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Empire

Empire di Milo Rau, l’ultimo capitolo della trilogia sull’Europa dopo The Civil Wars e The Dark Ages, è uno dei titoli di maggior rilievo della 23° edizione del Festival delle Colline Torinesi. Il regista svizzero, fondatore dell’International Institute of Political Murder, ha dichiarato in un’intervista a Le Temps, nel 2016, di considerarsi un reporter engagé. Forse anche in virtù della nozione di “campo” appresa da Pierre Bourdieu e della necessità di immergersi in una realtà per comprenderla.

Non ci viene consegnata la “scoperta” di nessuna verità. I poli magnetici attraverso cui si avvolge lo spettacolo sono la parola Empire e la parola Tragoedia: l’Europa è il continente in cui sempre nuove e sottili forme di imperialismo si intrecciano ad un passato antichissimo radicato in miti feroci. Solo pochi giorni fa la vicenda della nave Aquarius ci ha posto, per l’ennesima volta, di fronte a questi temi. Con Milo Rau lo spettatore è lasciato a trarre i propri giudizi, a prendere posizioni proprie nelle riflessioni riguardanti una situazione geopolitica estremamente complessa. In scena i quattro attori sono anche quattro esseri umani che hanno vissuto in prima persona l’esperienza dell’esilio, della migrazione, della fuga e della ricerca di un “rifugio”.

Ramo Ali, Rami Khalaf, Akillas Karazissis e Maia Morgenstern sono i testimoni dei racconti evocati in una cucina-casa, rivelata all’inizio dello spettacolo dietro la facciata di un edificio diroccato. La scenografia di Anton Lukas concretizza e addensa i significati delle parole dei personaggi, parole dette in curdo, arabo, romeno e greco, le lingue originali, le lingue madri di questi racconti che necessitano non solo dei significati ma anche dei significanti che passano attraverso i suoni. Come quando Maia Morgestern-Medea e Akillas Karazissis-Giasone dialogano, rispettivamente in romeno e greco. Questo dialogo può avvenire, come avviene, perché qui è permesso, che Ramo Ali parli curdo sul palcoscenico. Il discreto tema musicale di Eleni Karaindrou accompagna le narrazioni composte e asciutte degli attori: non si tratta di un teatro che cerca l’immedesimazione del pubblico nei personaggi. L’immedesimazione è impossibile e se non lo fosse impedirebbe, per dirla con Brecht, di sviluppare una riflessione a riguardo.

La presenza viva degli attori in scena e i volti in primo piano sullo schermo in bianco e nero che li sovrasta abitano lo spazio scenico armonizzandosi tra loro. Gli indispensabili sovratitoli si trovano a metà del nostro campo visivo. Sul lato destro del palco il tecnico Aymrik Pech cura dal vivo il dialogo tra i diversi media. Lo schermo trasmette le foto di alcuni dei dodicimila uomini assassinati dal regime di Bashar El Assad e le immagini di un attentato a Qāmishlī, ma lo sguardo non rimane incatenato all’orrore, come con i telegiornali, nelle cene in famiglia, quando non si riesce a pensare. Lo sguardo rimane mobile e attento e può innescare movimenti interiori. In questo, forse, risiede la funzione trasformativa dell’arte, in cui il regista bernese crede e che evoca anche nell’intreccio di ricordi familiari e professionali, come la collaborazione della Morgestern con Theo Angelopoulos e Mel Gibson.

La drammaturgia, allora, è una tessitura di realtà e finzione capace di restituirci una qualche verità. E poi? E poi inizia la tragedia.

FDCT-23 ROBERTO ZUCCO

Un saggio? Questa è la domanda che sorge dopo aver visto il 17 giugno Roberto Zucco, testo di Bernard-Marie Koltès, con la regia di Licia Lanera che dirige i ragazzi appena diplomati alla Scuola del Teatro Stabile di Torino. Ma andiamo con ordine. Lo spettacolo segue le vicissitudini di Roberto Zucco, patricida, matricida, più in generale assassino, e rubacuori. Un omicida alla fine venerato come una star, che riceve il saluto dagli agenti di polizia. Uno spettacolo, a parere di chi vi scrive, senz’altro piacevole e divertente. La recitazione dai movimenti spesso esageratamente evidenziati dei giovani attori lo rende comico e paradossale. Esagerato al punto da sfiorare (o addirittura cadere) perfino nello splatter di stampo tarantiniano. Eppure, mi duole dirlo, uno spettacolo largamente migliorabile. Da non fan della dizione perfetta a cui gli attori sono troppo spesso costretti, a discapito delle più naturali inflessioni regionali, ho apprezzato lo sforzo di inserire accenti provenienti da varie parti d’Italia. Eppure si è trattato di un obiettivo, purtroppo, mancato: gli accenti suonavano tristemente quanto palesemente finti. E poi, parole mangiate e battute mal tradotte, mal adattate e forse anche mal esposte, che poco seguivano  la lingua parlata di tutti i giorni – alla quale evidentemente si voleva mirare – e che le rendevano talvolta difficili da ascoltare.
Pur apprezzabile in sé, lo spettacolo non mi è parso davvero efficace nel presentare dei nuovi attori al pubblico.  Dei diciotto interpreti presenti in scena, meno della metà sono stati effettivamente valorizzati, mentre gli altri sono stati relegati in parti minori e con poche battute. Soprattutto le attrici, che hanno dato  prova di professionalità e di dedizione alla causa nel mostrarsi nude sul palco, ma era un nudo davvero necessario o era un espediente?
In conclusione, per questi giovani nuovi attori mi sembra un inizio un po’ incerto, ma rivolgo loro il mio più sentito in bocca al lupo per una carriera lunga e piena di successi.
Maddalena Ghirardi

FDCT23 – Intervista a Milena Costanzo

L’attrice Milena Costanzo ci racconta un po’ di quello che c’è dietro la creazione del suo spettacolo Oh No, Simone Weil! e in generale ci parla della sua Trilogia della Ragione (Anne Sexton,  Emily Dickinson, Simone Weil), in un intervista che rivela la sua grande sensibilità e poeticità da vera artista, sempre alla ricerca e decisa a mettersi in gioco; caratteristiche che ha portato con sé al Festival Delle Colline Torinesi!

 

A cura di
Andreea Hutanu ed Eleonora Monticone

 

 

FDCT23 – NIKOLA TESLA/A PORTRAIT

Nella sala dedicata agli spettacoli all’interno del Caffè Müller si trova un palchetto rialzato,  con sopra un lungo tavolo assieme a sei sedie. Accanto sono disposte altre sei sedie dove gli attori della compagnia NeedTeatro si posizionano con in mano il loro copione rivolgendo lo sguardo al pubblico. Si respira un’aria di forte intimità.

Inizia lo spettacolo e salgono sul palco l’aiutante di laboratorio e Nikola Tesla. Si siedono, aprono il copione con un testo in endecasillabi e iniziano a delineare il ritratto dello scienziato che ha messo le basi per alcune delle grandi innovazioni del XX e del XXI secolo.
Il testo teatrale si snoda attorno alla delicata vicenda di Nikola Tesla che si prepara a doversi confrontare con John Pierpont Morgan, a cui ha venduto parte dei suoi brevetti e da cui spera di ricevere fondi per le sue ricerche sulle particelle radioattive, sulla radioattività e sulla comunicazione senza fili (radio). Tesla si intrattiene a dialogare con le persone che lo sostenevano e con cui si è scontrato nell’arco della sua vita.  Le figure in scena sono George Westinghouse, con cui aveva condotto la guerra delle correnti contro Thomas Alva Edison, presente anche lui sul palco e in contrasto con Tesla sulla questione della condivisione del Premio Nobel del 1915, il suo amico Robert Underwood Johnson assieme alla moglie Katharine MacMahon Johnson e due giornalisti-scrittori che precedentemente  avevano screditavano Tesla e ora lo acclamano.

Attorno al tavolo i sei attori mettono in scena i  complicati rapporti che legavano Nikola Tesla, di grande intelletto e curiosità scientifica fin da quando era un bambino, ai suoi amici e soci d’affari; fra difficoltà a rimanere fedele alla sua idea di un’energia gratuita accessibile a tutti, difficili scelte economiche che portano alla sua povertà e alla bancarotta di Westinghouse, il sentimento d’amore platonico verso Katharine MacMahon Johnson, l’impossibilità a potersi dedicare ad altro che non sia la ricerca scientifica.

Il trailer video dello spettacolo suggeriva una messa in scena piuttosto sperimentale, ma la compagnia NeedTeatro ha scelto di proporci qualcosa di totalmente inaspettato, uno spettacolo in cui la voce è la vera protagonista, in cui la bravura degli attori sta nel riuscire a trasmettere al pubblico le sensazioni e le emozioni che caratterizzano i personaggi senza permettere una grande mobilità spaziale, quasi ancorando gli attori alle proprie sedie e al proprio ruolo. C’era grande concentrazione e immersione nel restituire fisicamente la tensione, in un gioco di controllo sugli altri partecipanti a questa specie di banchetto in onore di Tesla, grande rigore e rispetto per l’endecasillabo e desiderio di restituirci una lettura interessante e complessa di Nikola Tesla in soli 70 minuti.

Andreea Hutanu

NIKOLA TESLA/A PORTRAIT
Di
 Jacopo Squizzato
Regia Jacopo Squizzato
Con Jacopo Squizzato, Pasquale Di Filippo, Roberta La Nave, Alessio Genchi,  Roberto Adriani, Mauro Bernardi, Lorenzo Bassotto, Francesco Sferrazza Papa
Produzione Festival delle Colline Torinesi – Fondazione TPE

CAUSA DI BEATIFICAZIONE: TRE DONNE, TRE ENIGMI.

Posti a sedere pieni alla scuola Holden. Lo spettacolo si apre con una giovane attrice (Matilde Vigna) seduta di spalle al pubblico in procinto di osservare un video. Nel primo Canto, la ragazza interpreta una prostituta kosovara provata dalla guerra dei Balcani, tanto che analizza il sangue e la carneficina delle vittime legandola alla parola “formaggino”. Questa parola risuona il tutto il primo Canto insieme alla presenza del colore arancione. Lo schermo si apre con l’immagine di Eros Ramazzotti che canta Terra Promessa. L’attrice è fortemente attratta dalle parole del cantante perché spera che in futuro ci sia realmente un luogo per poter scappare via da quell’orrore. Al lato del muro troviamo l’ attore (Giulio Cavallini) quasi sempre in ombra, che non parla per tutto lo spettacolo ma è sempre presente facendo percepire i fantasmi dei vari personaggi che interpreta. Ci penserà lo schermo dietro di loro a creare una voce Over che rispecchia i loro pensieri inconsci.

Nel secondo Canto, la narrazione è totalmente diversa. Siamo in Palestina, questa volta viene analizzata la storia di una donna kamikaze, vittima di non poter concepire. “Ho i ferri in pancia” questa è la frase che affiora più e più volte, è vittima di se stessa. Il video, in questo caso, prende maggior rilievo perché l’attrice sviluppa una doppia identità, quella riflessa nello schermo e quella presente sul palco. Entrambe si scambiano pensieri, canti, dialoghi da far venire i brividi.

Il terzo Canto si conclude con la storia di una suora nell’Italia del medioevo innamorata follemente di Gesù. Il racconto si basa su una notte di passioni mistiche tra lei e Gesù che la donna non rivelerà per non sembrare una pazza. In realtà il messaggio è fortemente allusivo e crudo allo stesso tempo. L’ odore dell’incenso, la presenza delle candele e l’esaltazione del crocifisso fa sembrare di essere realmente in chiesa lasciando un finale amaro.

In questo spettacolo la presenza del video è costante, l’audio e i suoni sono perfettamente connessi, trovando giochi di animazione, di sovrapposizione e di condivisione. L’attrice Matilde Vigna è riuscita ad impressionarmi per la sua completezza, il suo carisma e la sua potenza nell’interpretare tre identità totalmente diverse, mentre l’attore Giulio Cavallini è riuscito a far riemergere in tutto lo spettacolo la presenza dello sguardo maschile che incombe.
Direi che lo scrittore Massimo Sgorbani è riuscito a pieno nel suo intento. Spero di poter rivedere lo spettacolo in un palcoscenico più grande.

di Massimo Sgorbani
regia Michele Di Mauro
con Matilde Vigna
adattamento e progetto sonoro Michele Di Mauro
luci e scene Lucio Diana
video Giulio Maria Cavallini
suono Alessio Foglia
make up artist Katerina Di Mauro
studio di registrazione Arca Studios Torino
factotum Elvis Flanella
produzione Teatro Piemonte Europa/Festival Delle Colline Torinesi
Grazie a Gabriele Zecchiaroli e Carmela Santoro

Recensione a cura di Alessandra Nunziante

 

 

 

FDCT23 – Birdie

Melilla. Cittadina spagnola autonoma dal 1995 in territorio Africano, sulla costa orientale del Marocco. Cristiani spagnoli, musulmani, ebrei convivono senza scontri. Come amano passare il tempo libero gli abitanti? Praticando sport all’aperto. Fin qui tutto normale. La sua peculiarità? Una recinzione metallica molto alta che circonda la città, costruita per bloccare l’ingresso dei migranti che tentano di entrare. Ora non già poi così tanto normale. Piccolo paradiso elitario in cui non si è tutti uguali, dove un dio di pelle chiara ha deciso di tenere fuori dai confini di Schengen i cosiddetti Mori.

Stanno arrivando, stanno arrivando!

La compagnia catalana Agrupacion Senor Serrano mette in scena per il Festival Delle Colline Torinesi Birdie. Spettacolo non banale o comune sul tema dell’ immigrazione. Gli immigrati sono paragonati agli uccelli del film omonimo di Alfred Hitchcock: come essi fanno paura e stanno arrivando! Una Voice Over  fa da narratore, dividendo lo spettacolo in quattro atti e raccontando una tipica giornata di Melilla, una giornata come tutte le altre, e come al solito piena di contraddizioni. Quattro attori, due che usano una videocamera e una tavoletta elettronica da disegno, uno che li supporta al computer occupandosi degli spezzoni del film, della voce narrante e della proiezione della videocamera, la quarta attrice seduta immobile fino alla fine dello spettacolo, simboleggiando un migrante che sta seduto ore sulla recinzione e quando si sente pronto si desta e vola come un uccello. La videocamera filtra cartoline della città di Melilla, un campo da golf in miniatura e i veri protagonisti dello spettacolo, modellini di animali di ogni specie.

Gli uccelli ci vogliono ammazzare, mamma!

Basterebbe questa frase per descrivere lo spettacolo e quello che sta accadendo nella nostra società. Se negli anni novanta si è cominciato a chiudere le città, ad innalzare una barriera, non memori dell’altra barriera caduta pochi anni prima a Berlino, ora non si sono fatti passi avanti. Se da una parte la sensibilità, l’attenzione verso gli immigrati è aumentata anche in positivo, si cerca di aiutarli, dall’altra le persone li odiano sempre di più e ne hanno paura, un memento di questo i nuovi muri e i porti chiusi.

Non finiranno più queste migrazioni?

C’è una forte sensazione che le persone stiano diventando sempre di più individualiste, trincerate dietro a scuse banali e spesso false. Un misto di egoismo e disprezzo del prossimo che chiede solo aiuto. Probabilmente non si ci accorge sbadatamente, o non si piò capire che questa gentaglia che viene dal mare e non solo, ha sofferto l’inimmaginabile. Vedono al nostra terra come un paradiso, e sentendoci padroni di questo paradiso ne chiudiamo i cancelli, innalziamo barriere. Lo sbaglio razzista, oltre che nel diniego di un aiuto, sta nel non capire una possibilità di un arricchimento culturale oltre che demografico.

Inoltre, lo spettacolo ci vuole mostrare che siamo tutti uguali, un popolo migratore come gli uccelli. Dall’alba dei tempi fino ad oggi, animali e uomini hanno viaggiato per trovare un posto dove poter vivere bene, secondo i propri fabbisogni e piaceri. Un movimento continuo, di città in città per lavoro, sport, vacanze etc.

La voce narrante ci dice che a Melilla vive un fotografo e come ogni mattina va in città a fare fotografie. Fotografa un campo da golf in cui due persone stanno giocando, sullo sfondo la recinzione con uomini a cavalcioni, dei migranti e poco più in là un poliziotto. Una foto all’apparenza normale,  può avere diversi piani di lettura, se osservata correttamente. I punti di vista dei personaggi formano la sezione aurea dell’immagine, mostrandone la sua perfezione. La voce narrante inoltre ci dice cosa pensano le persone in quest’immagine, creando dei divertenti e curiosi soliloqui.

Giochi di luce colorata e fumo ci immergono in un mondo altro, un’atmosfera da creazione del mondo, poi avvallata da video di una pallina da golf che muovendosi velocemente si scuote  producendo vita o prefigurazione dello sballottamento degli esseri viventi nella loro migrazione eterna. Una lunga fila di modellini di animali, ripresi dalla videocamera, attraversano le diverse ere e stravolgimenti climatici, in cammino verso un futuro lontano che è il nostro presente: questa lunga migrazione terminerà con un mucchio di animali che si arrampica sulla barriera di Melilla. Quegli animali simboleggiano il viaggio dei migranti, il viaggio degli uomini. Un uccello dall’alto guarda cosa accade nella barriera e non capisce. Finalmente il migrante si desta e prende il volo.

Uno spettacolo molto riuscito, che ci presenta un tema molto caldo, in una luce tutta nuova, ma non per questo inefficace. Inoltre ci mostra l’insensatezza di avere paura e bloccare dei migranti, perché tutti noi siamo migranti. Hitchcock diceva  che gli uccelli del suo film non esistono ma sono solo proiezioni della paura di Melania Daniels. Come quegli uccelli sono innocui anche i migranti lo sono, ma qualche persona cala in loro paure e frustrazioni proprie derivate da altre situazioni. Capro espiatorio di una società sempre più globalizzata.

Al “prima gli italiani”, “american first”, ai nazionalismi, populismi  e tante altre forme di disinformazione raccapriccianti, dovremmo contrapporre il “prima la vita”, perché la vita e la terra sono di tutti e il diritto a stare in paradiso, se si può chiamare così, spetta anche ai popoli di altre nazionalità.

Emanuele Biganzoli

 

di Agrupación Señor Serrano
regia Agrupación Señor Serrano

ideazione Àlex Serrano, Pau Palacios e Ferran Dordal
performance Ferran Dordal, Vicenç Viaplana e David Muñiz
voce Simone Milsdochter
project manager Barbara Bloin
light design e programmazione video Alberto Barberá
colonna sonora Roger Costa Vendrell
creazioni video Vicenç Viaplana
modellini Saray Ledesma e Nuria Manzano
costumi Nuria Manzano
assistente di produzione Marta Baran
consulente scientifico Irene Lapuente / La Mandarina de Newton
consulente progettuale Víctor Molina
consulente legale Cristina Soler
management Art Republic
distribuzione in Italia Ilaria Mancia

in collaborazione con Piemonte dal Vivo

FDCT23 La buona educazione

Che cosa accade quando un’anima solitaria, così solitaria da fare della solitudine la propria identità, si scontra con l’anima di un bambino di tredici anni appena rimasto orfano di madre? Cosa accade quando una solitudine così fiera e accanita viene forzata ad avere compagnia? Accade che comincia un viaggio, un viaggio scomodo, una viaggio stretto, spigoloso, accidentato, pericoloso. Un viaggio che vede protagonisti due compagni d’avventura che non parlano la stessa lingua, non si comprendono, non si assecondano, non hanno come fine un obiettivo comune. Un’anticipazione sul finale? Non andrà bene.

In una salotto che ha per tappeto persiano uno strato di terriccio e per mobilio una schiera di vigili e squadrati manichini, accasciata su un divano a dir poco demodé, racconta la sua storia – terribile – di figlia, sorella e zia, una donna che vive sola, vestita come la più classica delle rappresentazioni della categoria femminile comunemente nota come”zitella”.
Con il naso e gli occhi rossi di pianto, racconta dell’orribile visita notturna ricevuta poco prima: la madre e il padre, defunti e fantasmi, portano con la loro apparizione una notizia che sconvolgerà le sorti di quest’anima solitaria e risoluta. La mattina seguente, questa notizia si concretizza in una fredda telefonata che la informa della morte di sua sorella. Ma, per quanto doloroso possa essere la perdita di una persona cara, non è questa la novità che la metterà a dura prova: in ospedale, rimasto al capezzale della sorella deceduta, c’è suo nipote, l’ultimo erede della famiglia, un giovane uomo rimasto orfano e bisognoso adesso delle cure di sua zia, in attesa di sapere a chi verrà affidato in via definitiva. La donna, priva di alternative, porta il ragazzo a casa sua, gli cede la sua stanza, e si prepara a questa convivenza forzata. Una convivenza che passerà attraverso diverse fasi, prima tra tutte, la ricerca di un modo per comunicare. Un qualcosa che può apparire semplice a un primo sguardo ma che si rivela invece estremamente complesso. Zia e nipote infatti non parlano la stessa lingua: quando lei dice qualcosa, qualsiasi cosa, lui strabuzza gli occhi, la trapassa, non comprende quel che dice. Chiuso in un mondo fatto di videogiochi e verbi all’infinito, quasi come fosse una creatura primitiva proveniente dal futuro, il giovane uomo mostra interessi completamente differenti rispetto a quelli della zia. Ed è in questo momento di massima incomunicabilità che lei capisce di non dover mollare: proprio quando la situazione con il nipote diventa quasi insostenibile, sente gravare sulle sue spalle tutto il peso di quella giovane creatura che le è stata affidata. Lei non solo dovrà trovare un modo efficace per comunicare con lui, ma dovrà curarlo, indirizzarlo, educarlo. La felicità del suo tesoro, adesso, è sua responsabilità. Come se il vero tesoro fosse custodito proprio nel futuro di quel giovane, come se la felicità del ragazzo potesse diventare la sua stessa felicità.
Investita di una missione che non può fallire, la zia ci prova, ci prova con tutta se stessa: si interessa ai suoi piani, chiede al ragazzo quali sono i suoi sogni (così poveri per appartenere a quelli di un ragazzino che si affaccia alla vita), lo indirizza verso il liceo classico – per farlo formare come uomo, e non come re dei molari – , interviene a favore di un’insegnate di italiano, raccogliendo su di sé le ire dei genitori esperti utenti di facebook e whatsapp. Asseconda il giovane innamorato – di una lampada – e lo porta a vedere la Juventus, ma non prima di avergli fatto assaggiare la parmigiana (surgelata, del supermercato, ma pur sempre parmigiana). Si imbattono entrambi in un disperato tentativo di sperimentare la conoscenza di uno sconosciuto di nome Silenzio, e se pur staccare la corrente dell’intero appartamento per gioire di un silenzio di fine ottocento non si rivelerà un’idea vincente, andrebbe sicuramente premiata per l’audacia dimostrata.
Il tutto prende vita all’interno di una curatissima scenografia (opera di Stella Monesi) che fa vivere un salotto ora sogno ora incubo; un’ambiente così cupo e tagliente – di forme e di luce – da far rimanere ipnotizzati. I manichini di ferraglia sistemati sulla sfondo come una squadra pronta all’attacco vigilano silenziosi per tutta la durata della storia. 

Un mondo invaso da persone che pensano di sapere tutto, che enunciano senza freni la propria opinione protetti dallo schermo luminoso di un portatile o uno smartphone, pronti a difendere a spada tratta i propri pargoli, a proteggerli dal mondo intero. Un mondo di sedicenti genitori che crescono i figli secondo le proprie regole, chiusi a qualsiasi possibilità di confronto, incapaci di qualsiasi possibilità di miglioramento per il semplice fatto che loro non ne hanno alcun bisogno. Un mondo dove gli insegnanti vengono pestati all’uscita dalla scuola o minacciati sul gruppo whatsapp. In un mondo come questo, vive una donna che non pretende certamente di sapere come si alleva un giovane essere umano. Una donna che ha paura. Paura di quel ragazzo, della responsabilità che sente esserle scesa sul capo a turbare la tranquillità di un’esistenza così ben costruita. Ha paura di non saper come fare, di non riuscire nel suo grande compito di affidataria temporanea. E ce lo dice così, senza vergogna, senza troppi giri di parole. Non ha bisogno di atteggiarsi a zia modello, di darsi un tono come se dovesse dimostrare di essere infallibile (qualche genitore potrebbe e dovrebbe prendere nota). Una donna che ammette i propri limiti, che cerca di migliorare se stessa prima di pretendere di migliorare la giovane vita che le è stata affidata. Una donna che si mette in gioco con una dedizione e una tenerezza che quei sedicenti genitori-educatori non potrebbero nemmeno permettersi di sognare. Questa donna ci permette di vedere le sue debolezze, e così noi lo avvertiamo tutto, questo peso. Ed è ora che cose scontate e semplici come il parlare o la scelta di cosa fare dopo le scuole medie ci sembrano così difficili da affrontare. Cose che si danno un po’ troppo per scontate, forse.
Perché la bellezza e la forza di questo spettacolo sta proprio nell’insegnarci che non basta parlare la stessa lingua o trovarsi a vivere nella stessa casa per riuscire a comunicare davvero. E chi lo avrebbe mai pensato? 

Sola in scena, e al contrario del suo personaggio comunicando in modo meraviglioso con il suo pubblico, è anche Serena Balivo, membro della Piccola Compagnia Dammacco, premio Ubu 2017. Attrice di una misurata eleganza, cura in modo quasi maniacale un personaggio denso e tortuoso, dalle movenze e dalla parlata grottesca e ironica, pungente come il testo rappresentato, La buona educazione, che debutta in prima nazionale per la regia di Mariano Dammacco in questa fortunata edizione del Festival delle Colline Torinesi.

Un’ultima osservazione. Corre un brivido lungo la schiena, una scossa elettrica che fa drizzare i peli delle braccia, quando zia e nipote vanno dalla dottoressa. Questa dottoressa visita entrambi, che sono lì un po’ controvoglia. Visita il ragazzino di latta con lunghe pinze metalliche e occhiali da aviatore, poi fa alcuni esami che mostra alla zia. Dalle lastre, sono visibili tutte le macchie dall’anima del ragazzino. Quella sì che è una dottoressa molto speciale.

La buona educazione
Regia di Mariano Dammacco
con Serena Balivo
spazio scenico di Mariano Dammacco e Stella Monesi
Produzione Piccola Compagnia Dammacco / Teatro di Dioniso
In collaborazione con L’arboreto Teatro Dimora, Teatro Franco Parenti, Primavera dei Teatri, Asti Teatro 40

Eleonora Monticone

FDCT23-Summerless

Teheran vent’anni dopo la rivoluzione. Uno spaccato di società o meglio una società spaccata, piena di contraddizioni nella sua storia grande come in quella piccola di donne e uomini, e bambini che vanno a scuola. È difficile per noi capire fino in fondo quella parte di mondo, il Medio Oriente, con le sue terre devastate da guerre intestine e internazionali, contraddizioni religiose e civili, e ora  ancora di più attuali. L’Iran repubblica islamica dalla fine degli anni settanta, è uno degli stati più influenti e potenti della regione, sebbene le contraddizioni, di una società sempre più chiusa e integralista, non si fanno attendere, aggravate ulteriormente dall’embargo occidentale. Tutto questo nello spettacolo non c’è, non viene detto, ma è come se trasudasse dalle pareti della scuola, lo si percepisce nascosto tra le parole sconsolate della gente. Persone che non ci stanno, persone che nel loro piccolo pongono domande per comprendere, capire qualcosa che non sta accadendo come dovrebbe. Le domande di una mamma al maestro, sono le domande della maggioranza di un popolo che vuole un Iran senza restrizioni.

Il regista iraniano Amir Reza Koohestani, da tempo molto apprezzato nella scena internazionale, mette in scena Summerless ,in seconda rappresentazione europea, alla ventitreesima edizione del Festival delle Colline Torinesi. Uno spettacolo in lingua farsi che vuole indagare i rapporti tra diverse generazioni, tra i figli che aspirano a un cambiamento, a una vita in una società diversa e a scoprire il mondo, e i padri troppo ancorati ad un sistema di controllo, che  accettano perché hanno conosciuto solo quel sistema. Koohestani sceglie, come microcosmo per mostrare le trasformazioni che stanno avvenendo nella società iraniana, una scuola elementare. Un arco temporale di nove mesi,  scandito in tre stagioni, il periodo scolastico, in cui appunto, come si intuisce dal titolo, manca il periodo estivo. L’estate viene evocata come tempo futuro, lontano, dove i nostri protagonisti non vivono perché la scuola è chiusa, un tempo di sogno, utopia di un futuro migliore.

Tre personaggi: una sorvegliante, un pittore e una madre. Il pittore in passato viveva con la sorvegliante, ma avendo intenzioni di vita differenti si sono separati.  La sorvegliante viene incaricata di abbellire la scuola e creare laboratori. Non conoscendo altri,  chiama il pittore e gli dà la possibilità di insegnare arte in uno dei laboratori e di dipingere il muro. Si intravedono le prime crepe. Lui accetta il lavoro per guadagnare qualcosa e riconciliarsi con la donna, ma non verrà pagato. Inoltre il muro deve essere ridipinto perché ha ancora delle scritte propagandistiche  del vecchia dittatura. Parole che i bambini vedono continuamente, simbolo di una tara del passato che fa fatica a scomparire. Se si copre una crepa, mettendola da parte come cosa di poco conto, al minimo scossone si ingigantisce e poi crolla tutto. Così questi problemi si insinuano anche in un muro dipinto. Il pittore incontra una giovane madre in attesa della sua bambina nel cortile della scuola, le parla e si fa raccontare chi sia la sua bambina e il papà. Decide di dipingere la bambina con la madre e il padre. Costretto a cancellare il dipinto perchè si intravede ancora qualche scritta, decide di andarsene e continuare la sua vita da pittore in provincia. Una sua alunna crede di essere innamorata del maestro, ed è distrutta quando capisce che lui se ne va. Inoltre la madre, intravedendo sotto il bianco l’immagine di un uomo che tiene per mano la bambina,  comincia a pensare che il maestro nasconda qualcosa. Voci aggravate dagli altri genitori. La quiete tornerà quando si chiarirà col maestro e quando ci sarà un incontro tra lui e la bambina, per farla guarire dai suoi problemi. Non mangiava più, voleva vedere solo il maestro. Come è cominciato in punta di piedi, lo spettacolo finisce altrettanto, con la bambina che spinge la giostra in cortile, sogno di uno stravolgimento delle situazioni, sogno verso un futuro, forse adesso un po’ più dolce.

Uno spettacolo semplice nel suo sviluppo, che volutamente non intende mostrare apertamente tutti i problemi di una società che non riesce a scrollarsi di dosso il passato. Il regista li cela sotto altre situazioni, sotto simboli e piano piano piano i drammi vengono alla luce, uno dopo l’altro, forse con ancora più  forza. Siamo calati in una società dove la povertà delle strutture, come appunto le scuole, è diffusa, in cui i genitori non riescono a capire il motivo per cui pagare più tasse scolastiche, meglio più tasse in generale. Più welfare, più tasse diremmo noi. Una società che vuole farsi aperta, ma che grava i cittadini di limitazioni, addirittura i bambini nelle scuole, mentre queste nuove generazioni non le comprendono, aspirano a qualcosa di nuovo.

Amir Reza Koohestani ci mostra la speranza di un futuro forse migliore se certe limitazioni culturali saranno dissipate, e ci aiuta a spostare un poco più in là il nostro sguardo  sull’Iran.

Emanuele Biganzoli

 

di Amir Reza Koohestani
regia Amir Reza Koohestani

scenografia Shahryar Hatami
costumi Shima Mirhamidi
video Davoud Sadri e Ali Shirkhodaei
musica Ankido Darash
interpreti Mona Ahmadi, Saeid Changizian, Leyli Rashidi
soprattitoli in italiano Laura Bevione per Festival delle Colline Torinesi/Fondazione TPE

produzione Mehr Theatre Group
coproduzione con Kunstenfestivaldesarts, Festival d’Avignon, Festival delle Colline Torinesi / Fondazione TPE, La Bâtie – Festival de Genève, Künstlerhaus Mousonturm Frankfurt am Main, Théâtre National de Bretagne, Münchner Kammerspiele, La Filature – Scène nationale de Mulhouse, Théâtre populaire romand

FDCT23-VIENI SU MARTE/VICOQUARTOMAZZINI

 

VicoQuartoMazzini/ Vieni su Marte   

andato in scena il 6 Giugno alla Casa del Teatro

Uno spettacolo di VicoQuartoMazzi                  
regia Michele Altamura e Gabriele Paolocà

interpretato da Michele Altamura e Gabriele Paolocà
drammaturgia Gabriele Paolocà
scene Alessandro Ratti
costumi Lilian Indraccolo
produzione VicoQuartoMazzini, Gli Scarti

con il sostegno di Officina Teatro, Kilowatt Festival, Asini Bardasci, 20Chiavi Teatro

con il sostegno del MiBACT e di SIAE, nell’ambito dell’iniziativa “Sillumina – Copia privata per i giovani, per la cultura”

 

VicoQuartoMazzini è una compagnia di teatro indipendente formata da Michele Altamura e Gabriele Paolocà. Ultimamente ha portato avanti un personale progetto di rivisitazione dei classici e tra i lavori più recenti ricordiamo Karamazov (2017) e Little Europa(2016) dal Piccolo Eyolf di Ibsen. Questa volta la giovane compagnia porta al Festival delle Colline Torinesi, in una prima nazionale, la storia di una iperbolica e folle spedizione del genere umano su Marte. Il tutto liberamente ispirato a Cronache Marziane di Ray Bradbury.

Nel 2012  parte un progetto, dal nome Mars One, che intende installare una colonia permanete sul pianeta rosso; arriva un numero esorbitante di candidature: 202.560. Non basta più spostarsi in una città dall’altra parte del mondo ma l’uomo moderno sembra avere bisogno di un pianeta nuovo. Che cosa cerchiamo? Cosa stiamo inseguendo che non troviamo qui ma proiettiamo in un altro pianeta? Da cosa vogliamo scappare? Lo spettacolo, dalla durata di settanta minuti, cerca appunto di indagare quali siano i desideri e le motivazioni di queste persone pronte a lasciare tutto e ricominciare da zero. Questo viene reso alternando a scene teatrali proiezioni video, tra cui spezzoni delle candidature inviate per il progetto. I candidati spiegano le loro motivazioni a muoversi sul pianeta rosso e il piano che hanno in mente di sviluppare; emerge molto forte l’urgenza di avere uno spazio nuovo in cui potere trovare la propria identità da capo, uno spazio che li accolga, uno spazio dove non ci siano guerre, non ci sia corruzione e si possa, invece, essere felici. Vieni su Marte, infatti, parte proprio da questa riflessione, per poi aprire numerose finestre tematiche che riguardano l’umanità a tutto tondo, correndo il rischio, forse, di non riuscire ad approfondirle tutte nello stesso modo.

L’emigrazione viene trattata, innanzitutto, facendo rifermento al fenomeno dell’emigrazione italiana interna degli anni ’50 e ’60: gli attori parlano dialetti di varie località italiane durante tutta la durata dello spettacolo. C’è chi è costretto a spostarsi per motivi di lavoro oppure in cerca di fortuna perché non trova il proprio spazio nel mondo, come il clochard che vorrebbe fare l’attore. L’idea è molto interessante anche se non è così chiara la relazione dell’uso continuato del dialetto con tutte le tematiche trattate. L’emigrazione viene sviluppata, infatti, anche richiamando la colonizzazione europea degli indiani d’America; emigrazione come imposizione da parte degli occidentali dei propri usi e costumi che si presume siano più evoluti  e migliori rispetto agli usi “incivili” delle popolazioni indigene. Qui gli indigeni  sono i Marziani; non c’è neanche il tentativo di conoscerli ma da subito l’uomo si impone; vuole costruire un’altra “Terra” su Marte, il che collide con il desiderio di cambiamento e novità alla base dell’intera spedizione sul pianeta rosso. Sembra prevalere la paura. E’ inconcepibile la presenza di qualcuno che non sia come noi, Il Marziano va umanizzato ad ogni costo. Questo è reso possibile immaginando di sottoporre il marziano ad un percorso psicoanalitico in cui ovviamente l’analista è umano. La figura dell’analista, purtroppo poco credibile come tale perché troppo aggressivo e incalzante, si sforza di fare emergere i traumi inconsci, in realtà inesistenti, del paziente. Il povero marziano vive ignaro di ogni paura e inquietudine dipingendo stelle prima dello sbarco degli umani.

La scena finale, molto d’effetto, rappresenta il Marziano finalmente UMANIZZATO dopo un lungo tempo di lavaggio del cervello; piange sconsolato sulle ginocchia dell’analista che è fiero del proprio paziente. Vieni su Marte ha sicuramente il merito di portare in scena l’umano con le sue paure e contraddizioni grazie e una drammaturgia molto varia.

Carola Fasana

FDCT23 – PLATONOV

Il 7 e l’8 giugno, alle Fonderie Limone di Moncalieri per la settima e ottava giornata del Festival delle Colline Torinesi si è tenuta, in prima assoluta, la reinterpretazione del regista Marco Lorenzi (al quale siamo riusciti a strappare una piccola intervista), affiancato dalla compagnia “Il Mulino Di Amleto“, del Platonov di Anton Cechov, uno dei primi drammi da lui scritti (1880-81).

Nel pre-spettacolo avremo una veloce e gaia presentazione del regista, gioiosa infatti sarà anche la prima parte del primo atto, dove vedremo i nostri attori imbandire un grande tavolo con bottiglie e contenitori di vetro contenenti vodka, importante simbolo della Russia e dello spettacolo in sè, e nel contempo, accompagnati dalla musica, gestita da uno dei personaggi seduto alla console. Dopo qualche minuto dall’arrivo di Platonov entreranno in scena pure la rabbia, il risentimento e la frustrazione fra i personaggi, sia per sciocchezze che per fatti di una certa importanza, ma l’allegria non lascerà mai il palco, creando una vera e propria altalena di sentimenti, la “Russità“.

Ma cos’è la “Russità“? Come ci spiega il regista, la russità è un neologismo utilizzato dai personaggi stessi, appunto per descrivere questa complessità emotiva altalenante continuamente presente durante il dramma e a volte anche durante la vita di tutti i giorni.

Cechov mandò il suo testo a diverse personalità di rilievo, fra cui una grande attrice del Maly Theatre di San PietroburgoMarija Ermolova, che, ahimè, gli consigliò di cambiare mestiere, al che lui si sbarazzò del dramma. In seguito, nel 1920, venne scoperta la prima stesura dell’opera e finalmente fu resa pubblica.

Il Platonov di Cechov è un opera divisa in 4 atti, ma in questa reinterpretazione godremo dei primi 3 e il quarto ci verrà narrato. Cechov, dopo quest’opera, abbandonò per lungo tempo il teatro dedicandosi ai racconti, ma nei suoi futuri testi teatrali prevarrà comunque la costante ricerca dell’uomo della felicità, sempre convinto che essa non si trovi lì con lui ma da un altra parte, tema che troviamo nel Platonov e spesso anche nella nostra esistenza. Altro tema di massima importanza è l’amore, amore al cui centro troveremo appunto Platonov, sposato, con amante e spasimante, ma tutto quest’amore è falso, l’amore non è un dono che bisogna ricevere per sentirsi completi, ma qualcosa di spontaneo e puro. Marco Lorenzi ci racconta come Oskaras Koršunovas (importante regista lituano) gli  abbia spiegato la sua intenzione di mettere in scena il Platonov dandogli di un ottimo consiglio:

Devi pensare che racconta della crudeltà dell’amore.

A mio parere, per questo dramma, Cechov fu influenzato da Arthur Schopenhauer per sua stesura. Qui citerei una delle frasi più famose del filosofo per far capire in che modo:

La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente fra noia e dolore, con intervalli fugaci, e per di più illusori, di piacere e gioia.

Quest’opera, a sua volta, ha influenzato il famoso regista, sceneggiatore e scrittore francese, Jean Renoir nella stesura della sceneggiatura de La regola del gioco, dove possiamo trovare situazioni e significati simili a quelli del Platonov.

Realizzare questo dramma si deve essere rivelata un’impresa ardua, considerata la profondità e l’intensità dell’opera, ma il regista insieme alla compagnia ha svolto, a mio avviso un ottimo lavoro donandoci una godibile revisione. Gli attori come il pendolo oscilleranno fra amore e odio, tristezza e felicità con una facilità incredibile e riuscendo a rimanere credibili per tutta la durata dello spettacolo.

Per quanto riguarda la scenografia, ci troveremo inizialmente un tavolo vuoto, gli attori seduti su delle sedie e un pannello vetrato mobile praticabile in fondo al Décor. In seguito gli attori imbandiranno il tavolo, sposteranno le sedie e ci sarà un continuo mutamento della scena. Il pannello verrà utilizzato per il cambio del’ambiente, e in una scena di grande confusione verrà pure fatto ruotare velocemente in un mix di euforia e caos che rappresenterà a pieno i contrastanti sentimenti dei personaggi ormai alla deriva.

Recensione a cura di Roberto Lentinello

Da Anton Cechov
Regia Marco Lorenzi

Uno spettacolo di Il Mulino di Amleto

Con Michele Sinisi
e con Stefano Braschi, Roberta Calia, Yuri D’agostino, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Rebecca Rossetti, Angelo Maria Tronca
Adattamento Lorenzo De Iacovo e Marco Lorenzi
Regista Assistente Anne Hirth
Style e visual concept Eleonora Diana
Disegno luci Giorgio Tedesco
Costumi Monica Di Pasqua

Co-produzione Elsinor Centro Di Produzione Teatrale, Festival delle Colline Torinesi, Tpe Teatro Piemonte Europa
Con il sostegno di La Corte Ospitale – Progetto Residenziale 2018
in collaborazione con Viartisti per La Residenza Al Parco Culturale Le Serre