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PPP: LE PAROLE SONO ATTENTATI

PPP ULTIMO INVENTARIO PRIMA DI LIQUIDAZIONE: questo il titolo dello spettacolo con cui il duo Ricci/Forte sceglie di omaggiare Pier Paolo Pasolini nel quarantesimo anniversario della sua scomparsa.

Data la ricorrenza, questa scelta non può che rappresentare una scommessa. Innanzitutto perchè il rischio di cadere nel vuoto memorialismo e negli stereotipi è elevato. In secondo luogo perchè si tratta di celebrare un artista dalla personalità poliedrica che ha fatto dell’eclettismo il tratto distintivo della sua attività intellettuale.

I due giovani autori-registi, forti della loro idea di teatro, non si sono lasciati intimorire dalle circostanze e hanno cercato un approccio diverso che segna una frattura decisiva rispetto ai lavori che in questi decenni si sono succeduti attorno all’universo pasoliniano.

Il coraggio di questa scelta si evince dal non aver optato per l’allestimento di un’opera teatrale scritta dallo stesso Pasolini, ma nell’aver capito che l’eredità di questo artista è un pozzo di domande a cui dobbiamo ancora delle risposte.

Ecco allora che Pasolini in questo spettacolo non diventa il mito da celebrare, ma la guida di un viaggio, un’intima esperienza di scoperta che attori e spettatori compiono indistintamente.

Proprio per questo si rivela interessantissimo il lavoro fatto da Ricci/Forte per la stesura del testo. La tessitura drammatica, lungi dall’essere un catalogo di citazioni letterarie e cinematografiche, alterna momenti di riflessione a scene giocate sull’impatto sensoriale. Nei primi, è la parola a prevalere, nei secondi la comunicazione è tutta affidata a suono e movimento. La trama è assente: non vengono qui ripercorse né le vicende umane, né quelle intellettuali di Pasolini. Lo spettacolo apre una serie di focus tematici su questioni centrali dell’opera pasoliniana che ancora oggi si pongono con tutta la loro bruciante attualità.  È lo sguardo all’indietro che Pier Paolo fa prima di sciogliersi nel ventre liquido del mare di Ostia.

I protagonisti sono un uomo e cinque donne dalla differente provenienza geografica che dialogano ed interagiscono tra loro in un’atmosfera distorta, dai tratti allucinatori. La loro identità non è mai dichiarata. Non c’è Pier Paolo. C’è un uomo che di fronte alla sua macchina da scrivere non accetta di avere un foglio bianco, mentre riecheggiano irrisorie le note di The Show Must Go On. Ci sono delle donne che orbitano attorno a lui, lo interrogano, lo deridono, lo cercano. Non ci sono personaggi, ma un’unica tensione riflessa in sei corpi diversi, tutti accompagnati dalle loro ombre di dubbio.

L’allestimento scenografico consiste in un ammasso di pneumatici, elemento imprescindibile dello spettacolo, che richiamo la tragica fine che l’artista trovò sul lido di Ostia nel novembre 1975. Toccante la scena finale che rievoca l’accaduto con forti accenti lirici.

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Ne deriva un’opera dalla struttura frammentaria, aperta, di cui è difficile rendere conto. Un’esperienza forte che richiama in causa tutti quei nodi contraddittori che Pasolini non è riuscito a sciogliere e che ancora non cessano  di tormentarci.

Uno fra tutti il rapporto tra intellettuale e realtà: due universi distinti che si scontrano e si fanno violenza reciproca.

L’artista è qui “un santo, uno stronzo, un idiota”. Perennemente in bilico tra il possesso del proprio io e l’essere posseduto dal mondo. Inevitabilmente destinato a soccombere di fronte alla natura refrattaria del reale e agli uomini che masticano e sputano la poesia nella convinzione di averla compresa.

Ad essere rappresentato è il dramma di un Pasolini, confinato fuori dalla Storia, in eterna lotta tra un mitico ritorno alle origini e uno sguardo lucido e profetico sul futuro.

Questa disillusione simboleggia sì la condizione propria dell’intellettuale, ma richiama anche il disagio personale dei due registi che hanno dovuto abbandonare l’Italia per vedere realizzata la loro vocazione artistica.

Uno spettacolo che dunque ci invita a riflettere su quale possa essere il senso di fare cultura in un paese inginocchiato, in cui il conformismo ci illude di essere liberi.

Non a caso l’omologazione è un altro dei temi tanto cari a Pasolini. Di grande impatto la scena in cui la conformazione ai dettami della società consumistica è rappresentata come ricerca ossessiva e nevrotica di un piacere inappagante.

Ineludibile infine il confronto con i temi della trasgressione e della sessualità: forza vitale primaria, pura dimensione corporea. L’uomo preda degli istinti animali è emblematicamente rappresentato dalle maschere da maiale indossate dalle attrici.

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Ricci e Forte propongono un teatro coraggioso e nuovo che inevitabilmente non può raccogliere l’unanimità dei consensi, ma che indubbiamente può ritenere di aver vinto la propria scommessa in un terreno tanto scivoloso quanto quello pasoliniano.

Cecilia Nicolotti

PPP ULTIMO INVENTARIO PRIMA DI LIQUIDAZIONE

omaggio a Pier Paolo Pasolini

di ricci/forte
regia Stefano Ricci

con Capucine Ferry, Emilie Flamant, Anna Gualdo, Liliana Laera, Giuseppe Sartori, Catarina Vieira
drammaturgia ricci/forte
movimenti Francesco Manetti
scene Francesco Ghisu
costumi Gianluca Falaschi
ambiente sonoro Andrea Cera
direzione tecnica Alfredo Sebastiano
assistente regia Ramona Genna

produzione ricci/forte
coproduzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Festival delle Colline Torinesi

PPP. ULTIMO INVENTARIO PRIMA DI LIQUIDAZIONE omaggio a Pier Paolo Pasolini

Carignano mezzo pieno, in scena una montagna di pneumatici bianchi

Un uomo entra e urla al pubblico parole forti, di impatto, quasi aggressive.  Viene raggiunto da cinque donne che iniziano una coreografia fatta di movimenti nevrotci e ripetitivi su una musica rock e martellante.

Questo il primo quadro dello spettacolo firmato Ricci/Forte andato in scena la sera del 10 giugno al Teatro Carignano in occasione del Festival delle Colline Torinesi.

“Ci interessa che il pubblico, uscito da teatro, trovi la forza di svegliarsi, addrizzare la schiena, rimboccarsi le maniche e cambiare questa situazione drammatica che nemmeno Pasolini poteva immaginare sarebbe arrivata così presto così a fondo”

Ecco alcune parole rilasciatemi durante l’intervista con Stefano Ricci. Un’ occasione per riflettere sul senso del teatro oggi e sul senso di mettere in scena la parte poetica di un intellettuale così profetico e allo stesso tempo così frainteso e mistificato.

Sul palco si alternano scene scritte  e dirette con grande maestria dai registi, interpretate con forza e precisione dai performer. Vediamo il circo con personaggi assurdi e contemporanei, la danza con coreografie potenti e spettacolari , la video-art con fondali colorati a creare l’atmosfera e frasi proiettate semplici e d’impatto.

Il tutto legato dal filo rosso della poetica pasoliniana più profonda.

Si parte dalla letteratura, un romanzo: Petrolio. Testamento filosofico dello scrittore che ci porta a esplorare il suo universo. Attenzione però.. non si parla mai della sua vita o dei vari scandali che gli sono stati affibbiati, bensì della sua vocazione etica e di denuncia sulla società contemporanea, borghese e consumistica.

“Noi viviamo all’estero -prosegue Ricci- e ogni volta che torniamo in Italia sbattiamo contro questa realtà  opprimente e stagnante. Vogliamo con questo spettacolo segnare una svolta rispetto a tutto quello che si è detto e messo in scena su Pasolini ma soprattutto rappresentare la crisi che viviamo noi (artisti italiani del nostro tempo) davanti questa perdita di valori e dignità”

Parole forti e sentite che ho metabolizzato in un paio di giorni come studente di spettacolo e aspirante artista.

Intanto in scena ascoltiamo generi di musica che vanno dall’ elettronica più attuale  alle canzoni nazional-popolari italiane. Siamo colpiti dall’alternanza di dialoghi e  monologhi ironici,stranianti, provocanti.

Quadri con una forza comunicativa fenomenale fatti di allusultimo inventario-2ioni sessuali mai volgari, slogan contemporanei riprodotti all’infinito, climax emotivi da capogiro.

C’è spazio anche per alcune delle interviste registrate tratte da Comizi d’amore , altra opera dell’eclettico intellettuale che tutti dovrebbero conoscere.

Ecco, una critica negativa che mi viene in mente è relativa alla poca comprensibilità di alcune scene per un pubblico non così addetto ai lavori.

Conclusa la recita e dopo svariati minuti di applausi, tutti gli artisti coinvolti (performer e registi) sono stati disponibili nel rispondere alle domande della “Mezz’ora con…” , formula che permette al pubblico di confrontarsi e fare domande ai teatranti.

Vi lascio con quello che Ricci mi ha detto rispetto al rapporto con il festival di cui sono ospiti:

“Con il Festival delle Colline c’è un rapporto di amicizia e stima che dura da anni, come con tutti i partner che ci sostengono e condividono con noi l’esperienza di veder messo in scena uno spettacolo che è frutto di un lavoro comune e partecipato, nonchè sudato e modificato col tempo.”

E chi non fa questo mestiere difficilmente può capire questa magia. Mi permetto di aggiungere io.

Buon teatro a tutti!

 

di RICCI/FORTE
regia Stefano Ricci

con Capucine Ferry, Emilie Flamant, Anna Gualdo, Liliana Laera, Giuseppe Sartori, Catarina Vieira
produzione RICCI/FORTE
coproduzione  CSS TEATRO STABILE DI INNOVAZIONE DEL FVG, FESTIVAL DELLE COLLINE TORINESI

in scena al Teatro Carignano

 

VANJA 10 YEARS AFTER

Come non invecchiare? Ricordare, rivivere, reinterpretare? Occuparsi di qualche cosa? Un pianoforte, due poltrone, una lampada, un divano consunto, una chitarra acustica con il suo amplificatore, un charleston, qualche pianta: un luogo indefinito nel quale Zio Vanja, Sonja e Astrov si trovano a vivere dieci anni dopo la partenza di Elena e Serebrijakov. Si ritrovano o, meglio, sembrano perdersi nel ricordo della vicenda čechoviana. Tentano di leggere il passato, di proiettarsi nell’avvenire, lasciando il loro messaggio. Continua la lettura di VANJA 10 YEARS AFTER

MDLSX: un viaggio oltre i confini del corpo, oltre i generi, OLTRE!

” Sono nata due volte: la prima volta femmina e la seconda maschio.”

Silvia Calderoni,  attrice della compagnia “Motus”, in MDLSX si mostra capace di manovrare qualunque strumento al proprio servizio.

Sul palco interpreta la figura del Cyborg in veste di vj-dj, avvalendosi di strumenti tecnologici come microfoni che filtrano, a seconda della tipologia, in modo diverso la sua voce; un traktor che le permette di accompagnare la sua performance con numerose tracce musicali significative; un Go Pro usato per filmarsi in alcuni momenti dello spettacolo; un video-proiettore che a volte proiettava su una parte del fondale del Palco, le immagini registrate dal Go Pro, mentre altre volte trasmetteva video di brandelli autobiografici.

Motus: MDLSX (http://www.bunker.si/slo/motus-mdlsx-italija), Stara mestna elektrarna, 27.8.2015

Ho appena definito il personaggio della Calderoni come Cyborg, tralasciando però di spiegare chi e che cosa sia il Cyborg.

Dunque, questa figura è allo stesso tempo uomo e macchina, è un individuo non sessuato, né maschio né femmina, collocato oltre le categorie che noi abitualmente usiamo per interpretare il mondo.

Il Cyborg è arrivato a comprendere che i confini determinati dal sesso, dal colore della pelle, dalla nazionalità sono costruzioni culturali e imposizioni della società.

Inoltre è consapevole di come e quanto la scienza sia penetrata nel quotidiano e abbia trasformato la nostra vita, influenzando soprattutto la concezione del corpo, che non è più inalterabile e intoccabile, ma diventa manipolabile e campo di sperimentazione; pensiamo ad esempio all’ utilizzo delle lenti a contatto oppure all’ aggiunta di protesi.

Quindi, se il corpo può essere “gestito”, viene smentita l’ idea che vede esso come, esclusivamente, sede di naturalità.

Ecco che andare oltre le categorie e oltre i confini sociali significa superare i dualismi (maschio-femmina, naturale-artificiale, bianco-nero, corpo- mente) e semplicemente essere e riflettere sé stessi.

Silvia Calderoni affronta per un’ ora e mezza un viaggio-performance, raccontandoci con parole, canzoni, video, azioni simboliche, spesso forti e spiazzanti, la storia di un individuo Cyborg: una bambina nata femmina che si abbandonerà al flusso del cambiamento, per lei necessario e inevitabile, e rinascerà una seconda volta.

Sul palco il tavolo con la strumentazione della Cyborg Donna.

Un grande telo triangolare a terra.

Sullo sfondo una circonferenza sporgente dove viene proiettato un filmato di un ricordo dell’ infanzia della nostra protagonista: lei da bambina che canta al microfono.

È particolarmente stonata, il pubblico in sala ride.

Ecco che entra in scena dalla platea Silvia Calderoni, raggiunge il palco, afferra una bomboletta e inizia a spruzzarsi i capelli, muovendosi nevroticamente  (per quasi tutta la performance manterrà un atteggiamento nevrotico, con gesti agitati e compulsivi e scatti continui).

Fa partire la prima traccia musicale e inizia a raccontare…

MDLSX © Ilenia Caleo DSC07986

Così come la nostra attrice è stata diretta e “cruda”, spesso spiazzante, nell’ esporci la storia, lo sarò anche io riassumendovela.

Nel 1960 nacque una bambina dai lineamenti del viso particolarmente maschili.

Crescendo il suo fisico era sempre meno femminile, il seno non compariva, il suo petto era simile a una tavola da Surf, si ritrovò perciò rinchiusa in un corpo avente un unico elemento che la identificava come appartenente alla categoria genetica “donna”: la vagina.

Durante l’ adolescenza foltissimi cespugli di peli iniziarono a crescerle in modo spropositato. Silvia interpreta questo momento della vita della Protagonista avvalendosi di peli mostruosamente lunghi, che infila nella manica della maglietta e sotto i pantaloni, facendoli fuoriuscire all’ altezza delle ascelle e del pube.

MDLSX motus_©DIANE_ilariascarpa_9505

Prende il sopravvento sulla Ragazza-Maschio la paura dello specchio, che la induce a riflettere sulla propria identità, a cercare risposte a domande scaturite dal confronto del proprio corpo con quello delle altre adolescenti che avveniva, ad esempio, nello spogliatoio di Hockey; ma soprattutto, dal fatto di essere consapevole che il suo corpo, i suoi cromosomi, insomma la sua “malattia” fosse oggetto di studio di un dottore.

Un giorno si ritrova davanti alla sua cartella clinica, la apre, la legge, prende l’ enciclopedia, cerca la definizione della sua malattia, nella descrizione viene indicato un rimando a un’ altra patologia, da quest’ ultima un’ altro collegamento, un’ altro termine, sfoglia, legge e si ritrova vittima di un effetto domino di definizioni che lei omologa e traduce con un solo termine:

<<MOSTRO. MOSTRO. MOSTRO. SONO UN MOSTROOOO! MI VEDONO COME UN MOSTRO!!>>.

 

Il momento del cambiamento necessario è arrivato.

Decide di partire, prende la valigia e si avvia verso la sua RI-nascita: lei, individuo nata femmina, rinasce maschio diventando LUI.

Si apre una nuova parentesi della sua vita che resta pur sempre infelice.

Ora indossa una coda da sirena e vende il suo corpo, “sballato” perso.

Prima di ricevere i clienti fuma numerose canne e beve acqua, che non era solo acqua, come se fosse solo acqua, arrivando a percepire sempre meno il cliente e tuffandosi nella piscina dello sballo, dove, illusoriamente i pensieri che vuole evitare, annegano.

<< Una volta ero talmente sballato che feci una cosa che non avevo mai fatto: mi sono buttato nella vasca e ho aperto gli occhi sotto acqua e ho visto i visi dei clienti. >> .

Si accendono le luci in sala gradualmente. Silenzio. Qualche minuto di sospensione, la Calderoni ferma sul palco, come se lo spettacolo fosse concluso. Ho avuto quasi l’ impressione che l’ intento di quella situazione fosse proprio quella di portare il pubblico a guardarsi.

Riprende la storia…

Una “sfortunata” sera arriva la polizia al locale, le viene data la possibilità di chiamare un famigliare e lui decide di chiamare suo fratello.

Insieme, fratello e FRATELLO tornano a casa, arrivati suo padre apre la porta e….

<< Papà io sono sempre stato così>>.

Frase accompagnata dalla proiezione di un filmato che mostra una piccola festicciola famigliare, dove padre e figlia/figlio ballano e cantano serenamente.

Il padre, il fratello e il personaggio interpretato da Silvia, tutti quanti sono andati oltre, oltre le imposizioni sociali, oltre le categorie che altro non sono che costruzioni culturali, oltre i dualismi, oltre il genere maschile o femminile.

Lo spettacolo affronta in modo particolare, comunicando sia attraverso la parola, il gesto e la musica, un tema non facilmente accessibile e che richiede profonde riflessioni.

Silvia Calderoni si immerge in una performance piuttosto spiazzante, sparisce dietro il personaggio da lei interpretato, si mostra disinibita e “pronta” nelle scene di nudo dove strofina violentemente le sue parti pubiche, si trasforma insieme all’ individuo Cyborg.

Le luci, l’ atmosfera della struttura delle Lavanderie a Vapore, la voce della Calderoni e le tracce musicali accompagnano lo spettatore nel viaggio oltre i confini e oltre le categorie, fornendogli numerosi input significativi per iniziare a riflettere su un tema a cui probabilmente non han mai dedicato molta attenzione: l’ identità è un genere?

Ammetto che la comprensione dello spettacolo non è stata immediata, ma frutto di una riflessione e di una rielaborazione della performance vista e ascoltata.

Lo spettacolo mi ha spinta a provare a ragionare sull’ individuo Cyborg, ho cercato informazioni riguardo argomenti di cui prima ignoravo l’ esistenza.

Insomma MDLSX è uno di quegli spettacoli che, seguito con attenzione, e allo stesso tempo lasciandosi trasportare dal viaggio che ti propone e tendente all’ OLTRE, ti colpisce, fa scattare qualcosa in te e improvvisamente ti ritrovi travolto da una cascata di domande: con il fiato sospeso inizi a ragionare alla ricerca di risposte!

 

di Daniela Nicolò e Silvia Calderoni
regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

drammaturgia Daniela Nicolò e Silvia Calderoni
suoni Enrico Casagrande
in collaborazione con Paolo Panella e Damiano Bagli
luci e video Alessio Spirli

produzione Motus

in scena alle Lavanderie a Vapore

ORGIA: una spirale nevrotica di vita e di morte

«Orgia – rispondeva così Pasolini, nel 1968 – è il dramma della disperata lotta di chi è diverso contro la normalità che respinge ai margini, che rinchiude nel ghetto, è il rapporto tra diversità e storia».

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«La mia Orgia è la tragedia di chi non sa stare al mondo» risponde, invece, più sinteticamente Licia Lanera, regista, nonché attrice protagonista di questa revisione moderna, e a tratti un po’ punk, dell’omonima tragedia dello scrittore bolognese e fondatrice nel 2006, insieme al drammaturgo Riccardo Spagnuolo, della compagnia Fibre Parallele.

Ed è proprio quest’ultima a ridurre a uno la trinità del corpus pasoliniano, consegnando l’inadeguatezza e la difficoltà del vivere nelle mani e nel “cappuccio nero della felpa” dell’Uomo:

«Sono l’Uomo e la Donna perché io sono già quell’ambiguità, non c’è bisogno di travestimenti. La tragedia è di entrambi, solo la prostituta è totalmente inconsapevole del mondo. Il rapporto di potere, di carnefice e vittima, di dominio, tra marito e moglie, è però in fondo paritario, non lo è fisicamente ma mentalmente sì» spiega l’attrice.

I protagonisti vivono in due realtà: quella superficiale fatta dell’odore dei gelsi profumati, di sorrisi e di ingenuità e quella nuda e cruda della camera dei due sposi, dove si consuma ogni forma di piacere, di terrore, di rimorsi e di violenza, poiché quest’ultima è l’unico mezzo in grado di mettere in comunicazione le due fragili belve.

Una poltrona al centro del palcoscenico, un leggìo, un microfono – scelto appositamente dalla Lanera – per risuonare meglio, un cappuccio per trincerarsi e da tirare sopra la testa fino a coprire gli occhi; un’alternanza di luci e buio dove si muovono dei pesanti anfibi neri e un corpo irrequieto e pulsante che resta in ascolto della sua stessa voce registrata, riempiono il palcoscenico del Teatro Astra, che in occasione del Festival delle Colline Torinesi, ha ospitato la prima nazionale dello spettacolo.

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Nella rilettura della Lanera, dove carnefici e vittime si scambiano continuamente i ruoli, viene enfatizzata la tragedia della diversità, cara a Pasolini, insieme a quella della linguistica: in particolare viene enfatizzata la dicotomia tra linguaggio verbale (inesistente e frivolo) e linguaggio del corpo, con i suoi tratti barbari e animaleschi.

Il monologo finale dell’Uomo, che uccide la moglie-serva dopo aver messo in atto con lei pratiche sadomasochiste, vuole renderci consapevoli che la realtà intorno a noi è fatta di parole macchiate di menzogna, che addirittura ci vengono insegnate sin dall’infanzia; sono «parole, parole, parole che parlano», che riempiono le nostre cucine, i nostri luoghi di vita, le nostre camere da letto… parole che, in realtà, non hanno nulla da dire. Ricorrere alla violenza sembra ormai essere l’unico modo per l’Uomo di colmare questo vuoto, che lo porterà sino al suicidio: «Ho scoperto che c’era un qualcosa che mi tranquillizzava nel tenere la testa nel mio stesso vomito…».

Ed è soltanto grazie al suicidio, che egli raggiungerà la completa libertà. Durante i 60 minuti di spettacolo, infatti, la scenografia della Lanera muta via via forma, diventando sempre più grottesca, squallida e nauseante, quasi si stesse preparando un rito di morte, che è allo stesso tempo rinascita e vita.

La novità della messa in scena consiste, poi, nell’incursione dell’incalzante rap di Eminem e nell’apparizione di tre dipinti seicenteschi (Paesaggio con la Ninfa Egeria di Claude Lorrain, Maddalena in estasi di Caravaggio, Ila e le Ninfe di Francesco Furini), riprodotti dal pittore Giorgio Calabrese: immagini che permettono uno sdoppiamento della visione teatrale.

La voracità e la spregiudicatezza delle parole e dei movimenti di Licia Lanera, la sua crudeltà e la sua nudità scenica fanno del testo di Pasolini una “bomba a mano” in procinto di esplodere addosso al pubblico e di farlo riflettere su quanto sia estenuante vivere in un mondo dove i rapporti sociali altro non sono che rapporti violenti e di potere, in cui c’è sempre chi copre il ruolo di vittima e chi quello di carnefice, ma anche dove il carnefice è egli stesso vittima, quasi a rovesciare il concetto darwiniano di selezione naturale, dove a perdere e a vincere siamo tutti e non solo il più forte!

 

Martina Di Nolfo

 

ORGIA

Fibre Parallele

 

di Pier Paolo Pasolini

regia Licia Lanera

 

con Licia Lanera

e Nina Martorana

regista assistente Danilo Giuva

consulenza artistica Alessandra Di Lernia

luci Vincent Longuemare

costumi Antonio Piccirilli

dipinti Giorgio Calabrese

tecnico di produzione Amedeo Russi

organizzazione Antonella Dipierro

spazio Licia Lanera

 

produzione Fibre Parallele

coproduzione Festival delle Colline Torinesi, CO&MA Soc. Coop. Costing& Management

con il sostegno di L’Arboreto-Teatro Dimora di Mondaino

la compagnia è sostenuta dal MiBACT

Roberta Cade in Trappola: Viaggio verso il pianeta G570

Stanza piccola, buia.

Al centro, una scrivania, una pila di diari, un microfono, un bicchiere d’acqua, due attori, una piantana, una videocamera, un libro, un registratore.

Dai nastri escono rumori, suoni, canzoni di un tempo, voci.

Questo spettacolo inizia con un numero di magia!

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ALEARGA: la donna che corre

Corri. Corri per mantenerti in forma, per rilassarti, per il puro piacere di praticare uno sport. Ma correre significa solo questo? Non di certo per la protagonista di Alearga (che appunto significa “Corri!”), una giovane donna la cui età non ci viene mai svelata ma che si presuppone sia attorno ai trent’anni. Lei corre perché vede il tempo fuggire troppo velocemente portando via con sé la sua giovinezza. Corre quando sente che la vita le sta mettendo davanti sfide difficili da superare. Corre quando le sembra di essere inadatta alla figura di donna perfetta che la società vuole. Corre, ma nello stesso tempo riflette in solitudine sulle sue esperienze passate, sulle delusioni e i suoi cambiamenti.

Continua la lettura di ALEARGA: la donna che corre

Geppetto e Geppetto: biologia o sentimento?

 “Toni perché abbiamo desiderato così tanto avere dei figli, forse per paura di rimanere soli?”

“No Franca, no, i figli non si fanno per questo!”

Anche io – seppur nella condizione di  figlia e non ancora di genitore- confesso di essermi chiesta parecchie volte quale senso abbiamo noi figli per i nostri genitori e che senso ci sia nel desiderarci a tutti i costi. Avere figli  può essere emozionante,  talvolta può essere controproducente; il rapporto genitore-figlio non è sempre roseo, ci possono essere difficoltà economiche, ideologiche e pratiche, eppure sono sicura che qualsiasi madre sacrificherebbe la propria vita per quella del  figlio, senza esitazione!

Mi sono interrogata sulla tanto discussa “stepchild adoption” e se essa nasca  da un reale desiderio  d’amore o se, in fondo, non sia  un pretesto per affermare il proprio orgoglio omosessuale e i propri diritti in un paese, sotto molti aspetti, ancora ben poco al passo coi tempi. Il regista Tindaro Granata mi ha fatto capire,  pragmaticamente, che non c’è alcun senso, in realtà, nell’essere genitore e nell’essere figlio, esattamente come nell’amore: quando si ama qualcuno, lo si ama e basta, e si ama con esso la follia, il desiderio e le difficoltà che comporta. E così  succede nel rapporto tra genitori e figli.

GEPPETTO

Con una scrittura empatica e aderente alla realtà, Granata  porta in scena – in  prima nazionale alla XXI edizione del Festival delle Colline Torinesi –  Geppetto e Geppetto, la storia di Toni e Luca, due  uomini che si amano, e che sono disposti ad andare contro tutti e contro tutto per avere il figlio che tanto desiderano. Dopo qualche esitazione, partiranno  per il Canada, dove ricorreranno all’inseminazione artificiale tramite una “gravidanza per altri” (pratica  vietata nel nostro paese). Dopo il ritorno in Italia e un lutto imprevisto, il figlio Matteo dovrà fare i conti con la difficoltà che il crescere comporta; mentre Luca farà i conti con il rapporto travagliato che ha con il figlio, rapporto che,  solo nel  finale commovente,  troverà un suo positivo modo di esprimersi.

Una vicenda, quella di Geppetto e Geppetto che,  a partire dalla    favola di Collodi, cita un celeberrimo padre  single, Geppetto appunto. Come ha spiegato, Granata non si schiera né “pro” né “contro” la questione, ma  racconta  la “semplice” storia di un papà che vuole fare unicamente il papà e di un figlio che vuole fare il figlio… “Se solo ci fosse  più amore” ripete spesso ironicamente Luca, interpretato dallo stesso Granata,  ci sarebbero meno problemi!

Estremamente attuale è dunque il tema dello spettacolo che richiama la  legge Cirinnà (tanto criticata da una parte, tanto attesa dall’altra) su unioni civili e convivenze, legge infine approvata  dopo un lungo iter.

“Ho rubato pensieri e ignoranza dalle persone; ho rubato loro paura, dolcezza, rabbia, intolleranza, odio e amore. Ho annotato sulla linea ferroviaria Cosenza- Milano Centrale punti di vista e luoghi comuni” spiega Granata , “così sono salito sui tram, ho incontrato persone, mi sono finto un giornalista per raccogliere riflessioni di madri e di donne spaventate da questa tecnica che prevede un utero in affitto”. Esempi lampanti sono infatti la figura di Franca (Alessia Bellotto), l’amica di famiglia e la maestra elementare di Matteo (Lucia Rea per la prima volta sul palcoscenico).

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Efficace, nella sua semplicità,  la scenografia: un tavolo al centro della scena e  sedie lungo i lati del palcoscenico. I costumi sono  magliette nere con dei nomi attaccati, che via via si staccheranno durante i 90 minuti dello spettacolo, perché la volontà della regia è quella di dare voce a personaggi, focalizzando  l’attenzione sul dinamismo delle situazioni più che sulla realtà statica dei caratteri.  Non manca poi un’attenta riflessione sui  diversi tipi di famiglia di oggi. Granata  ne mette a confronto tre. Quella cosiddetta normale di Walter, caro amico di Matteo, preoccupata unicamente dell’agognato “posto fisso” in azienda, scordando così le reali attitudini del figlio; quella a stampo “matriarcale” di Lucia, alla quale è mancato un padre, e quella “strana”, forse la più invidiata, e forse la più bella nonostante i problemi, di Matteo Luca e Toni.

Quest’ultima si scontrerà con la madre di Toni (Roberta Rosignoli) che metterà in discussione il rapporto con il figlio poiché totalmente contraria al modo in cui dovrà nascere Matteo: “Non è che uno può pensare una cosa e poi la fa! I figli sono una cosa seria…siamo animali che amano”.

A fare da “intermezzo musicale” allo spettacolo ci sono frammenti registrati durante il Family Day del 30 gennaio scorso, che riportando voci distoniche e opinioni dei manifestanti, voci  che paiono aggredire la platea!

Per concludere, sono stati invitati a raccontare la propria esperienza, due “Geppetti” in carne ed ossa: Francesco e Piero, due uomini che, come Toni e Luca, si amano e che stanno lottando  per avere un figlio, ben consapevoli delle difficoltà di crescerlo. I figli sono una cosa seria e i genitori lo sono altrettanto per la nostra identità di figli; quando si parla di avere due padri o due madri, di affittare un utero, non so dove stia la ragione, cosa sia davvero giusto e cosa sbagliato, ma forse dovremmo togliere a questa questione un po’ di biologia e metterci un po’ più di sentimento: in fondo anche un nonno, una nonna, un amico, un cane o gatto possono essere la nostra famiglia. Tutti sbagliano, tutti amano, tutti odiano e tutti hanno diritto ad avere diritti. Se  poi a far da mamma è un padre e far da padre è una mamma forse poco importa, no?

 

Martina Di Nolfo

 

Geppetto e Geppetto

Scritto e diretto da Tindaro Granata

Con Alessia Bellotto, Angelo Di Genio, Tindaro Granata, Carlo Guasconi, Paolo Li Volsi, Lucia Rea, Roberta Rosignoli.

Coproduzione: Teatro Stabile di Genova, Festival delle Colline Torinesi, Proxima Res.

Regista assistente: Francesca Porrini

Allestimento: Margherita Baldoni

Luci e suono: Cristiano Camerotti

Movimento di scena: Micaela Sapienza