USODIMARE – VALERIO BINASCO

Anche quando sveste i panni del personaggio, Valerio Binasco sale in scena con quella naturalezza, nel senso di autenticità e profondità in cui la intende Carlo Cecchi, che dice la realtà (sempre secondo la sua accezione di gioco reale) del suo teatro. 
Il corpo scenico – concreto e nervoso – è, in un modo quasi sensuale (il teatro è un fatto anche “erotico”), attratto dal palcoscenico, dal luogo fisico in cui sta agendo. La sua presenza concitata, vibrante e dinamica, incarna quel tipo di teatro – che non incontro di frequente – molto poco concettuale (nel senso di priorità data all’elaborazione intellettuale) e capace, invece, di verità: ciò che Binasco fa sulla scena viene fuori come liberazione di quella «bestia teatrale» che abita la sua anima. Come qualcosa di visceralmente sentito.

Di Cecchi c’è anche l’uso espressivo delle mani – qui continuamente inserite nelle tasche come a cercarvi il corpo delle parole che sta leggendo – con cui Binasco inchioda/precisa/enfatizza ciò che pronuncia, ora borbottando ora scandendo con precisione.
Singolare e, di nuovo, molto concreto, è l’utilizzo del microfono, che in alcuni passaggi diviene un sostegno, un elemento a cui fisicamente aggrapparsi per trovare lo slancio, più fervido o più indolente, con cui tirare fuori quella o quell’altra parola. Un atteggiamento, mi pare, dall’eco quasi “rock” (benché in un’intervista di qualche anno fa spiegasse, in merito a quest’animo rock che gli viene spesso riconosciuto, come del rock and roll amasse più il “roll”, ossia «ciò che rotola, che rimbalza» e che non scade nel retorico).
Quella di Binasco è una voce allenata, che negli anni si è ascoltata e riascoltata, e proprio perché conosce il “parlare bene” sa impedirlo consapevolmente, quando e fin dove serve. La sua lettura rifugge i toni falsi e non poggia – come qualche attore fa, in modo un po’ semplicistico – solo sulla dizione. Quando si padroneggiano gli strumenti, violare la “norma”, stare cioè un po’ sopra le righe, rivela un tratto interessante – e qui riuscito – nella postura artistica dell’attore.
Binasco accorda con acuta intuizione il proprio strumento all’accadimento di questa sera (che è diverso, anche quando si tratta di repliche, da quello di ieri e di domani): a partire da una struttura recitativa solida e riconoscibile, plasma di volta in volta la sua materia di espressione (se stesso), rivelandosi sinceramente dentro ciò che qui e ora sta succedendo sulla scena.

Usodimare, Ernesto Franco. Il racconto per voce sola letto da Valerio Binasco.

Quella in onore di Ernesto Franco è una lettura che vuole «dar retta» al suo autore, il quale ha sempre riconosciuto il potenziale teatrale della propria opera, ma (come forse è inevitabile che sia) ne è anche, in qualche modo, traditrice: la tempra di Binasco si dà proprio in quelle zone d’ombra che sa mantenere, in quella specie di reticenza con cui, pur citando testualmente le parole di qualcun altro, riesce a lasciare sempre qualcosa nel silenzio.
«Se devi dire una cosa, la regola più importante è non dirla» (R. Latini).
In questo caso Binasco è di fronte a un leggìo. Porta in scena se stesso, senza trucco o costume. Eppure riesce a suggerire, a non dire tutto fino in fondo. Alcune frasi le butta via, quasi a defilarsi, altre le dice come se stesse provando la parte, facendo “dentro e fuori” il personaggio.
Che siano momenti di maggior riluttanza o passaggi più vicini a un’effettiva interpretazione, Binasco si conferma nemico della retorica e capace di lavorare su una corda emotiva e interiore particolarmente efficace. Come sempre accade nel suo teatro, tira fuori una parte di sé – del suo fallimento, smarrimento, amore o disamore – e tale atteggiamento (molto “umano”, mi verrebbe da definirlo) riesce ad emergere anche, come succede qui, quando si limita a dar voce ad un autore. Qui Binasco-Usodimare eleva artisticamente il testo, gli conferisce note malinconiche, di amara tenerezza, laddove la pagina scritta verosimilmente le presuppone ma a cui l’impronta attoriale attribuisce, senz’altro, una coloritura particolare. Quel modo estroso, a tratti spigoloso e contraddittorio, appartiene al bagaglio dell’attore: il testo non può consegnarcelo. È il corpo, la voce, a raccontarci qualcosa in più, di non scritto. Quella di Binasco è una granitica presenza che sta abitando il suo luogo naturale.

Pur senza presupporre la messinscena, quel sapore cinematografico, che è un po’ un fil rouge nei lavori di Valerio Binasco, si insinua anche qui per suggerire atmosfere e invitare lo spettatore a immaginare.
È nell’essenzialità, in questo spogliarsi del teatro di tutti gli elementi ausiliari, che più emerge la forza dello stare in scena: un’ora di lettura incisiva, asciutta, che – anche nei momenti di “sottrazione” – restituisce la centralità di un attore che abita il palcoscenico con protagonismo (in senso non narcisistico ma di necessità di quello che sta facendo) anche fuori dai confini della rappresentazione.

Chiara Ceresola

Di Ernesto Franco

Un reading di e con Valerio Binasco

Musiche dal vivo: Paolo Spaccamonti

Video pittura: Simone Rosset

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
in collaborazione con Einaudi Editore

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