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Il torpore della marionetta- Torino Fringe Festival 2018

All’interno del Torino Fringe Festival 2018, il nuovo teatro Caffè Müller ha deciso di portare avanti il progetto Rassegnainsilenzio di Maura Sesia e ha selezionato tre spettacoli con forti contenuti che siano godibili in silenzio, senza l’uso della parola. Gli spettacoli sono: Sentieri in rosa della Compagnia Ciclope di Palermo (teatro di narrazione in lingua italiana dei segni L.I.S.), Talita Kum della Compagnia Riserva Canini di Firenze (teatro di figura) e Note sul silenzio della fondazione Cirko Vertigo che fra l’altro ha proprio sede al Caffè Müller.

Lo spettacolo Talita Kum in particolare è molto interessante perché poetico e onirico, capace di trasportare in una dimensione surreale. Immaginato e scritto da Marco Ferro e Valeria Sacco, ha debuttato nel 2012 e ha avuto la fortuna di poter essere molto replicato e apprezzato soprattutto all’estero grazie al fatto che appartiene al genere del teatro di figura. Si esibisce da sola l’attrice Valeria Sacco, nel ruolo sia di marionettista che marionetta, e tiene in equilibrio un gioco di illusione dal vivo in cui la vita scorre alternata fra queste due figure.

Siamo in un luogo notturno ed interiore, una grotta desolata dove si sente il suono dell’aria che si infila tra le rocce e ci comunica una sensazione di freddo, suggerita anche dalla piacevole freschezza del Caffè Müller. Al centro della sala è posta una specie di tenda indiana, dietro alla quale si sviluppa un gioco di luci dando vita a ombre cinesi. Si può intravedere il profilo di una graziosa marionetta e dalla tenda viene fuori una creatura oscura dalle sembianze umane, che si muove scomposta come se funzionasse a zampilli vitali intermittenti. La creatura si sente sola, tira fuori da una valigia una radio da cui provengono suoni intermittenti e frammenti di programmi radio internazionali e infine delle corde, con cui si allontana rintanandosi nella tenda. Un gioco di ombre ci fa intravedere i suoi movimenti e la distinguiamo mentre lega la marionetta al suo corpo.
Fin da subito le due figure ci accompagnano in un sogno, in una dimensione che stimola il lato emotivo e che vive di regole proprie, in cui la ninfa vitale scorre fra la creatura oscura e la fragile marionetta di dimensioni umane.  Ballano assieme sulle note del valzer sentimentale di Čajkovskij e nell’arco dello spettacolo la marionetta prende vita, impara dal suo marionettista a bere, mangiare e a ballare, finché non rimane lei l’unica in scena, assorbendo tutta l’essenza del marionettista, che si scopre essere infine lei, fin dall’inizio. Mette in piedi un gioco illusionistico un po’ particolare, dove la stessa marionetta non si sa se è consapevole di essere lei che manovra tutto oppure ne prende conoscenza solo alla fine.
Per tutto lo spettacolo riesce a farci dubitare che sia sola in scena e ci confonde fino alla fine, quando finalmente ci svela il segreto della sua esibizione smontando le parti del corpo della marionetta.

L’impianto scenografico è molto semplice, ci sono pochi oggetti e la suggestiva tenda è l’uso della luce è interessante più che altro per le ombre cinesi che si allontanano e avvicinano, confondendo lo spettatore su quello che sta avvenendo dietro, e per i rumori che creano una specie di colonna sonora. Ma forse l’aspetto più interessante dello spettacolo, oltre alla formidabile bravura di Valentina Sacco nell’animare una marionetta e usare anche il suo corpo in scena, è il titolo dello spettacolo; Talita Kum è un’espressione aramaica proveniente dal Vangelo che significa “Fanciulla, alzati”.
La marionetta si è effettivamente alzata e ha sbalordito il pubblico, in uno spettacolo che va rivisto una seconda volta per comprendere le dinamiche in scena.

Andreea Hutanu

Fotografie di Domenico Semeraro

TALITA KUM
Immaginato e creato da Marco Ferro e Valeria Sacco
Disegno luci Andrea Narese
Disegno del suono Stefano De Ponti
Musiche originali Luca Mauceri, Stefano De Ponti, Eleonora Pellegrini
Con Valeria Sacco
Regia Marco Ferro
Una Produzione Riserva Canini

Il musical Evita al Teatro Regio

Il celeberrimo musical firmato da Andrew Lloyd Weber e Tim Rice, la coppia d’oro di successi come Jesus Christ Super Star e The Phantom of the Opera, è al Regio dal 4 al 9 maggio 2018. Uniche date italiane del tour internazionale per questa produzione di Bill Kenwright in accordo con The Really Useful Group e prima esecuzione assoluta della versione per orchestra sinfonica: Sir Lloyd Webber in persona ha curato la revisione e orchestrazione della partitura, con David Cullen.

La presenza di un musical nella stagione Opera & Balletto ha fatto storcere il naso ai melomani tradizionalisti e in difesa della scelta qualcuno ha addotto la necessità di avvicinare all’opera gli under 30, presenze rare nei teatri lirici. La sera della prima erano presenti alcuni giovani, ma c’erano soprattutto anziani abbonati e persone di mezz’età che “avevano visto il film” (di Alan Parker, 1996, con Madonna e Antonio Banderas). La scelta del direttore artistico Gaston Fournier-Facio mira ad abbattere confini rigidi tra i generi, tema sempre dibattuto tra i musicologi, e ci offre la possibilità di godere di un brillante esempio di teatro musicale “leggero”.

Nelle ambizioni di Lloyd Webber c’era quella di avvicinare il suo musical alla tradizione operistica, in particolare a Giacomo Puccini: Evita è un sung-through musical in cui i dialoghi parlati sono sostituiti da recitativi e tutti i numeri musicali sono organicamente funzionali allo svolgersi dell’azione drammatica.

La vicenda segue la parabola esistenziale di Marìa Eva Duarte, adolescente ambiziosa e spregiudicata, che sposa il colonnello Juan Domingo Peròn e diventa Evita, influente first lady. Lloyd Webber e Rice furono accusati di aver reso glamour la dittatura, nonostante abbiano tracciato con parole e musica un ritratto ricco di contrasti. Il personaggio del Che (liberamente ispirato, ma non storicamente coincidente, con un altro argentino particolarmente affascinante) è una sorta di alter-ego di Evita ma anche voce di un popolo non compatto nell’osannare la Santa Peronista. Il Che pone le domande direttamente al pubblico, fa sorgere dubbi e ironizza sugli aspetti più smaccatamente celebrativi.

La regia di Bob Tomson e Bill Kenwright, insieme con la coreografia di Bill Deamer, mette in risalto gli aspetti più glamour e insieme contraddittori della vicenda. La visione che ci restituisce l’allestimento è quella di un panorama politico che funziona attraverso i meccanismi dello star system. Madalena Alberto rifiuta di sentimentalizzare l’eroina da lei interpretata e ne esalta invece le qualità di performer. La voce della Alberto si mostra sempre adatta a interpretare Evita mentre diventa sempre più bionda e più indispensabile al marito e da soubrette si trasforma in guida spirituale dell’Argentina. Ironica ed energica quando chiede di “Christian-Dior-izzarla”, soffice e suadente nella celebre Don’t cry for me Argentina. I due atti sono idealmente imperniati proprio su quest’ultimo song, che riassume la vicenda umana della protagonista e costituisce il più importante Leitmotiv, tessendo una trama di rimandi drammaturgicamente significativi e conferendo all’opera una eccezionale unità formale ed espressiva. Il Che è interpretato da Gian Marco Schiaretti, la sua voce è capace di esprimere una variegata gamma di tonalità e porta con sé un mix di passione e disincanto. Il Coro di voci bianche del Teatro Regio e il Coro del Conservatorio “G.Verdi” ben si amalgamano al cast di protagonisti. L’Orchestra del Teatro Regio diretta da David Steadman presenta, integrata all’organico sinfonico tradizionale, una sezione di strumenti appartenenti alla musica pop che rendono con forza espressiva stili diversi, tra cui tango argentino, ritmi sudamericani e rock anni Settanta: l’insieme che ne deriva è godibilissimo.

La prima di Evita è stata una serata in cui il piacere dei sensi e (la possibilità di) riflessione critica si sono incontrati lasciandoci l’amara consapevolezza che il populismo risuona fragorosamente nelle politiche contemporanee.

Presentazione Stagione 2018-2019 Teatro Stabile Torino

Il 7 maggio 2018 al Teatro Gobetti si è tenuta la conferenza stampa di presentazione della stagione 2018/2019 del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale.  Il presidente del Teatro Stabile, Lamberto Vallarino Gancia, e il direttore Filippo Fonsatti, introducono le novità della nuova stagione. Già il 2018 è iniziato con un “tridente artistico” formato dal nuovo Direttore Artistico Valerio Binasco, dal Dramaturg residente dello Stabile che si occupa della parte di ricerca, Fausto Paravidino, e  da Gabriele Vacis per la formazione, nel ruolo di Direttore della Scuola per Attori.  Un punto di svolta per lo Stabile volto a consolidare un rapporto complementare tra le sue diverse funzioni quali la produzione, la formazione e la ricerca.

La parola poi passa al direttore artistico Valerio Binasco, un vero mattatore, che si prende la scena. Ci racconta, teatralizzando la lettura, la sua idea di teatro e l’orizzonte a cui vuole tendere la nuova stagione. Comincia a parlare di sé e spiega diversi problemi a partire dai quali si è posto delle domande. Ha cercato di girare a largo dalla cattiva recitazione e che continuerà a provarci. <<La recitazione ha a che fare spesso con le bugie e l’unico metodo per dire buone bugie è nel crederci>>. Quindi il problema numero  uno è con se stesso.

Il secondo riguarda il suo modo di fare e concepire la regia. Un teatro come prassi che per manifestarsi, non ha bisogno di ragionamenti, ma solo di alcune condizioni fisiche dove persone fatte in carne e sangue incontrano persone immaginarie e in uno spazio dove poter agire. Quindi un regista deve scegliere le persone e lo spazio in cui farle agire e mettersi in ascolto profondo di quel che accade tra attori e lo spazio.

Cita poi uno dei suoi maestri che lo ha influenzato con i propri scritti, Peter Brook. Da lui ha preso anche l’abitudine a lavorare sugli esercizi. La recitazione va continuamente nutrita, stimolata, coccolata.

Il terzo problema  riguardo l’idea del mondo. Per avere un’idea di teatro ci vuole un’idea di mondo, e quindi dell’uomo. Binasco è innamorato della vita degli uomini , e da lì nasce la sua vocazione teatrale . Il suo lavoro è un tentativo di narrare questo amore, condividerlo col pubblico, ma le persone non si meritano tutto questo amore.

Quest’anno darà il via ad un Ensamble, chiamato Lemon Ensamble che si terrà alle Fonderie Limone, dove gli attori vivranno e studieranno e metteranno in scena Shakespeare. Oltre a questa novità, un’altra è quella di dare spazio ai giovani, non relegandoli in una sezione a loro dedicata, per esempio delle nuove scoperte, ma integrandoli con gli altri registi e attori.

Un ultimo punto da lui affrontato è il lavoro sui classici. Teatro è un gioco, una festa. Festa dei sentimenti umani, festa delle storie che l’umanità ha raccontato su se stessa e sui suoi sentimenti. L’antico teatro è ancora il teatro della festa e della favola. Un teatro classico che ha continuato ad essere contemporaneo nei secoli. Siamo tutti contemporanei, almeno da Socrate in poi.

Questa è l’idea di teatro di Valerio Binasco. Ma veniamo agli spettacoli in programma per la prossima stagione. Qualche numero: 67 spettacoli di cui 17 produzioni, 32 spettacoli ospiti e 18 di Torinodanza. Proposte che spazieranno dai grandi classici, portati in scena anche in modo innovativo, alla drammaturgia contemporanea. Un programma molto ricco, attento alla valorizzazione dei talenti emergenti e sempre più internazionale, come conferma l’inserimento del Teatro Stabile di Torino (unico teatro italiano) nel prestigioso network Mitos 21, composto dai più importanti teatri europei.

Nucleo centrale, come di consueto, sarà il progetto produttivo: a portare in scena i classici in modo originale, mantenendo un rispetto del testo risaltandone l’attualità, sarà Valerio Binasco con Arlecchino servitore di due padroni di Carlo Goldoni (spettacolo di apertura della stagione al Teatro Carignano) e Amleto di William Shakespeare. A mettere in scena altri classici saranno Antonio Latella che dirigerà L’isola dei pappagalli con Bonaventura prigioniero degli antropofagi di Sergio Tofano e Nino Rota; Filippo Dini che curerà la regia di Così è (se vi pare) di Luigi Pirandello,  con Giuseppe Battiston e Maria Paiato, arte e vita si disintegrano sulle tavole del palcoscenico, potente metafore sull’incertezza delle relazioni; Jurij Ferrini regista e interprete di Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand.

L’impegno Internazionale si conferma con la produzione de La Maladie de la mort, una profonda esplorazione dell’intimità, della pornografia e del sesso, diretto dalla regista inglese Katie Mitchell, coprodotto con il Theatre des Bouffes du Nord,  e con Nora/Natale in casa Helmer diretto da Kriszta Szekely, giovane regista ungherese; Alain Platel porterà in scena Requiem Pour L., riflessione sofferta sul tema della morte intesa come parte sostanziale e sublime della vita, come esperienza umana e spirituale.

La valorizzazione della drammaturgia contemporanea avviene con la messa in scena per esempio de La ballata di Johnny e Gill di Fausto Paravidino , un viaggio della speranza; Sei di Spiro Scimone e Francesco Sframeli, che si soffermano per la prima volta su un testo pirandelliano; la difficoltà di vivere con un malato, le dinamiche famigliari che si incrinano di fronte ad un disturbo mentale, il rapporto tra genitori ed adolescenti, e un omicidio sono presenti in Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte di Simon Stephens dal romanzo di Mark Haddon diretto da Ferdinando Bruni ed Elio De Capitani; Il canto della caduta di Marta Cuscunà, giovane talento emergente, artefice di un teatro impetuoso e coinvolgente, racconta della fine di un regno delle donne e l’inizio di una nuova epoca del dominio e della spada, con la presenza di robot analogici creando una sinergia tra arte e tecnologia; Francesco d’amore e Luciana Maniaci mettono in scena Petronia, interrogandosi sull’immaginazione come unica forza capace di rivoluzionare le nostre vite.

Tra le produzioni ci saranno anche Se questo è un uomo di Valter Malosti; tornerà Novecento di Alessandro Baricco diretto da Gabriele Vacis e Mistero Buffo di Dario Fo, per la regia di Eugenio Allegri.

Altri spettacoli saranno Il giocatore da Fedor Dostoevskij diretto da Gabriele Russo ; I miserabili da Victor Hugo e diretto da Franco Però; Massimo Popolizio porterà in scena Ragazzi di vita di Pasolini; sarà presente anche Cechov con Il Gabbiano per la regia di Marco Sciaccaluga; Il vangelo secondo Lorenzo portato in scena da Leo Muscato; Giuseppe Cederna dirige Mozart-Il sogno di un clown; sarà presente inoltre Gabriele Lavia con I ragazzi che si amano da Jacques Prevert; Emma Dante con La scortecata.

Molti altri nomi comporranno la prossima stagione dello Stabile di Torino. Tutti insieme formeranno, per riprendere alcune delle parole di Valerio Binasco, una festa, perché il teatro è una festa, a cui tutti siamo invitati.

Torino, 7 maggio 2018

 

INFO STAMPA: Area  Stampa e Comunicazione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

CarlA Galliano (Responsabile), Simone Carrera

Via Rossino 12 – Torino (Italia). Telefono + 39 011 5169414 –  5169435

E-mail: galliano@teatrostabiletorino.itcarrera@teatrostabiletorino.it – www.teatrostabiletorino.it

 

Una serata con Don Giovanni

Al Teatro Carignano di Torino, dal 3 al 22 aprile 2018, è andato in scena Don Giovanni di Molière, uno spettacolo in prima nazionale diretto da Valerio Binasco, al suo esordio come direttore artistico del Teatro Stabile torinese.

Arriviamo al Carignano. Cerchiamo il nostro posto. Ci sediamo e attendiamo l’inizio. Le luci si spengono: ci siamo! Il palco è illuminato da una candela in scena. C’è un telo scuro, semi trasparente. Attacca un arpeggio di chitarra. È Stairway to Heaven dei Led Zeppelin che accompagna la scena: Don Giovanni sta andando a caccia (di una donna). Lo scambio di battute è proiettato sul telo durante lo svolgimento dell’azione, quasi un omaggio al cinema muto.

Si tratta del prologo del Burlador de Sevilla di Tirso de Molina, primo ideatore di Don Giovanni. Un inizio interessante, anche perché estraneo – quasi fosse un frammento a sé stante – per scrittura, interpretazione, modalità, toni e musica al resto della commedia.

L’opera di Molière, suddivisa in cinque atti, narra le (ultime) avventure di Don Giovanni, seduttore seriale ante litteram, e del suo servo Sganarello, sempre al fianco del padrone in ogni nuova impresa e conquista: da Donna Elvira fino alle “contadinotte” Maturina e Charlotte. I due protagonisti sono costantemente in fuga dalle ire dei fratelli della prima e dal promesso sposo di Charlotte. Per trovare riparo e un po’ di riposo, si rifugiano per la notte in un bosco, in cui si imbattono dapprima nei già nominati fratelli e in seguito nella statua del Commendatore che tempo prima Don Giovanni aveva ucciso. Provocata da Don Giovanni che la invita a cena, la statua risponde positivamente e si presenta l’indomani per trascinare il seduttore impenitente con sé nel mondo dei morti.

Don Giovanni, interpretato da Gianluca Gobbi, è spogliato e rivestito di una contemporaneità lontana dalla tradizione letteraria francese seicentesca. I suoi punti di forza sono fisicità e voce, potenti come un tuono. E’ un’interpretazione, sia da parte del regista sia del protagonista, insolita, originale, estremamente viscerale e corporea. Don Giovanni è uno spietato cacciatore di prede, estremo nel concepire il contatto amoroso solo all’interno di logiche di puro consumo. E’ sposato sì, con tantissime donne in ogni città, ma l’unico vero rapporto di fedeltà è con il suo servo, interpretato da Sergio Romano, che lo segue dappertutto, facendosi trascinare da un’avventura all’altra e provando ogni tanto a farlo ragionare, come una moglie sensibile e pacata farebbe con il proprio marito.

Un altro tema fondamentale è il rapporto con la religione e con la morte (approfondito a più riprese con l’omicidio del Commendatore, interpretato da Fabrizio Contri che veste simbolicamente anche i panni di Don Luigi, il padre del protagonista). Don Giovanni si fa beffe di due delle esperienze che fondano ogni esistenza umana.

Non manca, inoltre, l’intenzione di richiamare la tradizione italiana, quella basata sui dialetti, in particolare per le scene nella locanda con i promessi sposi Pierrot (Lucio De Francesco) e Charlotte (Elena Gigliotti).

Le peculiarità del Don Giovanni contemporaneo affiancate alla tradizione dialettale e musicale che incontriamo all’interno dello spettacolo sono cifre stilistiche di un regista che ha come suo primo obiettivo la comunicazione con il pubblico. Parafrasando le sue parole nell’incontro di presentazione dello spettacolo nel ciclo Retroscena: a Don Giovanni, come a qualsiasi classico che si rispetti, piace emozionare ed essere aggiornato.

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire» – Italo Calvino, Perché leggere i classici

Federica Beccasio

Riccardo Ezzu

di Molière

con Fabrizio Contri, Lucio De Francesco, Giordana Faggiano, Elena Gigliotti, Gianluca Gobbi, Nicola Pannelli, Fulvio Pepe, Sergio Romano

e con Vittorio Camarota, Marta Cortellazzo Wiel

regia Valerio Binasco

scene Guido Fiorato

luci Pasquale Mari

costumi Sandra Cardini

musiche Arturo Annecchino

assistente regia Nicola Pannelli

assistente scene Anna Varaldo

assistente costumi Silvia Brero

Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

La Traviata al Teatro Carlo Felice di Genova

Dopo il successo del 2016 torna al Teatro Carlo Felice di Genova la Traviata di Giorgio Gallione, con allestimento di Guido Fiorato e coreografie di Giovanni Di Cicco. Il successo verdiano, che due anni fa venne diretto da Massimo Zanetti e vide, lo ricordiamo, una giovane e talentuosa Maria Mudryak nel ruolo di protagonista, per questa ripresa è stato affidato al direttore d’orchestra australiano Daniel Smith.

Traviata debuttò il 6 marzo del 1853 al Teatro La Fenice di Venezia, con un libretto di Francesco Maria Piave che, riprendendo La signoria delle camelie di Dumas, cercò di spostare sensibilmente il confine della moralità, come amava il pubblico dell’epoca. Dalla mondanità parigina, fatta di feste licenziose e lieti calici, il testo attraversa un ambiente domestico di campagna, relativamente pacato e felice, per approdare infine, senza pietà, al letto di morte di una donna che ha scelto di sacrificare se stessa alla gioia del suo amato. Per la borghesia ottocentesca non poté che rivelarsi un cult, destinato ad entrare immediatamente nella storia del melodramma.

Se in Traviata dunque immoralità e rettitudine si scontrano nella personalità della protagonista, questo emerge innanzitutto dal libretto e dalla partitura musicale: di più difficile gestione è senza dubbio il piano scenico. Dai festini borghesi al giaciglio della malata, molti sono i caratteri che attraversano l’ambientazione dell’opera, e che più registi hanno ritenuto possibile dipingere di una tonalità onirica. Tra questi troviamo Giorgio Gallione che scrive: “Forse Violetta muore già nel preludio e l’opera è tutto un allucinato flash back visionario e spettrale”.

Tuttavia, mentre la regia rimane pressoché classica, a non convincere è l’allestimento moderno di questa Traviata che, muovendosi sul filo del cattivo gusto, “modernizza” gli ambienti dell’opera come a voler scandalizzare senza scandalo, in un luogo sterile e banale. I salotti parigini diventano tendaggi di bicchierini appesi, calati didascalicamente in prossimità del celebre brindisi intonato da Alfredo, la casa di campagna si trasforma in un ludico tappetone di mele finte, alcune delle quali ruzzolano appositamente verso il basso, causa il palco aggettante, arrestandosi contro una piccola balaustra prima di finire nel golfo mistico. Un albero caratterizza più di ogni altro elemento la scenografia, bianco, spoglio, agghindato con piccole candele. Nel primo atto questo troneggia in mezzo al palco e Violetta, coraggiosamente issata su dai mimi, canta una parte arrampicata su di esso. Un altro albero, identico, ma questa volta calato dal soffitto, disegna il secondo atto, in cui i ruoli sociali e sentimentali si ribaltano, modificando tragicamente il corso degli eventi. Infine, nel terzo atto, un colpo di scena: l’albero giace riverso a terra. A pochi centimetri da questo, sdraiata sul pavimento vitreo, Violetta fronteggia la tisi.

Ma basta davvero un albero mobile a fare di questa traviata una traviata simbolista? Se come dice il regista le traviate devono essere sublimi e volgari, va detto che sul piano scenico questa non pare né sublime né volgare. Tutt’al più, citando ancora Gallione, “una tragica carnevalata”, che, nel tentativo di rivitalizzare una pietra miliare della cultura italiana, rischia di farne nient’altro che una tenue parodia.

Per quanto concerne l’interpretazione è stata molto apprezzata Marta Torbidoni, il soprano italiano che ha sostituito Irina Polivanova, originariamente scritturata per la parte di protagonista. Fra le tre personalità di Violetta è probabilmente la terza quella che la Torbidoni interpreta al meglio, dolce e commovente. Altrettanto valido il baritono Mansoo Kim nel ruolo di Germont padre, che è solito raccogliere un forte successo nella serata con l’aria Di Provenza il mare, il suol. Ottimo il lavoro del Coro e dell’Orchestra del Teatro Carlo Felce.

Il coreografo Giovanni di Cicco ha realizzato una buona scrittura di danza, funzionale alla produzione. I suoi danzatori, eterogenei e duttili, spaziano dalla pantomima alla contact, gestendo molto professionalmente l’accoppiata tacchi/pavimento inclinato. Molto convincente il solo di danza che apre l’ultimo atto: l’interprete Melissa Cossetta, alter-ego della protagonista, esegue una coreografia lenta ed espressiva che ricalca nota dopo nota la condizione dolente del preludio. È il riscatto di un corpo danzante dopo gli abusi cui è sottoposto dal libretto nell’atto primo e secondo, notoriamente dediti ad una marcata esteriorità, tutt’altro che intima.

Il teatro ha registrato un pienone per lo più giovanile di non addetti ai lavori che, nonostante nel breve cambio scena del secondo atto si alzassero dai loro posti per fare intervallo, dà comunque una gran gioia vedere a teatro.

XXIII Edizione Festival delle Colline Torinesi

Presso la Fondazione Mertz si è tenuta il 26 aprile scorso la presentazione della XXIII edizione del Festival delle Colline Torinesi, dedicato alla drammaturgia e tematiche contemporanee.

Il Festival, diretto da Sergio Ariotti e Isabella Lagattolla, è realizzato in sinergia con la Fondazione  Teatro Piemonte Europa. Il Festival presenta autori, registi, interpreti  di diverse paesi del mondo, tra cui Francia, Svizzera, Spagna, Grecia, Romania, Iran, Costa D’Avorio oltre che all’Italia, ancora una volta per ribadire al sua internazionalità e apertura verso altri contesti teatrali. Tante le collaborazioni, tra le quali quelle con Teatro Stabile Torino, Piemonte dal Vivo, Casa del Teatro Ragazzi e con altre istituzioni non teatrali come Il Museo Nazionale del Cinema e la Fondazione Merz.

Dall’1 al 22 giugno 2018 si potrà assistere a molti spettacoli e incontri stimolanti che ruotano attorno al Festival .

Alla presentazione si sciorina il programma degli spettacoli anticipando che questa edizione avrà come tema principale il Fluctus, il viaggio in tutte le sue declinazioni. Il viaggio e il valore della memoria in Empire di Milo Rau, dove protagonisti sono quattro attori/migranti che raccontano le loro odissee. Ancora le migrazioni come fenomeno culturale ritornano in Birdie di Agrupacion  Senor Serrano, compagnia catalana che accosta i migranti agli Uccelli di Hitchcock. La compagnia greca Blitz Theatre con Late night cercherà di capire cosa stia accadendo all’Europa, raffigurandola ferita e decadente.  Il viaggio interplanetario con Vieni su Marte di Vico Quarto Mazzini, Premio Siae Sillumina.

Un altro tema importante è il rapporto tra le generazioni e i sessi. L’apertura del festival sarà affidata alla Trilogia sull’identità di Liv Ferracchiati. Tre spettacoli nella stessa serata partendo con Peter Pan guarda sotto le gonne, poi Stabat Mater e infine Un Eschimese in Amazzonia. L’iraniano Amir Reza Koohestami in Summerless riflette sul rapporto fra uomini e donne, giovani e vecchi, in mondo che sta cambiando. Lo scontro tra le culture presente sia in Causa di Beatificazioni di Massimo Sgorbani diretto da Michele di Mauro, e sia in Ritratto di donna araba che guarda il mare di Davide Carnevali, messo in scena da Lab121 con la regia di Claudio Autelli.

Molti sono gli spunti letterari o riferimenti alla drammaturgia classica: Giulio Cesare. Pezzi staccati da Shakesperare, spettacolo-istallazione di Romeo Castellucci; Dialoghi con Leucò, studio firmato da Silvia Costa e dedicato al mondo di Cesare Pavese; Platonov / commedia senza padri, progetto biennale cechoviano del Mulino di Amleto; Oh no, Simon Weil!, liberamente tratto dalla vita e dalle opere di Simon Weil, monologo di Milena Costanzo; uno spettacolo itinerante di Renato Cuocolo e Roberta Bosetti, Dickinson’s Walk; una serata a soggetto di Chiara Lagani, sulla saga dei Libri di Oz. Inoltre saranno presenti il premio Ubu per il miglior spettacolo 2017 Macbettu, un Macbeth recitato in sardo e da soli uomini, e il premio Ubu miglior attrice under 35, Cristina Balivo che reciterà in La buona educazione della Compagnia Dammacco. A chiudere il Festival sarà Aiace di Linda Dalisi e Matteo Luoni che riscrivono la tragedia di Sofocle, interpretato dall’attore ivoriano Abrham Kouadio Narcisse.

Oltre a questi e altri spettacoli, non mancheranno eventi che ruotano attorno al Festival, come “Cinema in scena”, in collaborazione con Il Museo Nazionale del Cinema, proiezioni di film che si terranno al cinema Massimo, inerenti agli spettacoli in cartellone: a maggio, Untitled viaggio senza fine di Michael Glawogger/Monika Willi, nel mese di giugno, Uccelli di Alfred Hitchcock, Macbeth di Roman Polanski, Stanze di Gianluca e Massimiliano De Serio.

Ci saranno incontri con gli artisti de Festival a cura di Laura Bevione e un incontro dal titolo Fluctus, riflessioni sulle declinazioni del viaggio, aperitivo per confrontarci su viaggi geografici, emotivi, intellettuali, teatrali che caratterizzano la nostra epoca contemporanea.

Ma questo non basta. Ritorna, l’appuntamento con gli allievi del corso di laurea in Dams che raccontano attraverso il loro blog (teatrodamstorino.it) la realtà del festival tramite interviste agli artisti, presentazioni, approfondimenti e recensioni degli spettacoli, e Tipstheater, una piattaforma web ideata da Valentina Passalacqua, Giulia Menegatti e Chiara Lombardo dedicata a spettatori, compagnie teatrali, organizzatori., in cui si possono commentare spettacoli e consigliare quelli da non perdere.

Gli spettacoli, oltre che nei teatri torinesi Astra, Cafè Muller, Casa del Teatro e Gobetti, saranno proposti anche a Moncalieri alle Fonderie Limone, a Collegno alla Lavanderia a Vapore e in spazi cittadini non tradizionali quali la Fondazione Merz, il Superbudda e il Caffè Elena.

Dopo aver visto il volto di bambini che non hanno mai avuto modo di sorridere […],

dopo esser stati in balia dei venti del deserto che accecano e bruciano gli occhi per farvi dimenticare […],

allora è lo stesso, vivere, morire, sognare o amare,

allora la nostalgia è come il troppo vino che finisce per ucciderti […].

(Lida Abdul, Segno di artista: Time, Love and the workings of anti-love)

Con questa poesia  vi auguriamo buon festival chiedendovi di partecipare numerosi, non per fare come si suol dire numero, ma condividere il momento teatro  con chi vi sta accanto e chi sulla scena. Ribadendo che anche un buon spettatore è necessario alla rappresentazione. Vi aspettiamo!

Per chi sente un desiderio profondo di partecipare al Festival e vuole divorare gli spettacoli, indichiamo riduzioni dei biglietti se acquistati entro al data del 13 maggio. I biglietti possono essere acquistati al Teatro Astra, nelle rivendite Vivaticket (online www.vivaticket.it), A  Infopiemonte  – Torinocultura.

@Contatti (per info e abbonamenti):+011 5634352

+393462195112; www.festivaldellecolline.it

@Luoghi: Pratici e Vaporosi (Via Donizetti 13), Teatro Astra, Teatro Gobetti, Casa Teatro Ragazzi e Giovani (Coso Galileo Ferraris 266), Cinema Massimo, Cafè Muller, Fonderie Limone (Moncalieri), Lavanderia a Vapore (Collegno), Fondazione Merz, Superbudda, Caffè Elena.
@Sponsor e collaboratori: Regione Piemonte, Città Di Torino, Compagnia Di San Paolo, Teatro Stabile Torino-Teatro Nazionale, Fondazione Piemonte dal Vivo, Fondazione Crt..
@Media partner: La Repubblica, RaiRadio3, Torinosette, TrovaFestival, klpteatro.it, Radioenergy.

I Lombardi alla prima crociata del Teatro Regio

I Lombardi alla Prima Crociata, opera giovanile di Verdi, è in scena al Teatro Regio di Torino dal 17 al 28 aprile. Considerata emblema del melodramma primo-ottocentesco, intrisa di valori risorgimentali, l’opera debuttò al Teatro Alla Scala di Milano l’11 febbraio del 1843, un anno dopo lo strepitoso successo del Nabucco.

La regia di Stefano Mazzonis di Pralafera è nata nel marzo del 2017 per Jérusalem, in coproduzione con l’Opéra Royal de Wallonie-Liège, ma presenta qui la doverosa aggiunta del fondale iniziale raffigurante la piazza milanese di Sant’Ambrogio. Fedele all’impianto tradizionale, l’allestimento si costituisce di numerosi quadri, poco coreografati, decorati con scenografie classiche e costumi non troppo appariscenti, né anacronistici. Unica sperimentazione il breve video nell’interludio del quarto atto, a rappresentazione della battaglia fra crociati e musulmani. La musica di scena, sulle vecchie immagini in bianco e nero, spezza la recita con un pizzico di modernità.

Alla prima tra il numeroso pubblico figuravano diversi volti dell’élite torinese oltre ad esperti del settore. In seguito all’annuncio che il tenore Gabriele Mangione avrebbe sostituito Giuseppe Gipali nel ruolo di Arvino, un inaspettato gracchiare di microfoni ha divertito la sala e preoccupato il fonico che prima di risolvere il problema ha dovuto dire a gran voce al direttore d’orchestra: “Michele aspetta”. Risolto il guasto, l’opera ha potuto svolgersi piacevolmente sotto la direzione di Michele Mariotti, al suo debutto ne I Lombardi. Nel ruolo di protagonisti il basso-baritono Alex Esposito (Pagano), il soprano Angela Meade (Giselda), il tenore Francesco Meli (Oronte)e il basso Antonio Di Matteo (Pirro). Notevole l’interpretazione del celebre assolo di violino a sipario chiuso nel preludio del terzo atto. Meritati inoltre gli applausi per il Coro del Teatro Regio i cui unisoni delicati, puntuali e dinamicamente ben regolati sono il vero e proprio corpo portante dell’opera.

Nonostante il libretto di Temistocle Solera presenti una certa confusione drammaturgica, con quel groviglio di eventi che si succedono frettolosamente, la partitura verdiana già rivela la grandezza del compositore. La firma di Verdi basta a giustificare la ripresa di un’opera di per sé minore o la scelta va cercata in altri motivi, non solo artistici? La linea ideologica del soggetto è chiara a tutti: la lotta dei cristiani contro i musulmani nella prima crociata, terminata nel 1099 con la presa di Gerusalemme. Al tema della gelosia scatenata dall’amore e della redenzione del personaggio malvagio si accompagna la celebrazione dell’invasione nostrana in terra d’oriente, che termina fra le esultazioni patriottiche di un popolo fiero di aver conquistato la terra promessa. Riconosciamo che sarebbe tuttavia limitante rinunciare a una creazione del genere per via dei tempi che corrono. La scelta del regista è stata di concludere con le due parti che si abbracciano e cantano insieme. Al di là delle scelte di messa in scena, è una grande possibilità dell’opera lirica quella di farci vedere la realtà con una maggiore coscienza storica, anche quando si presenta nei suoi aspetti più controversi.

Recensione di Tobia Rossetti e Marida Bruson

ARTE La verità di una tela bianca

Al Teatro Gobetti di Torino, giovedì 15 e venerdì 16 marzo, è andato in scena Arte della drammaturga francese Yasmina Reza, diretto dalla regista esordiente Alba Maria Porto e tappa conclusiva del progetto “Arte: Dialoghi in Contemporanea”.

Serge, Marc e Yvan – interpretati rispettivamente da Christian La Rosa, Elio D’Alessandro e Mauro Bernardi – sono tre giovani che si conoscono dai tempi della scuola, che hanno condiviso scelte e gusti, ma che si sono allontanati in età adulta, separati da differenti obiettivi e sensibilità. La storia comincia quando Serge acquista per 200.000 euro un quadro totalmente bianco, gesto che provoca ilarità, ma anche sgomento nei due amici, specialmente in Marc. La loro amicizia è messa a dura prova da quelle che, all’apparenza, sembrano semplici divergenze d’opinione, ma che, con il progredire dello spettacolo, trovano ragioni più profonde. I tre personaggi inevitabilmente s’interrogano sul senso del loro rapporto, su un’amicizia che sembra basarsi solo sul ricordo del legame che li univa nel tempo lontano della scuola, e che ora si ritrovano perché Yvan ha chiesto agli amici di un tempo di essere i testimoni alle sue nozze, programmate per il giorno dopo.

L’immagine chiave del testo è quella del labirinto, in cui discussioni che sembrano sul punto di spegnersi vengono riaperte e rilanciate, in un ribaltamento continuo del punto di vista. A differenza di Il dio del massacro (diventato un successo internazionale grazie alla versione cinematografica diretta da Roman Polanski intitolata Carnage), Arte osserva i personaggi sotto una luce più marcatamente ironica, intrecciando momenti di riflessione e situazioni apertamente comiche. Sia per l’efficacia del testo, sia grazie agli interpreti, che si dimostrano in grado di cambiare pelle e adattare i toni e i sentimenti alle situazioni, lo spettacolo procede senza fare mai cadere la tensione, tenendo viva l’attenzione fino al momento finale.

Il labirinto trova il suo centro (che apre e chiude la pièce) nel dipinto.

La tela bianca, o meglio il concetto di arte che essa rappresenta, è il pretesto per far emergere le relazioni, le aspettative disattese, le illusioni, i diversi ego che cercano di imporsi sugli altri, le prese di posizione rispetto alle cose che accadono. La questione del punto di vista è resa dalla regista attraverso una scelta minimalista e austera per quanto riguarda scene e costumi. Tutto ciò che è in scena ha un valore. Gli abiti permettono allo spettatore di cogliere fin da subito l’indole dei personaggi. Yvan è l’unico dei tre che non presenta un colore dominante e il cui abbigliamento, abbastanza sciatto, segnala la scarsa capacità di gestire la propria vita e di avere una opinione propria, indipendente da quella degli amici. Serge, invece, ha un aspetto più raffinato, da artista, veste – in accordo con il suo dipinto – con tonalità chiare, che alludono a una sorta d’innocenza e a un ottimismo quasi infantile. Infine, Marc indossa un completo nero e una camicia viola scuro che rispecchia il suo atteggiamento nichilista e non di rado sarcastico. L’abitazione in cui si svolge la vicenda è allusa mediante un’impalcatura di luci al neon, scelta calzante per evitare soluzioni naturalistiche e valorizzare al massimo la parola del testo e l’interpretazione degli attori.

Come i tre personaggi che vedono nella provocazione del dipinto verità diverse, gli spettatori sono messi a loro volta di fronte al quadro bianco per trarne una verità, non assoluta, ma valida per loro. Poiché, parafrasando Herman Hesse, “di una storia è vero solo quello che lo spettatore crede”.

Riccardo Ezzu

Arte 

di Yasmina Reza

nuova traduzione Luca Scarlini

con Mauro Bernardi, Elio D’Alessandro, Christian La Rosa

regia Alba Maria Porto

scene e costumi Lucia Giorgio

in collaborazione con gli allievi dell’Accademia Albertina di Belle Arti

musiche originali Elio D’Alessandro

progetto video Indyca

un progetto di Alba Maria Porto, Annalisa Greco, Claretta Caroppo

in collaborazione con Il Mulino di Amleto, Tedacà

e con ERT per la residenza a Villa Pini

partner The Others Art Fair, Accademia Albertina di Belle Arti di Torino, Brevidistanze

si ringraziano l’autrice Yasmina Reza

e Dominique Christophe Laboratorio Artistico Pietra

realizzato con il contributo della Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando “ORA! Linguaggi contemporanei, produzioni innovative”

Elvira (Elvire Jouvet 40)

“Il teatro è una cosa dello spirito e un culto dello spirito”, così Louis Jouvet pensando al perché si fa teatro e che cosa spinge un attore a entrare in questo mondo misterioso e affascinante. 

Brigitte Jacques traendo spunto dal saggio di Jouvet Molière et la comedie classique (1965, Gallimard), scrive questa pièce teatrale che si concentra su sette lezioni che l’artista francese fece stenografare tra il 1939 e il 1940. Toni Servillo dirige e interpreta  l’apologo del mestiere dell’attore, entrando  nella tecnica e nel pensiero di Jouvet.

In queste lezioni,  che si svolsero  tra il 14 febbraio e il 21 settembre 1940, Jouvet fa preparare a una giovane attrice, Claudia, l’ultima scena del personaggio di Elvira nel Don Giovanni di Molière.  Un’avventura a due, maestro e allieva che si prendono per mano addentrandosi in un territorio oscuro, quello del personaggio. Un territorio da indagare fino in fondo per poter comprendere e dialogare con il personaggio, che va  costruito passo passo, così che lo spettatore in scena al posto dell’attore veda il personaggio. Per giungere a questo il percorso è arduo, estenuante, ma necessario. Per Jouvet  è dovere di una grande attrice arrivare a quell’emozione del personaggio. 

In questa ultima scena Elvira è cambiata: non è più rancorosa a causa del tradimento di Don Giovanni.  È come in estasi, in pace con se stessa. Va incontro a Don Giovanni, all’uomo che ha creduto di poter amare, come un angelo che scende lentamente con gli occhi pieni di luce ad annunciare qualcosa. E’ dunque una scena di annunciazione per Jouvet, in cui Elvira si accosta a Don Giovanni per supplicarlo di cambiare vita, altrimenti l’unico posto che lo accoglierà sarà l’Inferno. Tutto questo è detto   pacatamente, quasi vergognandosi dei suoi momenti di ira precedenti. Torna da lui perché in fondo lo ama ancora, vuole salvarlo.  Sarà l’ultima volta che si vedranno. Così la storia di Elvira e Don Giovanni si intreccia con la storia vera, di un maestro e un’allieva che per sette mesi hanno condiviso lavoro e passione, lezioni di vita e rimproveri reciproci, per poi perdersi e non incontrarsi mai più a causa della guerra e dell’occupazione nazista di  Parigi.

Toni Servillo, nelle vesti di Jouvet, accentua la figura di un  maestro le cui  parole sono cariche di passione, emotività e tenerezza.  È uno spettacolo fatto di sguardi e di silenzi, degli sguardi e dai silenzi da cui nasce la creazione. Può sembrare a prima vista uno spettacolo semplice, ma la grandezza sta nel rendere vive queste lezioni. Lezioni  di recitazione, ma ancor  più lezioni di vita. Sul palcoscenico accade la finzione, ma sul palcoscenico della vita ci aspetta quotidianamente e anche qui l’entrata e i movimenti devo essere quelli giusti.

Abbiamo la possibilità di vedere l’uomo, l’artista nel momento di più alto sforzo e tenerezza, il momento della creazione. Un momento grandioso e allo stesso tempo tenero, ma qui non si tratta di creare un oggetto, un materiale, ma creare il personaggio  attraverso il corpo e le parole di un’attrice.  Per arrivare al punto più alto, le paure e l’orgoglio vanno messi da parte, è necessario liberarsi mentalmente.   Così storia umana e recitazione si intrecciano in un apologo  del mestiere dell’attore che è anche una lezione di vita.

Emanuele Biganzoli

Di Brigitte Jaques

Da Molière e la commedia classica di Louis Jouvet

Traduzione: Giuseppe Monetsano

Regia: Toni Servillo

Interpreti: Toni Servillo (Louis Jouvet), Petra Valentini (Claudia/Elvira) Francesco Marino (Octave / Don Giovanni), Davide Cirri (Leon /Sganarello)

Costumi: Ortensia De Francesco

Luci: Pasquale Mari

Suono: Daghi Rondanini

Aiuto regia: Costanza Boccardi

Produzione: Teatro Milano- Teatro D’Europa, Teatri Uniti

Bravo bravissimo! Al Regio l’inarrestabile vitalità di Rossini.

In occasione dell’anno rossiniano torna l’allestimento de Il barbiere di Siviglia creato nel 2007 dal Teatro Regio di Torino e più volte ripreso fino a diventare un piccolo classico. Le quattro recite (16, 20, 23 e 25 marzo) hanno registrato il tutto esaurito.

Il regista Vittorio Borelli restituisce la vocazione all’allegria propria di quest’opera, che Verdi definì «la più bella opera buffa che esista». La semplicità della regia se forse appiattisce la drammaturgia musicale di Rossini e Sterbini, che avevano sostituito all’incontenibile risata di Paisiello un sorriso divertito e malizioso, ha certo il merito di evidenziare i nodi essenziali della vicenda e di divertire il pubblico. Merito, quest’ultimo, da non sottovalutare.

Nel Rossini comico lo scavo psicologico è del tutto assente e sarebbe inutile e fuorviante andare a cercarlo. Il motore è l’ingegno, non necessariamente messo a servizio dei buoni sentimenti, e il propellente è il ritmo. Si pensi ai celeberrimi crescendo e ai magnifici concertati d’insieme: l’individualità dei personaggi è trascesa nell’effervescenza di un meccanismo ingegnoso descritto cronometricamente dalla pulsazione.

La direzione di Alessandro De Marchi trasmette, senza esagerazioni, il piacere del suono e del ritmo, la gioia che si sprigiona dalla partitura rossiniana.

Al godimento della vicenda ben si prestano i semplici parati lignei dipinti mossi a vista a definire gli ambienti della scena, a cura di Claudia Boasso, e i costumi di gusto andaluso di Luisa Spinatelli.

I cantanti si fanno apprezzare per la loro vis comica, in particolare Simone Del Savio nei panni di Don Bartolo e Carlo Lepore in quelli di Don Basilio.

Il giovane baritono Davide Luciano interpreta il barbiere factotum facendosi apprezzare, con il suo timbro scuro e caldo, sia per l’effervescenza, sia per il controllo dell’esecuzione.

Il tenore Francesco Marsiglia nel ruolo di Almaviva è capace di restituire i passi che richiedono particolare agilità, così come i momenti più lirici.

In questa versione è presente l’aria Cessa di più resistere, spesso tagliata perché considerata inutile al dramma. Lungi dall’essere una mera esibizione vocale, questo rondò con coro porta a compimento l’azione e riconsegna al personaggio del conte l’importanza che doveva avere per Rossini e Sterbini. Si ricorda che l’opera debuttò al Teatro Argentina di Roma nel 1816 con il titolo Almaviva, o sia l’inutile precauzione e nel ruolo del protagonista c’era la star Manuel García.

Ad ogni modo, che si ponga l’attenzione sull’élan vital di Figaro come celebrazione della nuova borghesia o se, al contrario, si riconosca nella vittoria di Almaviva un atto da Ancien Régime, tutt’altro che progressista, l’essenziale è l’aspetto ludico. Benvenuti, allora, quegli allestimenti non oscurati da improbabili echi di ghigliottine.

Gli applausi scroscianti del pubblico affermano, ancora una volta, l’importanza del gioco e del riso, elementi fondamentali del nostro vivere.