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La Turandot al Teatro Regio – Puccini ai tempi di Matrix

Una Turandot “attraverso il cervello moderno” aveva chiesto Puccini in una lettera del 18 marzo 1920 a Renato Simoni, autore del libretto con Giuseppe Adami. La grande “incompiuta” del Novecento, tratta dalla fiaba teatrale di Carlo Gozzi, sembra proprio abitare il palcoscenico mentale contemporaneo nel nuovo allestimento del Teatro Regio, in scena dal 16 al 25 gennaio.

Gianandrea Noseda, Direttore musicale del Teatro, che ha appena ricevuto una nomination ai 60th Grammy Awards, sceglie di fermarsi là dove si fermò Toscanini, alla prima assoluta, il 25 aprile 1926 al Teatro alla Scala. Si dice che a metà del terz’atto il leggendario Direttore si sia voltato verso il pubblico dicendo: «Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto». La versione più eseguita è quella di Franco Alfano, con i pesanti tagli di Toscanini; sono da citare, inoltre, la versione di Alfano senza tagli, resa disponibile dal 1979 e quella di Luciano Berio del 2001.

Sul finale dell’opera le questioni sono aperte: non fu la morte a interromperne la creazione ma complessità compositive sul fronte musicale e drammaturgico. Il problema della Turandot è soprattutto un problema teatrale. Può un bacio sgelare una tiranna che si dedica con ferocia a decapitazioni seriali? Il melodramma ha esigenze interne di coerenza, da cui la fiaba può dirsi libera. Il disagio che si cela tra le pieghe delle due linee tematiche incarnate da Turandot-donna carnefice e Liù-donna vittima sembra irrisolvibile. Liù si presenta come l’ultimo anello della catena di donne pucciniane, martiri di una passione amorosa, vissuta come religione. Proprio sul sacrificio della dolce schiava termina l’allestimento del Regio. Noseda dichiara: «Quella fine non mi ha mai convinto. Non ho mai capito quel lieto fine esagerato». Turandot non esiste, dicono le maschere Ping Pang e Pong. Non esiste che il Niente, nel quale ti annulli!

La regia di Stefano Poda, che cura anche scene, costumi, coreografia e luci, segue questa suggestione e crea uno spazio mentale in cui l’io onirico di Calaf è chiamato a confrontarsi con l’enigma dell’Alterità. Turandot è la proiezione del fantasmatico Altro che si replica all’infinito sul palcoscenico. Ad interpretarla il soprano sloveno Rebeka Lokar, mentre Calaf è il tenore Jorge de León e Liù è il soprano Erika Grimaldi. Danzatrici e danzatori accompagnano la messa in scena e ne sono, a detta dello stesso Poda, l’anima profonda. La sua è una Turandot tanto cantata quanto coreografata, nella quale il validissimo corpo di ballo, selezionato fra centinaia di danzatori torinesi, ha consentito al regista-coreografo una scrittura motoria impeccabile, che niente ha da invidiare ai migliori pezzi di danza contemporanea presenti sulle scene oggi. Corpi seminudi, pitturati di bianco e privi di caratterizzazioni, apparentemente inanimati, riportano la materia coreica ad un incedere primitivo e misterioso, un sussulto spirituale, fra l’atletico e l’inquietante.

Lo spettacolo ha un forte impatto visivo che, pur senza compiacimenti decorativi, cerca evidentemente il gusto di un pubblico, la cui cultura visuale è nutrita da campagne pubblicitarie, serie televisive, riviste di moda e post glamour di giovani influencer. Espressamente debitore di tale immaginario si rivela tutto il materiale scenico di cui si avvale l’opera. La scena è un’unica stanza asettica, nella quale un minimalismo architettonico convive con un’estetica hi-tech da ultimo grido, mentre un’immancabile struttura circolare consente al palcoscenico di girare nei momenti salienti della recita. I costumi incrociano lo stile dei film di fantascienza, tra armi e copricapo alla Guerre Stellari, e parrucche e mantelli cyberpunk in stile Matrix, attraversando un orientalismo coerentemente riadattato ai tempi contemporanei. Orientalismo che, tra l’altro, è da sempre parte della tradizione estetica e tematica del più alto teatro europeo. La matrice cinematografica risulta inoltre dalla commistione di riferimenti che intrecciano universi culturali i più diversificati in una miscela spettacolare tipicamente post-moderna dove le possibili citazioni si sprecano. Tale ottica forse non è in contrasto con quella capacità, tutta pucciniana, di tradurre attraverso nuove estetiche i valori della modernità. Tra il fashion design e la sfilata in passerella, lo stesso futuro del melodramma sembra così traslare la sua provenienza artigianale dal campo del teatro a quello della moda. La scelta di lasciare l’opera aperta è senz’altro suggestiva perché mette in risalto il mistero del dramma e le contraddizioni che i vari finali non sono riusciti a risolvere: una scelta “di tendenza”, anche questa.

Sottolineiamo, in coerenza con gli aggiornamenti in atto all’interno della secolare industria dello spettacolo, che questa produzione è il primo contributo del Teatro Regio al progetto europeo OperaVision, piattaforma video dedicata all’opera, sulla quale sarà visibile in streaming gratuito per sei mesi a partire dal 25 gennaio, offrendosi ad una platea virtuale internazionale.

Quella di Noseda e Poda è, in definitiva, una Turandot plastica, attraente e sensuale, che contemporaneamente sa e vuole essere algida e fredda come una sala operatoria. Gli 11 minuti di applausi rendono onore al mastodontico lavoro che l’opera ha alle sue spalle.

Foto di copertina di Ramella&Giannese

 

Recensione di Tobia Rossetti e Marida Bruson

Rumori fuori scena

Rumori fuori scena, titolo originale Noise off è una commedia scritta dal drammaturgo britannico Michael Frayn nel 1977, che ha avuto, e continua ad avere, un successo clamoroso: tradotta in 29 lingue è la commedia più rappresentata del Novecento e nel 1992 è diventata un film diretto da Peter Bogdanovich.
Non è difficile immaginare il motivo di questo successo: si tratta di una commedia che porta lo spettatore nel dietro le quinte svelandogli i segreti di una stravagante compagnia che racchiude in sé tutti i “tipi” umani: il dongiovanni, la bella e frivola, l’insicuro, l’ottimista e l’ubriacone.

È l’intreccio di due linee narrative, che mette in luce la semplicità nell’uomo, influenzabile e anche disarmato quando si parla di sentimenti, battibecchi e pettegolezzi. Ci viene presentata infatti una compagnia, traboccante dei caratteri-cliché di cui dicevamo, con la loro farsa che, con forza di volontà e buone intenzioni, sta mettendo in scena: Niente Addosso di Robert Hausemonger (titolo e autore sono inventati dallo stesso Frayn). Il tutto però è mescolato e strettamente collegato con le dinamiche personali tra gli attori, che nascono, fioriscono e interagiscono continuamente con il loro lavoro. Sembra insomma di ritrovarsi davanti a una classica tele novelas con i colpi di scena, le storie d’amore, i tradimenti, l’imbranato e via discorrendo, con la differenza che si è a teatro. Proprio per questo suo tono è inevitabile che i personaggi siano parecchi; se escludiamo il regista, Lloyd Dallas (interpretato da Fabrizio Martorelli), il direttore di scena Tim Allgood ( Ettore Lalli ) e l’assistente di scena Poppy Norton Taylor ( Lia Tomatis ), gli altri attori si trovano ad avere un doppio ruolo:
Dotty Otley, nello spettacolo La signora Clackett ( Daniela de Pellegrin ), Garry Lejeune, nello spettacolo Roger Tramplemain, ( Claudio Insegno ), Brooke Ashton, nello spettacolo Vicky (Carlotta Iossetti ), Frederick Fellowes, nello spettacolo Philip Brent e Lo Sceicco (Andrea Beltramo), Belinda Blair, nello spettacolo Flavia Brent (Carlotta Viscovo), Selsdon Mowbray, nello spettacolo Lo Scassinatore (Guido Ruffa).
La commedia, divisa in tre atti, si apre con una musichetta leggera, con l’entrata di quella che pare una donna di casa intenta a prepararsi a guardare la tv, comodamente sul divano, con giornale e acciughe, approfittando dell’assenza dei padroni. Lo spettatore inizia così, come naturale, a concentrarsi, per capire chi sia, quale sia il suo rapporto con la casa, con il lavoro, insomma mette in moto i classici meccanismi per cercare di crearsi il nodo iniziale da cui far partire il filo della storia. Per questo rimane quasi scombussolato, dopo cinque o sei minuti, all’irrompente voce che grida dalla platea. Il castello di ragionamenti viene bellamente buttato giù e ci si rende conto di trovarsi in una situazione meta teatrale con il regista che interrompe la scena. La mente allora scatta e capiamo di assistere alle prove generali, disperate della compagnia che da quel momento in poi ci porteranno all’interno di un perfetto meccanismo di equivoci, tra la commedia Niente addosso e gli errori degli attori, tanto che la fine del primo atto coincide con la fine del primo atto della commedia.

Nel secondo atto, invece, la situazione si capovolge. Il pubblico non si trova più dalla parte degli spettatori, ma è invitato a spiare dietro le quinte, dove si troverà faccia a faccia con le dinamiche sentimentali, i litigi e le piccole vendette degli attori, che inevitabilmente andranno a condizionare l’andamento dello spettacolo. Sapendo già le dinamiche della farsa, però, che si sente echeggiare dietro le scenografie, ci si sente quasi complici del disastro. L’aprirsi delle porte, l’entrare, l’uscire, gli oggetti di scena che cadono, si impigliano, rianimano nella memoria di chi guarda il loro ruolo nello spettacolo, ruolo che, ovviamente, andrà perso per via degli attori impulsivi e ormai completamente persi nelle loro sfere personali di vita quotidiana.

Nel terzo atto, il nostro sguardo viene nuovamente ribaltato. Si rivede il palco con la scenografia della casa, il divano, il tavolino e la tv. Ci si rende anche conto della degenerazione che ha avuto il tour di questa compagnia grazie a quella messa in scena che, organizzata in modo casuale, disordinato e sporco, grida pietà. Per la terza ed ultima volta ci si riprepara così a godere di Niente addosso resa ancora più esilarante dall’aumentare dei litigi nel retroscena che dirompano nel quadro in piena vista al pubblico.
Nel finale, quando ormai sembra impossibile recuperare la situazione, tutto si sistema per il meglio, come in ogni commedia che si rispetti. I personaggi infatti, si ritrovano imbarazzati tutti sulla scena, persino il regista, che aveva affermato più volta di non volerne sapere più nulla, all’ultimo si veste come può ed entra in scena cercando di recuperare le fila di quella commedia naufragante.

Nella regia di Claudio Insigno, gli effetti comici sono portati sul palcoscenico con estrema maestria; lo spettacolo è una continua risata dall’inizio alla fine, grazie alla caratterizzazione comica dei personaggi e ai ritmi sostenuti.
La scena, curata da Francesco Fassone, e i costumi, di Barbara Tomada, ci riportano ad un teatro tradizionale, in cui la scenografia è realistica e costruita, e i costumi rappresentativi del ruolo, cosa al giorno d’oggi alquanto rara.
Uno spettacolo famigliare, che mira allo svago, all’alleggerire la mente e fa sentire lo spettatore un’ospite ben accolto, in un umile, semplice e sentimentale compagnia allo sbaraglio.

Lara Barzon e Gisella Grandis

 

Don Chisciotte: tragicommedia dell’arte

La stagione Live Show Cumiana ha ospitato presso il teatro Carena lo Stivalaccio Teatro, compagnia veneta da Scorzé (VE), proponendo una serata ispirata al teatro popolare e alla commedia dell’arte. Marco Zoppello e Michele Mori portano in scena un Don Chisciotte raccontato da due Comici Gelosi della seconda metà del ‘500: Giulio Pasquati, padovano, in arte Pantalone e Girolamo Salimbeni fiorentino, in arte Piombino.

Sul fondale una tela quadrata fatta di pezze color terra su toni marroni, rossi, aranciati. Poco più avanti, al centro, un vecchio e misterioso baule verde; verde speranza, come quella di salvezza che i due comici ripongono nel teatro e nella vita. Gli attori iniziano a recitare tra il pubbico, come si addice a quel teatro comico a cui piace disintegrare la quarta parete nelle due direzioni: non solo dal palco alla platea, ma anche dalla platea al palco.

Tutto ha inizio con una condanna a morte. E’ il 25 febbraio dell’anno 1545, siamo a Venezia e sua eccellenza l’Inquisitore dichiara i due comici colpevoli di aver inscenato sulla pubblica via uno “sconcio” spettacolo di commedia dell’arte in tempo di Quaresima, per di più senza aver pagato il plateatico. Ma i condannati hanno un ultimo desiderio: recitare una commedia. E’ concessa loro una sola ora di vita, poi la forca. Allora ecco che decidono di mettere in scena le buffe “imprese” del famoso hidalgo della Mancia e del suo fedele scudiero-contadino. Salimbeni nei panni di un Don Chisciotte toscano e Pasquati in quelli di un Sancho Panza veneto ripercorrono le avventure dei due celebri personaggi in un incalzare di episodi, conditi talvolta con qualche trovata inedita; laddove non si ricordano come va avanti la storia si inventano alcuni particolari, ma qualsiasi trovata va bene pur di ritardare l’esecuzione e assaporare qualche minuto in più di vita.

Prima di tutto urge il cosiddetto momento equino, ovvero la presentazione del nobile destriero, dell’immane quadrupede, della fiera bestia: Ronzinante, il ronzino “unigamba”, così classificato da Salimbeni. Come definire con altrettanta eleganza un fantoccio che ha per testa un grumo di pezza e per corpo un manico di scopa? Mai definizione fu più calzante. Dal canto suo anche Pasquati procura al suo Sancho l’asinello di rito: un modellino di cavallo a dondolo per nani da giardino. Una volta recuperata la cavalcatura più adatta, possono finalmente dedicarsi a imprese gloriose: combattono nel nome della dolce Dulcinea, in un mondo deformato, tra osti castellani e catini fatti elmi, tra giganti mulini a vento ed eserciti di pecore, “perché – come alla fine si rende conto Don Chisciotte – viviamo in un mondo in cui vivere non è che sognare” (La vita è sogno, Calderon De la Barca).

Di tanto in tanto l’inquisitore, quando nota che i due comici temporeggiano, interviene battendo il tempo. Ma i due guitti cialtroni si aggrappano a qualunque pretesto in modo da tirare la commedia per le lunghe; si inventano persino un nuovo capitolo del romanzo pur di rimandare la condanna. Grazie ai suggerimenti di un pubblico attivo e partecipe, ecco il capitolo inedito di Cervantes: la nuova avventura di Don Chisciotte contro il tremendo Gianni Morandi. Il marrano tiene nascosta Dulcinea nel comune di Napoli, ma verrà sconfitto dal cavaliere errante con un potentissimo schiaccianoci.

Con Don Chisciotte: tragicommedia dell’arte ci troviamo di fronte a quel teatro che sembra all’improvviso, ma non lo è. Marco Zoppello e Michele Mori seguono precisi codici comici della commedia dell’arte: se danno l’impressione di andare a braccio, in realtà sanno benissimo dove andare a parare e dove portare il pubblico. Curato nel dettaglio a livello tecnico, di movimento e di parola, lo spettacolo si regge anche su una drammaturgia ben pensata. A fianco al gesto, al ritmo, alle onomatopee incalzanti, ai lazzi e alle tirate, si pone un testo intessuto di citazioni come una ragnatela: da Dante a De la Barca, da Shakespeare a Leopardi e molti altri.

Perché però far raccontare il Don Chisciotte da due comici dell’arte? Il motivo di questa scelta è duplice. Innanzitutto la predisposizione naturale del romanzo di Cervantes alla messa in scena. Si tratta infatti di un testo dotato di dinamiche e meccanismi comici, che risultano assimilabili alla Commedia dell’arte, in particolare i due protagonisti possono corrispondere ad alcuni “tipi fissi”: da un lato troviamo Don Chisciotte, a metà tra un Capitano sognatore e un cieco Amoroso, che vive di letteratura e ama di un amore puro, platonico, idealizzato; dall’altro Sancho Panza, più simile ad uno Zanni, umile contadino e servo affamato, che punta al sodo per appagare i suoi bisogni primari (fame, sonno, sesso).

In secondo luogo la scelta è simbolica, strettamente legata ad un momento critico e di rinascita della compagnia lo Stivalaccio. Unici “superstiti” della compagnia originaria, Marco Zoppello e Michele Mori, si sono dovuti inventare uno spettacolo che permettesse loro di poter continuare a vivere di teatro. E allora, rimasti duo, perché non raccontare con Don Chisciotte e Sancho Panza le loro disavventure e magari farle raccontare da due Comici Gelosi condannati a morte?
Pasquati e Salimbeni rischiano la morte e cercano attraverso il pubblico di salvarsi la vita, si aggrappano a quello che sanno fare meglio: recitare, fingere, modellare e plasmare il pubblico, giocarci e prendersene gioco, metterlo in burla, ottenere consenso, plausi, approvazione, la grazia, la vita. Alla fine il pubblico applaude e i comici si salvano, vox populi, vox dei.

Alessandra Minchillo

 

Live Show Cumiana – Teatro Carena
22 dicembre 2017

Don Chisciotte: tragicommedia dell’arte
Produzione Stivalaccio Teatro

interpretazione e regia:
Michele Mori – Girolamo Salimbeni/Don Chisciotte
Marco Zoppello – Giulio Pasquati/Sancho Panza

soggetto originale Marco Zoppello
dialoghi Carlo Boso, Marco Zoppello
costumi e fondale Antonia Munaretti
maschere Roberto Maria Macchi
audio e luci Matteo Pozzobon

 

 

L’arte vivere di noi stessi. Su “Onirico. Il fiume dell’oblio”

Augusto Boal diceva che il teatro è l’arte di vedere noi stessi, un modo per rientrare in contatto con il nostro corpo, i nostri stati d’animo e ogni aspetto mentale o fisico che ci compone. Un’esperienza umana intima, ma anche difficile e, in alcuni casi, dolorosa. Un’esperienza che, grazie alla compagnia teatrale  “Stalker Teatro”, le donne della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno hanno deciso di vivere. Attraverso un laboratorio, all’aiuto di volontari e attori, il loro percorso le ha portate all’allestimento dello spettacolo Onirico. Niente palco, platea o professionalità attoriale, solo la sincerità degli sguardi, la voglia di rinascere e riemergere dal loro passato.
Lo spettatore entra nel “teatro” appena mette piede al di là di un cancello alto nove metri, per poi essere perquisito dalle guardie. L’atmosfera di leggera oppressione lo accompagna fino alla sala con le protagoniste della serata. Il nero lo inghiotta e a sorpresa si ritrova in un fiume blu circondato da sedie, un fiume in cui attori e attrici sono immersi. Lo spettacolo inizia dopo che tutti hanno preso posto, una musica leggera rilassa lo spettatore e i corpi iniziano a galleggiare. Il fiume Lete della mitologia greca  bagna e leviga,  cancellando la memoria del passato opprimente, restituendo la possibilità di sognare, quel mondo onirico che la realtà del carcere inevitabilmente strappa.  Ed ecco che i corpi si animano, iniziano a vivere di nuovo, producono piccole bolle che brillano alla poca luce, si scontrano, si abbracciano, rimpossessandosi della propria umanità. Qualche volta,  frasi delle detenute vengono lette, testimonianze di quel luogo, di quella voglia di immergersi e ritornare pulite. Chi guarda, a quel punto, però, è caduto con loro in quelle acque, non si ricorda più in che luogo sia o chi siano le persone che ha davanti, vede solo donne, con la sofferenza negli occhi, che appanna il loro possibile futuro.
La trasparenza e il coraggio con cui tutto questo viene trasmesso è disarmante e ti ritrovi come loro un corpo morto, trascinato, bisognoso di speranza, di altra acqua per continuare. Quella forza viene data alle donne non più dal fiume ma dai loro cari, dai figli, che le rivestono di rosso, facendole tornare indietro. Lo spazio scenico si anima di voci, risa, urla, di adulti bambini che giocano a prendersi.

E’ la svolta definitiva, il punto in cui il seme del rimorso è stato espulso per lasciar spazio a quello dello della forza vitale.  Il carcere si trasforma così in uno studio musicale, dove situazioni scomode si tramutano in possibili canzoni, cantate in coro, tra le luci di lanterne colorate danzanti. L’apice viene raggiunto allo sbucare di piccole campanelle. Ogni donna o volontario del laboratorio ne ha una e raggruppandosi al centro le innalzano facendole suonare, come un brindisi all’immensa impresa compiuta dal corpo e dalla memoria. Sciogliendosi il cerchio si scioglie anche la sottile barriera con lo spettatore. Piccoli segreti, pensieri o semplici saluti gli vengono sussurrati all’orecchio, preceduti dal risveglio della campanella, senza vergogna, paura o imbarazzo, con l’invito finale di ballare con loro. Ed è proprio con una ballo che lo spettacolo si chiude, con il fiume traboccante di sorrisi e le sedie vuote.
Questa serata è stata la dimostrazione che per far teatro non servono attori professionisti o grandi palcoscenici ma la forza di vivere in ogni momento dell’azione, di saper cogliere cosa i nostri istinti più profondi ci sussurrano alla mente, lasciando andare corpo, voce e sguardo, lasciando che i sentimenti e le sensazioni prendano le briglie dei nostri movimenti.
I volontari e, in primo luogo, le detenute, le donne che si sono spogliate delle loro maschere passate, hanno regalato allo spettatore un inno alla vita, frammenti di sogni e della forza che un solo essere può sprigionare.

Lezioni di Teoria alla Lavanderia a Vapore – Esperienza e Memoria

Nella serata del 13 dicembre, presso la Lavanderia a Vapore di Collegno, la celebre compagnia belga ROSAS ha presentato il suo nuovo ed attesissimo lavoro, A Love Supreme, un’intensa coreografia di cinquanta minuti scritta sulle musiche dell’omonimo disco di John Coltrane. L’egregio dialogo tra scrittura musicale e coreica, messo a punto da Anne Teresa De Keersmaeker e Salva Sanchis, ha motivato alcuni incontri storico-teorici tenutisi nelle ore precedenti allo spettacolo, negli spazi della stessa Lavanderia. Le lezioni hanno visto la partecipazione di Susanne Franco, studiosa dell’Università Ca’ Foscari Venezia, e del musicologo Luca Bragalini.

La prima, svoltasi nel pomeriggio all’interno della sala prove, si inserisce nel percorso di formazione Botteghe d’Arte, che la Lavanderia a Vapore (con il supporto di Piemonte dal Vivo) ha avviato insieme alla Rete Anticorpi XL in collaborazione con la  NOD (Nuova Officina della Danza), offrendo una buona commistione di pratica e teoria ai professionisti del settore. Susanne Franco ha illustrato quelle peculiarità proprie della teoria della danza che ne fanno una disciplina tanto difficile quanto affascinante da approcciare. Esistono infatti, ci insegna la studiosa, due tipi di archivi dai quali attingere la storia della danza: i documenti segnici (foto, video, scritti, disegni, che raccontano di una determinata produzione coreografica) e i corpi dei danzatori sui quali la coreografia stessa è stata scritta. Dall’incontro di questi due serbatoi di memoria, ontologicamente molto diversi, emergono molteplici modalità di ricostruzione del passato coreutico che Susanne Franco, attingendo dal saggio di André Lepecki Il corpo come archivio, ha delineato attraverso alcuni casi topici. Primo quello di Lamentation, celebre solo di Martha Graham presentato dalla stessa autrice negli anni trenta, la quale ne modificò considerevolmente alcuni tratti quando, quarant’anni dopo, lo ricostruì, interpretato da Peggy Lyman. Secondo caso, il dissacrante pezzo che Jerome Bel ha scritto nel 2004 per la danzatrice Véronique Doisneau, ballerina del corpo di ballo dell’Opera di Parigi, la quale racconta, in scena, di come gli agi e i disagi del suo lavoro e del suo ruolo professionale abbiano influito sulla sua vita personale.

Susanne Franco ha poi invitato i partecipanti, prevalentemente addetti ai lavori (danzatori e/o coreografi) a riflettere sul complesso concetto di copyright applicato alla danza. A chi appartiene un’opera creata e firmata da un autore ma scritta sul e con il corpo di un interprete, il quale ne rende a sua volta possibile l’esistenza e la trasmissione? La studiosa ha preso a esempio il caso clamoroso di Richard Move, danzatore in grado di imitare lo stile e il carattere di Martha Graham in maniera tanto fedele da addossarsi più denunce da parte dei possessori dei diritti della Graham. Il processo ha interessato avvocati, critici e teorici, tra i quali lo stesso Lepecki. Addirittura Yvonne Rainer, storica coreografa della post-modern dance, si è cimentata nel tentativo di una “trasmissione impossibile”, cercando di insegnare (con scarsi risultati) i passi del suo Trio A alla finta Martha Graham interpretata da Move. L’ultimo caso di studio analizzato dalla ricercatrice è stato quello della Seasons March, semplice sequenza coreografica scritta da Pina Bausch per i danzatori della sua compagnia, i quali oggi insegnano la stessa sequenza ad amatori di tutto il mondo attraverso video tutorial accessibili a chinque. Sono così gli stessi fan della coreografa tedesca a farne rivivere la memoria attraverso il loro corpo, “appropriandosi” fisicamente dell’opera d’arte. I numerosi cortocircuiti culturali e coreografici esposti da Susanne Franco, in ultima istanza, dimostrano come la memoria necessiti di essere esperita per non perdere il suo profondo significato. Soprattutto nel campo della danza.

Foto di Fabio Melotti

Successivamente, nel corso della serata, si sono succeduti altri due incontri, interni al nuovo programma di formazione del pubblico avviato dalla casa della danza collegnese, denominato Scuola dello Spettatore. Gli interventi, propedeutici allo spettacolo A Love Supreme ed aperti a tutti, hanno trattato il primo la carriera musicale di John Coltrane e l’intrecciarsi di questa con la ricerca spirituale, il secondo la vita e la poetica dell’apprezzatissima coreografa belga Anne Teresa De Keersmaeker. Luca Bragalini ha introdotto gli spettatori al mondo intimo e creativo di uno tra i più geniali compositori nella storia della musica jazz, capace di reinventarsi ad ogni incisione, il quale, proprio nell’ultima traccia di A Love Supreme (1965), ha spinto la sperimentazione compositiva all’estremo, registrando una parte di sassofono fedelmente suonata secondo la metrica del testo di una preghiera da lui precedentemente scritta. Similmente, la coreografia presentata in prima regionale la stessa sera alla Lavanderia a Vapore, traduce la fitta partitura musicale di ogni singolo strumento presente nel disco in un tessuto di precisissimi movimenti affidati ad ognuno dei quattro danzatori in scena. Ancora Susanne Franco, infatti, ha poi illustrato la coretica dell’autrice belga, unica nel suo genere, e non a caso estremamente influenzata dallo studio della musica (la giovane De Keersmaeker ha infatti frequentato il conservatorio per qualche anno prima di virare verso la danza ed iscriversi alla Scuola Mudra di Maurice Béjart). “È una coreografa che pensa da musicologa – racconta la Franco – e che ha sviluppato uno stile compositivo di una complessità disarmante”. La lezione ripercorre esaustivamente le tappe dell’avvincente biografia dell’artista, dalle prime produzioni della compagnia al femminile ROSAS, fino all’apertura del P.A.R.T.S. a Bruxelles, forse ad oggi il più celebre e discusso centro di formazione di danza contemporanea di tutta Europa.

L’interessante ciclo di lezioni tenutosi alla Lavanderia a Vapore le vale a pieno merito il titolo di centro regionale per la danza in Piemonte, e, oltre ad incuriosire gli spettatori, informa gli addetti ai lavori di come la ricerca storica e teorica sia necessaria alla pratica coreutica e a sua volta bisognosa di stringere un più fertile rapporto con danzatori e coreografi. Inoltre l’eterogeneità delle materie trattate ci dimostra come il rapporto tra musicologi e teorici della danza, seppur imprescindibile, sia ancora attraversato da molta timidezza. Timidezza che, se nei primi è dettata da una storica posizione di superiorità culturale, nei secondi è quanto mai, ad oggi, ingiustificata. Musica e danza devono essere studiate insieme, non tanto per evidenti affinità contenutistiche, bensì per coincidenze metodologiche e, soprattutto, di linguaggio. Perché, citando il pensiero della De Keersmaeker, che delle due discipline ha fin da subito compreso la fondamentale inseparabilità, “la danza è un modo di agire, crescere e pensare che più di altri linguaggi richiede di svilupparsi in un contesto collettivo”.

Tobia Rossetti

Foto di copertina di Fabio Melotti

 

Una pioggia di truciolato e d’applausi

Dal  29 novembre  al 3 dicembre 2017, all’interno del cartellone dello stabile al Teatro Carignano, è stato messo in scena il Pinocchio di Latella.

Nella memoria dei più non è più presente il Pinocchio scritto da Carlo Lorenzini bensì quello raccontato dalla Disney. Da questo bisogna partire per capire la scelta di mettere in scena lo spettacolo di Latella. C’è  il desiderio di distruggere un immaginario oramai ridondante per tornare all’originale, ma allo stesso tempo riletto in chiave personale, con spunti di riflessioni moderne.
Un grosso tronco è sospeso in orizzontale, abbiamo una porta di metallo che sbatte nell’arco della rappresentazione, un tavolo da falegname e tutt’attorno piccoli mucchi di truciolato, sotto a cui sono nascosti alcuni personaggi.
In scena  viene portato effettivamente il Pinocchio collodiano; un tronco che aveva del magico fin da quand’è stato tagliato, Mastro Ciliegia e Geppetto che litigano e se le danno, Geppetto che dà forma al suo Pinocchio, già briccone ed energico, pronto ad imparare  da ciò che ha intorno. La prima parte dello spettacolo segue perfettamente la narrazione del romanzo, mentre Christian La Rosa (Pinocchio) si agita in scena, con addosso una pesante e limitante imbragatura a cui è attaccato un ceppo di legno. Il burattino è  come un bambino, interessato a conoscere il mondo, ma allo stesso tempo è molto di più perché desidera conoscerlo tutto in una volta, stando in piedi sulle proprie gambe e senza dare retta a nessuno, neanche a Geppetto o al Grillo. Il rapporto tra i tre in particolare è molto importante. In scena viene rappresentata una specie di trinità che si percepisce nei loro movimenti, negli spasmi che Pinocchio ha per la fame che si ripercuotono pure su Geppetto e il Grillo. Dopo la morte del Grillo sarà meno evidente questo collegamento con Pinocchio, invece ne primo tempo  e in buona parte del secondo sarà incessante con il Creatore Geppetto.
Per tutto il primo tempo si ha davanti uno spettacolo che chiaramente non vuole essere una fiaba, seppur pare presentarsi come tale per la leggerezza con cui inizia, per l’impianto scenografico semplice ed essenziale (anche se al Carignano non si ha goduto appieno di ciò, essendo lo spettacolo creato per le dimensioni del palco del Piccolo di Milano), che richiede fantasia del pubblico ad immaginare gli spostamenti dei personaggi in vari ambienti, e soprattutto per la magica pioggia di truciolato sul palco.

 

Con l’inizio del secondo tempo l’atmosfera cambia, si fa più cupa e ci si chiede come farà Pinocchio a salvarsi, a imparare dai propri errori e a diventare un bambino vero. Tutto sembra perso e ci si aspetta l’intervento magico della Fata Turchina, che invece ci sorprende perché è tutto fuorché buona e generosa. Anzi è una fata invecchiata che vorrebbe avere per sé Pinocchio. Desidera essere la sua mamma e non accetta di buon occhio di doverlo ricondurre da Geppetto, tant’è che non lo aiuta veramente. La vera svolta dello spettacolo si ha in questo secondo tempo, dove la narrazione non rispetta più tutti i tempi dettati da Collodi, dove Pinocchio ha imparato dai suoi sbagli e diventa diligente, un perfetto studente modello. Nel grigiore di una vita monotona, lontano dal padre a cui si vorrebbe ricongiungere e stimolato da Lucignolo, si concede un’ultima bravata. Il Paese dei Balocchi si è rivelato l’ennesimo sbaglio e Pinocchio si separa del tutto dal suo lato esagitato e sfrenato, abbandona il Ceppo che ha sempre avuto addosso.

Nel finale abbiamo un dialogo tra un Pinocchio oramai adulto e un Geppetto troppo vecchio e inacidito. Geppetto non vuole più avere nulla a che fare con la sua creatura, non l’ha mai desiderata se non per necessità e Pinocchio vorrebbe un dialogo, un confronto e finalmente amore. Ma non è più possibile e tutto si spegne lasciando una profonda amarezza, che il pubblico ha accolto positivamente scoppiando in un collettivo applauso sia alla fine del primo tempo che alla chiusura definitiva del sipario.
Personalmente trovo che Latella abbia fatto un lavoro importante, portando in scena uno spettacolo che andrei a rivedere più volte anche a causa della difficoltà del sottotesto teatrale, dei suoi simboli, delle citazioni e dei momenti di riflessione sul teatro. La scenografia è in linea con ciò che Latella ha già fatto altre volte e Christian La Rosa è stato a dir poco eccezionale, mantenendo una carica continua. Gli si vedeva proprio colare il sudore in fronte pure dal fondo della sala. Apprezzabile in generale anche il lavoro degli altri attori, seppur nutro perplessità nei confronti di Anna Coppola (la Fata) che riusciva a spiccare più nelle scene collettive che in quelle in cui aveva monologhi e l’attenzione era concentrata su di lei.
Andreea Hutanu

Aperiscena

A qualche settimana dal nostro evento, cogliamo l’occasione per ringraziare tutti coloro che hanno partecipato,
coloro che sono venuti e si sono divertiti,
al Cafè della Caduta che ci ha ospitato,
e un forte ringraziamento anche ai Professori Armando Petrini e Federica Mazzocchi che sono i nostri pilastri!
Un grande Grazie e cogliamo l’occasione per augurarvi
BUONE FESTE!

La Redazione

C’era una volta Pinocchio

C’era una volta Carmelo Bene, poi Comencini e infine Latella. Antonio Latella e il suo Pinocchio, andato in scena dal 29/11 al 3/12 al Teatro Carignano, una produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa.
Ad accoglierci una scena completamente aperta, col fondo palco a vista e le casse in alto che fanno parte della scenografia, tipico di Latella. Oltre a questo, alcuni elementi che scopriremo più tardi l’utilizzo e un tavolo, sotto il quale si intravedono le gambe incrociate di un personaggio che mima con le mani tutto quello che succede prima di fare il suo ingresso in scena: il futuro Pinocchio, Christian La Rosa.
La storia la conosciamo tutti: il Burattino magico che diventa Bambino. Latella però  non ci mostra la versione che tutti da bambini abbiamo ascoltato. Piuttosto, lavora su Collodi e la sua vita, sulla perdita della sua bambina, sul dover far resuscitare Pinocchio per la stessa ragione capitata a Sir Arthur Conan Doyle con i suo Sherlock Holmes.
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UNA “SCANDALOSA GRANDEZZA”: A OTTANT’ANNI DALLA NASCITA DI CARMELO BENE

Mercoledì 13 Dicembre si è svolto presso Palazzo Nuovo un convegno dedicato alla controversa e singolare figura di Carmelo Bene, che proprio quest’anno avrebbe compiuto ottant’anni. Sembra quasi impossibile inquadrare completamente questo grande artista, che negli anni del suo lavoro ha sempre scatenato sentimenti e reazioni potenti, sia in negativo che in positivo. Scandali, ma un’innata genialità: già il titolo del convegno mette in evidenza la profonda contraddittorietà incarnata da Carmelo Bene, che per tutta la sua esistenza ha cercato di mostrare quanto ormai fosse impossibile parlare di attore tragico, mostrandolo apertamente al pubblico. Durante il convegno non si è parlato però solo dell’attore, ma anche del regista, del drammaturgo, del pensatore, del filosofo, dell’intellettuale, del letterato, che ha orbitato attorno al teatro, al cinema, alla televisione e alla radio, costruendo così una carriera che ha toccato molti aspetti dell’arte; nel corso del convegno infatti abbiamo ascoltato vari punti di vista di esperti del settore che hanno cercato di mettere a fuoco l’opera complessa di Carmelo Bene.

Dopo l’introduzione dell’organizzatore del convegno Armando Petrini, professore dell’Università di Torino, il primo a intervenire è stato Piergiorgio Giacchè, antropologo e autore della monografia Carmelo Bene: antropologia di una macchina attoriale. Innanzitutto Giacchè ha spiegato che lo scandalo provocato da Bene è dovuto principalmente a una sorta di “permalosità” del pubblico, che veniva direttamente provocato e soprattutto abbandonato, poiché assisteva a degli spettacoli creati appositamente per non essere compresi: siamo quindi di fronte a un uomo scandaloso sia dal punto di vista politico sociale che da quello dell’abbandono del teatro ufficiale, dove l’arte rompeva il senso comune e il rapporto con il pubblico. Giacché individua nella carriera di Carmelo Bene tre atti unici, tali per originalità e irripetibilità:

  • Separazione dal pubblico: si tratta di una scelta di solitudine, Bene si isolava usando soprattutto monologhi, distruggeva il tessuto drammatico evitando la prosa e usando il ritmo musicale, trasmettendo così l’impossibilità dell’azione teatrale. L’ironia era la chiave di questa separazione, che poteva irritare o attrarre il pubblico.
  • Sublimazione della voce: l’ironia si realizza separando il segno dal senso delle parole: in questo la voce è sublime. Tramite i risuonatori, che attraversano il corpo, sembra di stare in ascolto di se stessi e non della voce dell’attore; ogni frase detta sembra essere una domanda che diventa teatralmente reale. La sublimazione della voce fa sparire la conversazione, e questo eco ha sempre l’accento finale, come una musica in levare.
  • Sparizione della macchina attoriale: Come può l’attore sparire? Negandosi deve sparire l’identità, che non è altro che una imposizione sociale che annulla la vita. L’attore deve diventare inorganico, una macchina che possa innalzarsi sopra di esso.

Il secondo intervento è stato di Emiliano Morreale, docente di Cinema presso l’Università di Roma, che ha analizzato la figura cinematografica di Bene. Quest’ultimo affermava che il cinema non fosse mai esistito e per questo possiamo intuire che per lui la macchina da presa fosse in realtà uno strumento per accentuare ancora di più la separazione dal pubblico. Attraverso questo mezzo egli voleva complicare ancora di più la visione, il film è un dispositivo per l’accecamento attraverso l’eccesso di colori, oggetti e immagini. La negazione del cinema di Bene è poi un modo per interrogarsi sul cinema stesso, che forse è un’arte con delle potenzialità inespresse, che non ha mai raggiunto i suoi obbiettivi. Anche in questo caso Bene mostra l’impossibilità di fare cinema negandolo, realizzando quindi delle opere totalmente diverse da qualsiasi film lo avesse preceduto e sabotando una dopo l’altra tutte le potenzialità del cinema: distrugge la sceneggiatura, il montaggio diventa un momento di distruzione delle riprese e il doppiaggio la distruzione del montaggio; ogni atto della realizzazione del film è un’opera d’arte di distruzione pura.

Donatella Orecchia, anche lei docente presso l’Università di Roma, ci parla invece del Non – Attore che è stato Bene, riferendosi alla perdita dell’aura dell’attore che si confronta con il suo doppio grottesco che deride la tensione al tragico e ribalta parodicamente il senso di un teatro che non riesce a riconoscere la sua impossibilità. Bene studia le tecniche del Grande Attore per poi citarle ribaltandole completamente, ma studia anche con passione Ettore Petrolini, nel quale possiamo individuare un suo “predecessore” per l’idea della deformazione così esasperata che anela alla sparizione.

Dopo la pausa  ci accoglie Roberto Tessari, a lungo docente dell’Università di Torino, con un intervento dal taglio filosofico che analizza il romanzo e il film Nostra Signora dei Turchi, soprattutto per quanto riguarda l’accostamento della figura del santo e dell’attore. Tessari individua come elemento comune quello di eccedere tutte le norme, infrangere ogni limite per raggiungere uno stato di creatività simile all’estasi del Santo. L’attore è colui che la visione mistica non può o/e non vuole averla, mentre il Santo è chi riesce ad averla e ci crede fermamente. Questo rapporto tra attore e santo si basa sulla negazione dell’Io: oggettivarsi è l’obbiettivo comune, il Santo vive un’illusione di oggettivarsi in sé, di identificarsi in questo modo con Dio, mentre l’attore persegue l’eclissi del proprio Io tramite un’idiozia controllata.

Sergio Ariotti, studioso e critico, direttore del Festival delle Colline Torinesi, ci racconta invece in maniera aneddotica, e per questo affettuosa e divertente, il periodo della registrazione dell’Otello televisivo di Carmelo Bene nel ‘79, alla quale ha potuto assistere personalmente. Anche se questa azione rientrava in una prassi piuttosto consolidata in quegli anni, ovvero di riprendere uno spettacolo teatrale e registrarlo negli studi televisivi, lo scontro di Carmelo con il mezzo televisivo fu molto interessante. Bene non voleva adottare una tecnica di ripresa standard, le sue erano riprese estenuanti quasi come performance teatrali. Bene aveva un approccio innovativo che lo ha portato a diversi scontri con gli operatori e a difficoltà. Va però ricordato che chi ha vissuto queste riprese si trovava di fronte a un Genio che stava sconvolgendo e rivoluzionando questo tipo di lavoro con consapevolezza, poiché Carmelo Bene sapeva tutto anche degli aspetti più tecnici, faceva delle richieste chiare e specifiche e la sua fu quindi anche una grandissima lezione di tecnica televisiva su come superare ad esempio il guaio dei contrasti, dato che aspirava a una saturazione dei bianchi che sembrava impossibile ai registi. Purtroppo la messa in onda di questo Otello, nel 2000, non è riuscita a sottolineare lo sperimentalismo dato che il materiale nel frattempo era stato interamente digitalizzato; quella che si può vedere ad oggi non è altro che una rielaborazione dell’opera che ci dà solo il senso delle riprese: Bene non ci mise mai mano direttamente, il montaggio è infatti quello classico televisivo e possiamo dunque concludere che quasi sicuramente lui lo avrebbe fatto in maniera totalmente differente.

A conclusione di questa interessante giornata Franco Prono, docente di Cinema all’Università di Torino, ci parla di che cosa ha significato l’intervento di Carmelo Bene all’interno della televisione italiana, proiettando alcuni spezzoni di trasmissioni alle quali Bene partecipò come ospite. Quello che si può notare è che Bene si presta al gioco della trasmissione in cui si trova, ovviamente esprimendo il suo punto di vista, ma mantenendo nelle diverse occasioni il giusto profilo richiesto dallo spettacolo al quale era stato invitato. Nonostante quindi egli abbia più volte espresso un giudizio negativo sulle trasmissioni televisive e su chi le realizza, Bene secondo Prono si presta ad esse come un vero uomo di spettacolo, camaleontico leone da palcoscenico che sa adattarsi con intelligenza a tutte le situazioni: un’ulteriore contraddizione presente all’interno del grande, e scandaloso, Carmelo Bene.

A cura di Alice Del Mutolo

La densa nebbia pasoliniana arriva a Torino – Caffè della Caduta

Il 14 e il 15 dicembre scorsi al Teatro Della Caduta è stato messo in scena lo spettacolo La Nebbiosa, che Pier Paolo Pasolini scrisse come sceneggiatura cinematografica – pur non essendo mai stato trasposto in pellicola – e che LinguaggiCreativi ha trasformato in opera teatrale.

L’idea di far diventare La Nebbiosa uno spettacolo teatrale è di Paolo Trotti e Stefano Annoni, curato registicamente dal primo e con attori Diego Paul Galtieri e Stefano Annoni. Ha vinto il premio “Next – Laboratorio di idee per la produzione e distribuzione dello spettacolo dal vivo lombardo”, promosso dalla Regione Lombardia, ed è andato in scena al Teatro Franco Parenti di Milano per undici sere consecutive.

Lo spettacolo comincia in un nightclub milanese, si esibisce Miss Malafemmina (burlesque) incitata dal presentatore che poi ci narrerà la storia dei Teddy Boys, una banda di teppisti che danno sfogo alla loro violenza la sera di Capodanno a Milano. Il piccolo Cino, fratello di uno dei membri della banda formata da Rospo, Gimkana, Teppa, Elvis, Contessa e Mosè, ci racconta dal suo punto di vista le  avventure accadute quella sera. Il gruppo ruba dei gioielli che agghindavano la Madonna di una chiesa, picchiano e maltrattano un prete e una barbona, devastano una villa, rapiscono due donne borghesi con le quali si scatenano a mezza notte.

Il fratellino è affascinato dal modo di comportarsi di questo gruppo, vorrebbe farne parte anche lui e cerca di emularli, ma la differenza di età non gli permette di fare parte del loro mondo. Cino viene fortemente segnato dai gesti del gruppo, pur non essendo estremamente brutali, tanto che all’alba involontariamente sarà lui a portare la banda ad un punto di svolta. Avverrà una trasformazione e la loro trasgressione diventerà conformismo, avvicinandoli al mondo degli adulti che poche ore prima disprezzavano.

Al contempo c’è un’alternanza tra momenti recitativi e di descrizione degli avvenimenti, molti dei quali sono prettamente cinematografici, come se venisse letta effettivamente la sceneggiatura di Pasolini. Stefano Annoni narra mentre Diego Paul Galtieri ci accompagna con un ritmo rock ‘n’ roll suonato da una batteria ed entrambi recitano. In scena i due attori interpretano i vari personaggi, alternandoli freneticamente ma dando una caratterizzazione e un modo di fare personale per ciascuno di loro, rendendoli inconfondibili e mantenendo chiara la trama.
Come ci ha raccontato la compagnia, prima di lavorare personalmente sulla messa in scena del testo, hanno realizzato un workshop con non professionisti per testare il testo, che è stato tagliato e rimodellato. Durante questa esperienza i due attori hanno preso spunto dalle interpretazioni acerbe dei principianti e hanno così arricchito i personaggi da portare in scena.

Il testo contiene avvenimenti che si possono ricollegare ad Arancia Meccanica, trattando sempre di giovani ribelli, però Pasolini ci consegna una versione più soft, in cui comunque oltre al maltrattamento non c’è crudele violenza fisica. Per questo motivo la compagnia non ha neanche lontanamente pensato di creare un impianto scenografico che rimandi al film di Kubrick. Ha preferito mantenere una linea cinematografica usando un telo bianco, spesso durante lo spettacolo illuminato da dietro, facendoci vedere sagome retrostanti, e delle luci in scena poste accanto ad un microfono e ad una panca, che sollevano e spostano durante lo spettacolo. Quindi si può intuire quanto le luci siano importanti in questa messa in scena; assieme alla musica segmentano le vicende, aiutano a darci il senso di cambio d’ambientazione all’interno della Milano caotica, festaiola e nebbiosa.

La scelta da parte della compagnia di questo testo di Pasolini deriva dalla voglia di portare in scena un’opera che mostrasse il lato comico e d’azione dello scrittore. Pasolini scrisse delle canzoni di cabaret e lo spettacolo ne ha preso ispirazione, cercando di mostrare il lato leggero di Pasolini ma sempre critico, soprattutto verso la borghesia milanese. Inoltre il testo è rimasto ancora attuale e ha molti spunti di riflessione,contenuti che possono colpire un pubblico di diverse età.

Articolo scritto da Roberto Lentinello e Andreea Hutanu.

LA NEBBIOSA
Di Pier Paolo Pasolini
Adattamento Paolo Trotti e Stefano Annoni
Con Diego Paul Galtieri e Stefano Annoni
Scene e costumi Giada Gentile
Regia Paolo Trotti
Produzione Teatro Linguaggicreativi