino nell’angolo, ma anche luogo di astrazione da questa stessa quotidianità, come se varcata la soglia si passi ad un’altra dimensione. Legata sì, alla quotidianità, ma luogo in cui sono agevolate e accettate le relazioni. In un quartiere periferico il bar acquista il valore di una seconda casa. Qui di avventurieri se ne incontrano pochi, è sono sempre le stesse persone spesso abbastanza losche e problematiche, un sottobosco che trascorre il tempo in questi bar.
Così è il bar di Animali da bar, in cui troviamo un’umanità squallida e sconfitta in partenza, ma ancora aggrappata a deboli speranze di redenzione. Anime che si sorreggono al bancone, sottobosco creato da un occidente frustrato, razzista e in decomposizione, sorretto da luoghi comuni. Tutto si compra, si scambia, la logica del mercato, nulla a più valore per sè ma solo in relazione alle altre cose. Ecco allora che troviamo un vecchio malato di cancro razzista e misantropo che ogni tanto professa le sue sentenze con la voce over di Alessandro Haber. Non lo vediamo mai questo vecchio, forse la voce della coscienza oppure il grande onnipotente occidente con cui si è costretti a confrontarsi, fermo ai suoi stereotipi, che solo la sua morte, il suo fallimento può portare la speranza di un nuovo corso. Lui è il proprietario del bar e di alcune stanze sopra esso, ma chi lo amministra è un’immigrata Ucraina, Mirka che oltre a gestire il bar e tenere a bada i suoi avventori, fa la badante con privilegi al vecchio. A suo dire tutte le badanti fanno quel mestiere, l’importante è fare il grano, e quindi affitta anche l’utero per una giovane coppia contemporanea, quindi l’uomo vegano e buddista e la moglie dedita solo alla carriera nell’alta società finanziaria e quindi impossibilitata, secondo lei, a tenere nove mesi una creatura in grembo. Si va oltre l’asino nido o l’infertilità. La coppia è preda alle manie della nostra epoca, in cui tutto è portato all’estremo, non si pondera più quale sia la cosa giusta per la famiglia, ma solo per se stessi. In più, il ragazzo è chiamato colpo di frusta, perché porta sempre il collare dopo che la moglie a casa lo picchia. Un’inversione dei ruoli di vittima, un ribaltamento in cui l’uomo è stato esautorato delle sue componenti machistiche, ed ora non riesce a trovare la propria identità di genere a reagire a riallinearsi al mondo. L’unica consolazione è il senso di appartenenza ad un gruppo, ad una minoranza, in cui la speranza è vista nella purezza fisica, la mela, anche essa con un valore opposto al peccato originale, e spirituale con l’adesione al buddismo. Ospite fisso del bar è Swarovski, scrittore alcolizzato che vuole andare contro i dettami commerciali dell’editoria, ma che per mangiare si è ritrovato a scrivere un libro sulla Grande Guerra, visto che in quell’anno si celebra il centenario. Stereotipo dello scrittore alla Bukowski, cinico, che ha perso ogni speranza in un mondo migliore, si abbandona a consigli taglienti, di mettere gli altri frequentatori davanti alle loro contraddizioni e problemi, prendendoli in giro incita loro ad affrontarli, per sfuggire al suo vissuto. Poi c’è Milo, che si presenta come un affarista di alta imprenditoria milanese, ma che poi scopriamo esserne uno da quattro soldi con la sua ditta di pompe funebri per animali di piccola taglia alla ricerca del successo. Come ruota del carro della società che Sciacallo, un drogato depresso vittima di bullismo da piccolo, che va in giro a rubare nelle case dei morti. Tenta il suicido svariate volte, senza riuscirci: neanche la morte sembra essere concessa all’individuo. La morte come premio non esiste. Nel bar i vari personaggi tessono le loro relazioni, fatti di prese in giro, di consigli, di litigi, piano piano si conosceranno meglio, fino al colpo di scena finale in cui Swaroski sostituisce la pistola di Sciacallo usata dopo per una roulette russa. Swaroski si svela poi essere il burattinaio, lo scrittore di Animali da bar. Escamotage che gli permette attraverso un monologo di raccontare l’esistenza successiva dei personaggi oltre quei momenti di relazione nel bar.
Uno spettacolo molto vivace, aggressivo nelle battute, un black humor tagliente che fa uscire la risata e in seguito una riflessione, perché in fondo siamo noi quegli animali da bar.
Emanuele Biganzoli
drammaturgia Gabriele Di Luca
con Beatrice Schiros, Alessandro Federico, Massimiliano Setti, Pier Luigi Pasino, Federico Vanni (sabato 15 febbraio Aleph Viola sostituirà Pier Luigi Pasino)
voce fuori campo Alessandro Haber
regia Alessandro Tedeschi, Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti
musiche originali Massimiliano Setti luci Giovanni Berti
costumi Erika Carretta
Carrozzeria Orfeo / Marche Teatro