Archivi tag: in evidenza

Slow Walk con Anne Teresa De Keermaeker al Festival d’Automne di Parigi

My walking is my dancing è il principio che nutre il campo di ricerca delle più recenti creazioni della coreografa e danzatrice fiamminga Anne Teresa De Keermaeker. Il camminare è un’azione semplice che può insegnare qualcosa della complessità ritmica che ognuno di noi vive nel tempo e nello spazio. La camminata lenta come forma di meditazione trova origine nel buddismo dove, a differenza della meditazione da seduti nella quale si mantengono gli occhi chiusi, viene rinforzata la connessione tra l’individuo e l’ambiente che lo circonda.

Il progetto Slow walk si inscrive nella continuità del lavoro della De Keermaeker (una camminata lenta, sulla musica di Brian Eno, è all’inizio dello spettacolo Golden Hours) e si presenta come un’opportunità, gratuita e aperta a tutti, di sperimentare un rallentamento del corpo e dello spirito e allo stesso tempo di abitare lo spazio urbano attraverso una prospettiva inusuale. Opportunità particolarmente preziosa in una città come Parigi, nella quale regna sovrana una velocità frenetica che fagocita ogni spazio.

Per camminata lenta si intende un movimento a circa cinque metri al minuto, quattro ore per un itinerario che migliaia di persone percorrono ogni giorno in dieci minuti. Il ritmo è stato scandito dai danzatori della compagnia Rosas e dagli allievi della scuola P.A.R.T.S. Lo Slow walk ha condotto in piazza della République dove un breve workshop tenuto dalla De Keermaeker si è concluso con una sfrenata danza collettiva.

Durante il percorso molte persone fotografavano e filmavano i gruppi che procedevano lenti e la domanda più frequente è stata: perché? Anne Teresa De Keermaeker rispondeva semplicemente che si tratta di sperimentare un cambiamento della percezione. Un venditore di oggetti d’antiquariato ha chiesto se non fosse un po’come camminare sulla luna. La coreografa ci ha pensato un momento e poi ha risposto: No, perché qui c’è la gravità. Dalla camminata può partire una ricerca che porta lontano, fino al desiderio di volare, come ha dichiarato la De Keermaeker in un’intervista. Viene in mente Trisha Brown con la sua continua sfida alle leggi gravitazionali e il suo misurarsi non con lo spazio della scena, ma con l’ambiente esterno, includendo anche danzatori non professionisti.

Nel workshop in piazza della République si è passati dalla meditazione alla gioia del movimento e della condivisione, sotto gli occhi di bronzo della Marianne. Al di là della ricerca degli infiniti strati di significato celati da un gesto si ritrova allora quel desiderio, posato in ognuno di noi, dichiarato e segreto allo stesso tempo, espresso dalla canzone di Withney Houston, sulla quale ci si scatena: I wanna dance with somebody. With somebody who loves me.

Incartati di Rifili

Incartati è una miscela dinamica di scenette danzate e recitate le quali, condensate in un formato teatrale di media durata, esplodono una dopo l’altra in rapida successione. In scena Filippo Bandiera e Riccardo Maffiotti, compagni nel lavoro e nella vita, che l’hanno scritto e interpretato. Li abbiamo visti durante le prove a porte aperte nella sala ballo del Teatro Carlo Felice di Genova, che ha concesso una residenza ai due attori. Il tema portante del lavoro, affidato al duo direttamente dalla committente (la direttrice del Kultunaum Rosenhof di Wiesental, Pilar Buira Ferre, che lo ha appositamente voluto per il suo festival Tanz.Kultur.Dialog), riguarda gli “strati dell’esistenza”.

La tematica, squisitamente tedesca, è trattata con un consapevole mix di teatro danza e teatro di prosa. Lo stratificarsi della personalità umana è fotografato dagli autori nella sua dimensione intima e quotidiana, fra abitudini, ansie, e scatti d’ira da cui siamo tempestosamente abitati. Le coazioni a ripetere che nella foga della vita contemporanea riempiono le nostre azioni accumulandosi l’una sull’altra senza tregua, rendono vani i nostri più nobili tentativi di riflessione personale.

Con sapore tragicomico lo spettacolo alterna momenti cabarettistici a dialoghi decontestualizzati, silenzi musicali ad azioni mimate, il tutto intervallato dall’apparizione di due signorine, le infermiere della drammaturgia, pronte ad intervenire ogni qualvolta i personaggi si dovessero incartare, appunto, senza possibilità di procedere oltre. Gli sketch si perdono l’uno dentro l’altro, senza lasciare una traccia definita nella memoria dello spettatore, esattamente come la moltitudine di immagini, informazioni, e attività che ognuno di noi incontra e realizza quotidianamente. Nella confusione interiore ogni tentativo di riesumare un affetto, un sentimento, un significato, viene puntualmente schiacciato sotto il peso insostenibile della velocità.

Un duo agrodolce, senza pretese, che attraverso la leggerezza delle diverse scene e scenette restituisce una fotografia tristemente realistica della vita contemporanea.

Portrait à danser – Ritratti coreografici per sei danzatori e un violista

Dal 4 all’11 agosto a Finale Ligure ha luogo la quinta edizione del Festival {te}che, un’offerta di danza, arti visive, videodanza, musica e teatro nei suggestivi chiostri di Santa Caterina, all’interno del centro storico di Finalborgo. Vi abbiamo preso parte la sera di domenica 5, per vedere lo spettacolo Portrait à danser di Giovanni Di Cicco e Giuseppe Francese, un lungo e complesso lavoro di danza che si articola in cinque momenti. I sei danzatori della compagnia DEOS – danse ensemble opera studio si sono alternati sul palco secondo ordini e insiemi di volta in volta diversi seguendo l’esecuzione dal vivo di cinque brani per viola sola, suonati dallo stesso Francese e coreografati per l’occasione da Di Cicco: 54 minuti di coreografia senza sosta.

Tema fondamentale della creazione è il lavoro fisico, scritto sul corpo e per il corpo di ogni interprete, con alta fedeltà alla scrittura musicale. Una partitura coreografica che mira a muovere e a smuovere la compagnia stessa verso terreni nuovi, diversi da quelli in cui è solito operare l’ensemble, ma rispettando le soggettività e le possibilità dei singoli danzatori e dei loro corpi. Spogliata di qualsivoglia simbologia la scena è sobria, nessuna scenografia è presente tolti i due leggii dai quali Francese legge la sua musica e un grande telo rettangolare riflettente che verso la fine dello spettacolo Noemi Valente srotolerà sul palco per danzarci sopra. I costumi, disegnati da Pasquale Napolitano, seguono la linea minimale: prevalenti i bianchi e i neri, con qualche accenno di colore qua e là. Il movimento come la scena, il visibile come l’udibile, riportano costantemente lo spettatore al silenzio e alla sobrietà dalla quale sono emersi.

Al modernismo musicale dei cinque brani, tutti appartenenti al repertorio novecentesco, eccezion fatta per il primo di questi, una recentissima composizione che Marco Lombardi ha scritto appositamente per il violista Francese (il cui titolo, Portrait, ha ispirato il nome del lavoro coreutico), Giovanni Di Cicco ha risposto con una coreografia rigorosa che vuole, nonostante le difficoltà tecniche, andare a tempo col pentagramma, seguire quanto più fedelmente possibile quella pulsante e talvolta schizofrenica metrica novecentesca, vero e proprio incubo di tanta coreografia contemporanea. Si sa, scrivere danza sulla musica sinfonica del Novecento non è un mestiere facile. Particolarmente per una compagnia dell’opera, abituata a lavorare con un forse più rassicurante repertorio ottocentesco. Fra Hindemith, Penderecki, Stravinsky e Reger, la viola di Giuseppe Francese offre ben pochi appigli per una scrittura di danza solida e facile da riconoscere. Tuttavia continuità delle azioni fisiche e movimento spezzato si incontrano, si bilanciano, si supportano.

Uno spettacolo che si colloca all’incrocio di quelli che la critica definisce secondo e terzo paesaggio della danza (che sono poi, volgarmente, danza moderna e danza contemporanea), nella misura in cui, raccogliendo la sfida del più ostico modernismo musicale, lo restituisce allo spettatore in una commistione piuttosto coerente di linguaggi: un rigoroso formalismo, che non lascia spazio a niente di improvvisato, reso con una qualità del movimento che riconosciamo tuttavia come fortemente contemporanea. Abituati dalla danza astratta del terzo paesaggio, che smonta le “antiche” questioni formali di metrica e ritmo e che difficilmente rispetta la musica (quando già si ricorda di rispettare il sistema-teatro), gli appassionati di Tersicore rischiano di sottovalutare la fatica e il sudore che un lavoro del genere ha richiesto per essere realizzato. La comprensione richiede lentezza.

Niente di ermetico insomma, niente di concettuale, o di anti-teatrale. Portrai à danser danza il modernismo e non vuole mettere in discussione alcun codice moderno (moda questa tutta post-moderna, ma che puntualmente non porta a nessun linguaggio veramente diverso da quello che nega). Celebra invece il valore della coreografia, in una danza martellante, lunga, difficile, e tuttavia silenziosa. Senza uscire dal linguaggio della danza lo cavalca, scavalcando molti dei consueti narcisismi che intaccano il settore. Un lavoro faticoso e faticato, giustamente riconosciuto dagli applausi del pubblico, che speriamo di poter rivedere ancora, magari sui palchi di altri festival di danza.

 

Foto di Michael Palamà

 

SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE: UN’INCONSCIA VISIONE DI UNA METAFORA D’ AMORE

Per la seconda volta, a distanza di pochi giorni mi ritrovo ad assistere ad un nuovo spettacolo al Teatro Carignano. Questa volta si tratta di Sogno di una notte di mezza estate diretto da Elena Serra.
Il teatro, sia per Romeo e Giulietta che per Sogno di una notte di mezza estate si è prestato ad un mutamento scenografico, allargando il palco fino a metà spalti e ricoprendolo di erba sintetica, quasi come se fosse una vera e propria scena elisabettiana.
Se con Romeo e Giulietta rimasi entusiasta per la freschezza degli attori nel rendere la tragedia una visione fanciullesca, nel Sogno la compagnia si è superata. Questi giovani attori sono riusciti a dare un qualcosa in più.

Non è la prima volta che assisto alle loro rappresentazioni e man mano, spettacolo dopo spettacolo, emergono nuove sfaccettature del loro modo di lavorare .
Questa volta, quello che mi ha colpita è stata il senso di interezza che sono riusciti a far emergere da una delle più famose commedie di Shakespeare, rendendo le parti uniche nel loro genere. Visto che il testo non ha un unità di tempo o di spazio, la regista ha potuto sfruttare a pieno il palco, utilizzando enormi cuscini dai quali fuoriescono una buona quantità di foglie, inserendo una fontana da cui sgorga acqua dove alcuni attori si siederanno, si bagneranno e si uniranno in un unico corpo ed infine facendo muovere tutti loro in danze ritmicamente nevrotiche con la musica dei Laibach. Inoltre i costumi degli attori passano da una maestosità contemporanea ad una semplicità quasi medievale.
Sicuramente nelle parole di Elena (Annamaria Troisi) un po’ tutte le donne o prima o dopo si sono ritrovate. La sua disperazione per il rifiuto continuo del suo amato Demetrio (Christian Di Filippo), ogni volta che lo rincorrere non fa altro che peggiorare la situazione, mentre la vivacità di Ermia (Barbara Mazzi), il suo essere algida nei suoi confronti lo porta ad innamorarsi di lei ma la giovane Ermia ha occhi solo per Lisandro, il suo unico amore (Marcello Spinetta). Insomma vedremo un bel quartetto in azione.

Ogni attore, in questa rappresentazione ha cercato di creare un siparietto divertente, come quello di Oberon (Vittorio Camarota) insieme al folletto Robin (Raffaele Musella) che oltre ad essere tecnicamente encomiabili sono riusciti ad avere una buona presenza sul palco utilizzando capriole, sbeffeggiamenti e una timbrica maestosa.

Ottima anche Titania (Beatrice Vecchione) che rimarrà fissa sulla fontana ma questo non le impedisce di ammaliare con la sua presenza scenica e con le sue alterazioni vocali proprio come la fata, Fior di Pisello (Giorgia Cipolla) che vedremo addirittura cantare.

Ed il padre di Ermia, Egeo (Alessandro Conti) il quale avrà una voce robotica e sarà posizionato su una “balconata”.
Ed infine i due soldati di Atene Nick Bottom (Angelo Tronca) e Peter Quince (Yury D’Agostino) che hanno creato un siparietto niente male, inscenando all’interno della commedia, la tragedia di Romeo e Giulietta con un’ironia e un sarcasmo che ha coinvolto tutto il pubblico, suscitando impeti di applausi e calorose risate durante la rappresentazione.

Insomma il progetto del “prato inglese” direi che ha dato i suoi frutti, portando in questo caso nel Sogno di una notte di mezza estate il tocco di una donna che ha affrontato la commedia shakesperiana con un’inconscia visione di una metafora d’amore.

di William Shakespeare
con Vittorio Camarota, Giorgia Cipolla, Alessandro Conti, Yuri D’agostino, Christian di Filippo, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione, Annamaria Troisi, Angelo Tronca
scene e luci Jacopo Valsania
costumi Alessio Rosati, Aurora Damanti

regia Elena Serra
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

Recensione di: Alessandra Nunziante

ROMEO E GIULIETTA: UNA FAVOLA BAMBINA

Freschezza. Ecco cosa mi viene in mente pensando allo spettacolo che possiamo vedere in questi giorni al Teatro Carignano su Romeo e Giulietta.

Freschezza per aver reso la rappresentazione con una spensieratezza fanciullina dei due protagonisti. Due ragazzi giovani, pieni di sogni che si innamorano con un solo sguardo l’uno dell’altro, lasciando alle spalle il presagio futuro.

L’attrice che interpreta Giulietta (Beatrice Vecchioni) è riuscita a rispecchiare bene queste dinamiche, con una voce molto scandita ma lasciando integro l’aspetto adolescenziale. Tutto si basa su una sorta di immaginario irreale ma al contempo vero negli aspetti umani. Il décor è quasi assente nonostante il palco allargato dalla vastità di verde. Sono a Verona ma sono gli attori a far vivere questa città con una spiccata fantasia bambinesca.

I miei occhi vengono attirati dalla presenza di un pallone gigante che viene fatto roteare dagli interpreti in avanti e indietro per simulare la luna e da una struttura moderna dove in alto è situata la giovane Giulietta e ancora più in alto un’attrice che simula il ruolo di voce parlante, coscienza ritmica e musicale.

Mercuzio (Angelo Tronca) amico fidato di Romeo, ha un peculiare senso di originalità e di presenza scenica. Quando morirà rimarrà presente in scena fino alla fine dello spettacolo creando un senso di amarezza.

 

 

Il frate (Raffaele Musella) riesce a far emergere l’animo di un messaggero del signore pieno di sentimenti, di una pazzia risolutoria che aiuta i due innamorati in un intento quasi vano.

In alcuni momenti dello spettacolo, troviamo anche performance musicali che catturano l’attenzione dello spettatore facendo venir voglia di muovere ritmicamente le gambe.

In conclusione, il regista Marco Lorenzi, insieme a tutti gli attori, è riuscito a ringiovanire uno degli spettacoli più conosciuti al mondo, facendo trapelare in alcuni momenti una sorta di favola bambina.

 

 

di William Shakespeare

con Vittorio Camarota, Giorgia Cipolla, Alessandro Conti, Yuri D’agostino, Christian di Filippo, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione, Annamaria Troisi, Angelo Tronca

scene e luci Jacopo Valsania

costumi Alessio Rosati, Aurora Damanti

regia Marco Lorenzi

Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale

 

Recensione di Alessandra Nunziante

La trilogia Mozart-Da Ponte chiude la stagione del Teatro Regio

La stagione del Regio si chiude con tre titoli fondamentali della storia dell’opera, proposti a Torino per la prima volta in un unico corpus: Le Nozze di Figaro, Don Giovanni e Così fan tutte. I tre capolavori di Mozart, composti tra il 1786 e il 1790, su libretti di Da Ponte, sono una meravigliosa realizzazione di drammaturgia musicale: parole e note si fondono in modo perfetto e trasformano l’opera buffa, un genere fino a quel momento frivolo e superficiale, in una forma d’arte capace di toccare le corde più profonde dei sentimenti umani. Tra unioni coniugali, tradimenti, rimpianti e libertinaggi è rappresentata una sfaccettata fenomenologia dell’amore nei suoi inestricabili legami col potere: il Settecento come momento topico di questo intreccio ad ogni strato sociale. Le tre regie sono firmate da nomi di rilievo, Elena Barbalich per Le Nozze di Figaro, Michele Placido per Don Giovanni, Ettore Scola per Così fan tutte (le ultime due riprese da Vittorio Borrelli), al fine di richiamare un vasto pubblico, il quale ha effettivamente risposto numeroso all’evento confezionato dal Regio.

Nelle Nozze di Figaro si respira l’atmosfera del secolo, con alcune incursioni nel futuro prossimo: Cherubino è iconograficamente connotato come il Napoleone a cavallo del quadro di David ed è seguito da una folla di rivoluzionari. Le scene di Tommaso Lagattolla (che ha curato anche i costumi) in accordo con la regia intendono rappresentare il tortuoso percorso iniziatico dei personaggi, connotato da una “componente massonica” attraverso i simboli della squadra, della scala, dell’alternanza luce e buio ecc. Purtroppo però la resa è quella di una scenografia che comunica oppressione e i personaggi appaiono come incastrati tra i pannelli: il messaggio non arriva. La resa canora e interpretativa è invece comprensibile e nell’insieme godibile, grazie soprattutto alla direzione di Speranza Scappucci, misurata e puntuale.

Nel Don Giovanni la direzione di Daniele Rustioni coglie equilibratamente gli aspetti musicali barocchi che in quest’opera colorano lo stile classico mozartiano. La medesima ambizione sembra animare la regia la quale tuttavia degrada in una forma scenica che sfiora il cattivo gusto. I colori cupi degli arredi e dei costumi (firmati da Maurizio Balò) rabbuiano la scena senza, per altro, comunicare la conturbante oscurità dell’opera. Le coreografie trascurate, da orgia campestre, animano la scena del ballo attraverso dei fermo-immagine catturati da flash anacronistici di una macchina fotografica presente sul palco. È ricorrente nell’opera lirica, spesso senza giustificazione drammaturgica, esporre corpi esausti e seminudi in pose plastiche, che mirano a compiacere un immaginario nutrito di stereotipi televisivi. Se effettivamente funzionali a riempire un vuoto dello sguardo, tali danze sminuiscono il valore dello studio coreutico dei corpi in scena. Nonostante (o forse grazie a) questo l’allestimento, a distanza di tredici anni dal suo debutto, è ancora apprezzato dal pubblico, formato da molti turisti, che ha applaudito calorosamente.

Così fan tutte incanta con il suo fascino misterioso e la struggente bellezza delle melodie. L’allestimento è il più riuscito dei tre, fedele al clima settecentesco, delicato nei colori ed elegante negli arredi, trasmette le medesime suggestioni sensuali delle tele di Fragonard. Altrettanto coerenti i giochi di nascondimenti e rivelazioni realizzati, nella pienezza della profondità scenica, da Luciano Ricceri. L’opera presenta arie tra le più impegnative di tutta la produzione mozartiana, in particolare per i ruoli femminili. Pure un soprano di prim’ordine come Federica Lombardi non si rivela una Fiordiligi abbastanza agile nelle acrobatiche arie Come scoglio immota resta e Per pietà ben mio perdona. Da segnalare anche Francesco Marsiglia nel ruolo di Ferrando non perfetto nell’intonazione della cavatina Tradito, schernito!. L’interpretazione orchestrale è più convincente: il maestro svizzero Diego Fasolis, al suo debutto sul podio del Teatro Regio, ha impresso il suo tocco personale alla direzione, derivato anche dalla sua profonda esperienza nel repertorio antico.

L’istituzione torinese, forte dei suoi recenti cambiamenti (ricordiamo William Graziosi alla sovrintendenza e Alessandro Galoppini alla direzione artistica), si avvia verso una nuova stagione molto attesa. Alla sua presentazione infatti, oltre alla sindaca Chiara Appendino, si è registrata la presenza di un gran numero di torinesi. Nuovi melomani o cittadini preoccupati dalla “tempesta” che ha recentemente scosso il prestigioso ente lirico? In attesa di nuovi sviluppi, la trilogia mozartiana rimarrà in scena fino all’8 luglio. Il Teatro riaprirà la stagione 2018/19 con Il Trovatore di Verdi a partire dal 10 ottobre.

Recensione di Marida Bruson e Tobia Rossetti

FDCT23 – AIACE

In conclusione al Festival delle Colline Torinesi è andato in scena il 22 giugno alle Lavanderie a Vapore di Collegno Aiace, testo classico di Sofocle rivisitato da Linda Dalisi e interpretato dall’attore ivoriano Abraham Kouadio Narcisse (Aiace), da Michelangelo Dalisi (Odisseo) e dall’attrice francese Estelle Franco (Dea Atena e Tecmessa).

Dopo la morte di Achille, al nono anno della guerra di Troia, le sue armi vengono ereditate da Odisseo. Aiace, il guerriero più forte tra gli Achei, secondo, un tempo, solo al Pelìde, in seguito a questa decisione, perde il senno. Preso dall’ira e ispirato da Atena, la protettrice di Odisseo, uccide tutto il bestiame greco, convinto che siano i suoi compagni, ma l’indomani, resosi conto dell’errore e della follia decide di salvare il proprio onore, davanti agli dei e ai Greci, suicidandosi. 

Prima del compiersi del gesto estremo si susseguono una serie di riflessioni sulla condizione umana: dalla follia alla soggiogazione dagli dei; dall’onore al rispetto delle tradizioni; dal ricordo dell’infanzia al rispetto dei padri. 

Il supporto visivo tramite tre proiettori che, letteralmente, proiettano su teli illusioni, sogni, speranze, paure, sangue nel mare ecc…, è particolarmente efficace poiché dà spazio all’interiorità e ai sentimenti dei protagonisti e trova il culmine nel finale, con l’ultima proiezione: Aiace, suicida, si trasforma in centauro.

Aiace prima di tutto, racconta una storia di estraneità, che è culturale, ideologica, temporale, personale. Questo elemento esiste su due differenti piani. Uno è radicato nel testo sofocleo stesso e viene arricchito in seconda istanza dalla presenza in scena di tre attori, provenienti da Costa d’Avorio, Francia e Italia, che parlano lingue diverse. Quello che potrebbe essere un punto di contatto, la lingua, sembra essere, invece, una barriera insormontabile: Aiace, ormai impazzito, non riesce nemmeno più a spiegarsi. Non riesce a esprimere i motivi per cui dovrebbe meritare le armi e Odisseo, dall’alto della sua condizione di forza e della sua arroganza, si rivolge direttamente al pubblico per sottolineare questa mancanza linguistica (Aiace/Abraham sta parlando nella sua lingua madre). Un’estraneità che si risolve in incomunicabilità, ma anche in estraneità da se stessi. La dea Atena infatti annebbia la mente di Aiace che non si riconosce più e tutte le certezze che aveva acquisito in vita scompaiono all’improvviso, lasciando spazio solo al dubbio, al rimorso, al disonore e alla consapevolezza di non poter cambiare in alcun modo il proprio triste destino.

Odisseo sembra solamente uno scaltro arrivista, ma quando entra in contatto con la sua dea protettrice compatisce la sorte del povero Aiace: «Nonostante mi sia nemico, ho pietà per quell’infelice, per la tremenda sciagura cui si trova aggiogato: nella sorte di lui trovo riflessa anche la mia». Ritiene infatti che la debolezza e l’errore siano condizioni che possono diventare di chiunque.

Il ruolo dei proiettori diventa particolarmente rilevante in unione alla musica e alla danza, poiché serve a sottolineare come le paure e i sogni delle persone, pur lontane per cultura o stato sociale, possano essere gli stessi. Aiace si sente inadeguato, deriso e disorientato in un mondo che non riconosce più, privo di tradizione ed onore, e sogna solo di poter tornare bambino e di potersi tuffare nel mare a gareggiare ancora con Achille. L’energia/L’empatia che viene trasmessa dall’esibizione deve far scattare l’allarme, accendere una lampadina: tutti possiamo essere Tecmessa, Atena, Odisseo e Aiace; tutti si possono trovare nelle stesse loro situazioni, ed è bene ricordarsi di non giudicare troppo in fretta, di andare oltre ai pregiudizi e a puntare subito il dito, che sia un amico, il tuo vicino di casa, uno straniero.

Il Festival delle Colline Torinesi arriva qui, con Aiace, alla conclusione della 23esima edizione riaffermando l’importanza delle arti e del teatro. Parafrasando una frase attribuita a Francis Scott Fitzgerald: «Questa è la parte più bella di tutto il teatro [orig. di tutta la letteratura]: scoprire che i tuoi desideri sono desideri universali, che non sei solo o isolato da nessuno. Tu appartieni».

di Linda Dalisi e Matteo Luoni

regia Linda Dalisi

con Abraham Kouadio Narcisse, Michelangelo Dalisi, Estelle Franco

scene Giuseppe Stellato

costumi Graziella Pepe

suono e musiche Marco Messina

luci Simone De Angelis

movimenti Francesco Manetti

assistente alle scene Domenico Riso 

aiuto regia Francesca Giolivo

production Brunella Giolivo

management Michele Mele

produzione stabilemobile

in collaborazione con l’Asilo – exasilofilangieri.it

FDCT-23 DIALOGHI CON LEUCÒ

Torino, 20 giugno

Il Festival delle Colline si sta concludendo e uno degli ultimi spettacoli in programma è Dialoghi con Leucò, una lettura scenica diretta da Silvia Costa di alcuni racconti tratti dall’omonimo libro di Cesare Pavese.
Un’ ora piacevolmente trascorsa alla riscoperta del Mito raccontato con una delicatezza tutta femminile dalle due attrici Silvia Costa e Laura Dondoli.
La scena è aperta e in primo piano ci accoglie un grande cartiglio: “non fate troppi pettegolezzi” (sono le ultime parole scritte da Pavese prima del suicidio) che , quasi facendosi beffe della natura pettegola che la società ha attribuito nei secoli alle donne, anticipa la fedeltà ai racconti che le due attrici s’ apprestano a narrare, tenendo fede a quest’ultimo monito che l’autore ha lasciato al mondo.
I dialoghi vengono generati da movimenti sincronizzati che lentamente si dissociano non acquistando però una vera e propria autonomia, quasi come se i due personaggi narranti non fossero entità fisiche distaccate, ma  due forze di pensiero partorite da un solo soggetto impegnato in un dialogo interiore.
Una dimensione surreale accompagna tutto lo spettacolo, assecondando quella che è la natura nebulosa dei racconti, che lascia libero lo spettatore di percepire ciò che vuole cogliere e di immaginare la propria trama immerso in quella che è pura dimensione onirica.

FDCT23 – MACBETTU La zona d’ombra – Dove gli uomini si fanno lupi

Per la ventitreesima edizione del Festival delle Colline Torinesi è andato in scena il 17 e 18 giugno, alle Fonderie Limone di Moncalieri, Macbettu, versione in limba sarda con sovratitoli in italiano del capolavoro di Shakespeare, diretto da Alessandro Serra e interpretato dalla compagnia Teatropersona.

Lo spettacolo è stato il vincitore del prestigiosissimo premio UBU 2017 e del Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro).

 

Macbettu non si discosta per trama e contenuti dal testo originale, bensì lo amplia con i carnevali sardi: le maschere che rappresentano la foresta che avanza, nel finale, sono simili alle maschere dei Mamuthones e degli Issohadores del Carnevale di Mamoiada. La Sardegna è un luogo sacro e arcaico, dove gli antichi culti pagani sopravvivono ancora oggi in una maniera più vera e sentita rispetto ad altre località ed è lo scenario ideale per rappresentare una tragedia che fa della solennità e della ritualità dei movimenti e di una lingua dal sapore antico e impenetrabile il proprio codice di lettura.

 

La mancanza quasi totale di scenografia e l’assenza di attrici è un omaggio al teatro elisabettiano di Shakespeare. Ciò però non rende meno efficaci le ottime prove degli attori, sia a livello dei singoli – come per quanto riguarda Lady Macbettu, interpretata da un dionisiaco e barbuto Fulvio Accogli – sia a livello corale.

Non è la prima volta che il Macbeth viene rivisitato e ambientato in un’altra cultura. Ne è un esempio il film del 1957 di Akira Kurosawa Il trono di sangue che compie un adattamento in territorio nipponico.

Sono state molteplici negli anni le versioni cinematografiche del capolavoro shakespeariano, ma la versione di Roman Polanski – proiettata al cinema Massimo in preparazione allo spettacolo sardo – è di particolare rilievo perché approfondisce il lato dionisiaco (e demoniaco) delle streghe e di Lady Macbeth. In questo senso compie un’operazione simile anche Alessandro Serra, che caratterizza le Sorelle e soprattutto Lady Macbettu, tutte interpretate da uomini, facendo loro perdere  sembianze umane e femminee in favore di un’aura diabolica. Fulvio Accogli è ottimo nel rappresentare la sensualità del personaggio, specie nella scena del suicidio durante la quale è completamente nudo (o nuda) sul palco, esprimendo una inquietante e peculiare femminilità.

In questo senso Macbettu incontra il Festival delle Colline Torinesi: il viaggio dell’identità tramite la rievocazione elisabettiana e l’annullamento di genere, e la Sardegna come luogo lontano, nel tempo e nello spazio, e straniero dove inscenare temi universali che accomunano tutti gli esseri umani, in una ricerca radicale dell’uomo, sino alla zona d’ombra, la più oscura e bestiale.

 

La zona d’ombra, ovvero il luogo in cui si svolge la vicenda. Un’ombra visibile – lo spettacolo si apre e si chiude entro lunghi momenti di oscurità lacerata dalle streghe, all’inizio, e da suoni metallici che rappresentano il cuore morente di Macbettu, al termine – ma soprattutto un’ombra dell’anima.

Quella che le Sorelle Fatali pronunciano a Macbettu e Banquo potrebbe anche non essere una vera e propria profezia, quanto un dubbio, un’insinuazione proposta e in seguito raccolta dal Conte di Cawdor, che poi si avvererà. Un’ombra che si impossessa anche della consorte che sostiene e inneggia a ogni assassinio (accumulato simbolicamente pietra su pietra come un piccolo nuraghe)  utile per la scalata verso il potere. La zona d’ombra che è il regno del soprannaturale, della vita dopo la morte che si interseca con quella dei vivi con l’apparizione del fantasma di Banquo; ma anche la bestialità dell’essere umano che trova il proprio culmine nella scena, che richiama la maga Circe e i film Porcile (1969) e Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) di Pasolini, in cui i due coniugi danno da mangiare alle guardie del corpo di Re Duncan che lottano tra di loro come maiali e cinghiali, mettendo a dura prova gli spettatori.

Una bestialità che si incarna nell’essere umano e lo porta, giù nella zona d’ombra, a compiere le nefandezze più gravi, che possono essere ben spiegate dalle parole di Cesare Pavese: «Non conosci la strada del sangue. Gli dèi non ti aggiungono né tolgono nulla. Solamente, d’un tocco leggero, t’inchiodano dove sei giunto. Quel che prima era voglia, era scelta, ti si scopre destino. Questo vuol dire farsi lupo […]».

Dialogo tra due cacciatori tratto dal racconto L’uomo lupo da Dialoghi con Leucò, Cesare Pavese

Riccardo Ezzu

Macbettu 

regia Alessandro Serra

tratto da Macbeth di William Shakespeare

con Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Andrea Carroni, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino

traduzione in sardo e consulenza linguistica Giovanni Carroni

collaborazione ai movimenti di scena Chiara Michelini

musiche, pietre sonore Pinuccio Sciola

composizioni pietre sonore Marcellino Garau

scene, luci, costumi Alessandro Serra

produzione Sardegna Teatro e compagnia Teatropersona

con il sostegno di Fondazione Pinuccio Sciola, Cedac Circuito Regionale Sardegna

Premio Miglior Spettacolo UBU 2017,  Premio ANCT 2017 (Associazione Nazionale dei Critici di Teatro)

FDTC-23 DICKINSON’S WALK

“Muovo passi meccanici su una strada senza fili” questo è il leitmotiv che accompagna la passeggiata di chi assiste a The Dickinson’ s walk. Un leitmotiv scelto sia per dare un po’ di respiro alla poesia ma anche perché è la perfetta descrizione della performance. Sulla carta lo spettacolo appare semplice, non serve altro che un’ attrice, un paio di auricolari e una leggera propensione alla passeggiata. Ma queste cose per fortuna non restano su carta e la semplice promenade alla quale lo spettatore attivo si presta perde subito la sua fisicità per diventare una passeggiata interiore. Sono certa che a qualcuno sia capitato di perdersi per le strade della sua città e dei suoi pensieri lasciandosi guidare dalla musica nelle orecchie, ma in questo caso non è la musica a muovere i nostri passi bensì la poesia. L’ accesso al nostro io interiore viene aperto dalla voce di Roberta Bosetti che ti entra letteralmente in testa con il semplice escamotage di un paio di cuffiette. La seguiamo sulle strade di una città che pensavamo di conoscere ma che forse, per fretta, disattenzione o solo per abitudine, non abbiamo mai visto davvero. Rassicurante come la voce della mamma, ci guida nel paradosso del fuori attraverso le poesie di Emily Dickinson che descrivono un mondo intero al quale lei, rinchiusa nella sua stanza, ha avuto accesso solo con l’immaginazione.
È una solitudine condivisa che parte dal soggettivo per arrivare all’universale, ogni spettatore vive la scenografia della città cucendoĺa sulle proprie misure, cogliendo sulla propria pelle gli appuntamenti musicali accidentali, il suono di un clacson o la risata in un bar, condividendo la sua singola esperienza con altre venti persone che, stimolate dalle poesie, creano il loro spettacolo generandone un altro per chi lo incontra inconsapevolmente anche solo passando per strada. Continuando a camminare attraverso un paesaggio che ha perso il nome proprio per assumere a pieno titolo il nome comune e condiviso di Città, la compagnia Cuocolo/Bosetti apre le porte di casa e ci permette di entrare in una stanza che potrebbe essere di ognuno di noi, anche della Dickinson, perché è l’esplicitazione fisica di quel salottino privato che risiede in ognuno, che ha la sicurezza e l’accoglienza di una casa che però non ha pareti, ha solo una finestra dalla quale immaginare il mondo.