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“IL PREDICATORE” E “POLVERE” AL TANGRAM TEATRO

Si  è concluso domenica 22 ottobre il concorso teatrale “Mal di palco 2017”  svoltosi presso il Tangram Teatro.

Il piccolo palcoscenico ha visto protagoniste le ultime due attrici finaliste : Sarah Nicolucci  con Il predicatore e Marzia Gallo con Polvere.

Sarah, 30 anni, attende il suo pubblico camminando avanti e indietro sul palcoscenico e marcando il passo sul pavimento, quasi come se avesse dovuto  da lì a poco “mangiare” lo spettatore, ed è quello che metaforicamente avviene.

L’attrice interpreta un ruolo molto distante dalla sua personalità. Qui è una predicatrice, che con fare a tratti virulento e a tratti seducente  evoca l’importanza di Dio già dalla tenera età. Il suo sottolineare questa importanza è un crescendo quasi diabolico, la sua intensità penetra nei cervelli delle persone più fragili, perché è lì che i predicatori possono creare il loro nido.

Il testo, propostole dall’autore Giacomo Sette, entusiasma subito Sarah che da sempre si definisce agnostica e vede questa opportunità come una grossa sfida per se stessa che vince straordinariamente e che porta con tutta la sua energia in scena: “Un testo del genere ha rappresentato per me la legge del contrappasso” dice sorridendo Sarah, che già da piccola nutriva forti dubbi concernenti l’esistenza di un Dio “Con  – Il predicatore-  ho esplorato alcuni aspetti da me sempre rinnegati.”

Ma quella che Sarah mette in scena è una sorta di degenerazione religiosa. Parla della fede evangelica, che gode nel mondo e in particolar modo negli Stati Uniti di un enorme potere, specialmente a livello politico, ed è da questi dati di fatto che l’attrice costruisce un personaggio simile ad un sergente delle SS nella postura e nell’intonazione.  Il  suo predicatore ha una  personalità forte che colpisce il cuore degli uomini come con una freccia e subito dopo li accarezza con un canto  simile a quello di una sirena, è dolce, culla le anime per poi esplodere in un urlo prolungato che viene pronunciato al microfono, per farlo penetrare acutamente nei corpi sgombri.  Insomma, un canto che provoca e che restituisce l’unica risposta in grado di stare in piedi : Dio.  Con queste oscillazioni la giovane attrice offre una performance degna di nota. Ogni muscolo in scena è contratto  mentre diffonde il suo messaggio e persino lo spettatore in ultima fila può scorgere le vene in ebollizione. Il predicatore ha svolto il suo compito decorosamente  ed esce di scena pronunciando due parole, forse non previste dallo spettacolo : “Sono stanca.”

Polvere di Marzia Gallo e Giacomo Segreto è uno spettacolo toccante che soffia sull’anima.  Il monologo è tratto dal romanzo di Beatrice Masini Se è una bambina e illustra la drammatica separazione tra una madre e sua figlia.

Marzia, con questo testo, torna indietro nel passato e rivive una seconda infanzia:” Ci sono degli elementi che mi legano a questa bambina, anche se abbiamo vissuto esperienze completamente diverse. Ci sono cose in cui mi sono riconosciuta ma a posteriori”. Così l’attrice racconta il lungo lavoro dedicato alla creazione di questo personaggio  semplice ma con un’anima articolata, l’anima di chi ha sofferto e cerca di non pesare questa sofferenza.

Lo spettacolo vede pochi oggetti di scena che vengono riutilizzati più volte.  Al centro, in proscenio, un mucchio di gessetti rotti sottotitolano la scena : la polvere che creano è molto simile alla polvere che quel maledetto giorno ha portato via la madre alla bambina, un boato, mura che crollano e crolla anche la l’interiorità stabile della piccola che da quel giorno si ritroverà con un vuoto irreparabile.

Tra il pubblico, molti sono gli occhi lucidi, alcuni timidamente cercano di soffiarsi il naso senza rompere quella magica energia che fluttuava tra una sedia e l’altra.  A commuovere è sicuramente il testo ricco di drammatica verità, ma è anche la capacità di Marzia di tenere i presenti con il fiato sospeso. Lei, con l’aria di una vera bambina, a tratti vivace e a tratti malinconica è riuscita con la sua trasparenza ad emozionarsi e emozionare : “ Questo è uno spettacolo dove abbiamo messo il cuore, cercavamo una storia semplice e universale che arrivasse all’anima”.

E con questa spontanea dolcezza l’attrice ha regalato alla platea una sensazione morbida ma allo stesso tempo profonda, ci ha raccontato una storia, la storia che da tempo sognava di portare sul palcoscenico, e l’ha fatto con una naturalezza coinvolgente.

 

Fiorella Carpino

Masculu e fìammina

Inverno, piccolo paese calabro: Peppino va a fare visita alla tomba della madre in un freddo giorno di neve. Si scusa per essere in ritardo, ma una delle tante comari del paese lo ha trattenuto con le solite chiacchiere. Si mette a pulire dolcemente l’immagine della vecchina che non c’è più, mentre le chiede come vanno le cose lassù in cielo. Ma è veramente azzurro come si vede dalla terra, o una volta saliti là sopra cambia colore? E Gesù Cristo e la Madonna, come sono in realtà? Ed è vero quello che si dice sulla famosa porta del Paradiso, dove una volta arrivati ci si trova davanti San Pietro con le sue chiavi e la lista degli ammessi? “Tu sì. Tu no. Tu aspetta un attimo”. Poi comincia a raccontarle di quello che succede in paese. Chiacchiera spensierato come si fa davanti a un amico che non si vede da tempo, chiacchiera e sorride di tutte quelle piccole cose che sono sempre le stesse. Sembra tranquillo e sereno, ma il suo racconto si fa sempre più incerto, sempre più scarno, come se qualcos’altro riempisse i suoi pensieri. Non dobbiamo aspettare molto. Scopriamo quasi subito cosa lo tormenta da tutta una vita, quel segreto che si porta dentro da sempre e che ora è pronto a confessare: è questa la vera ragione che lo ha portato a far visita alla madre, poterle finalmente dire ciò che non aveva avuto il coraggio di dirle quando era ancora in vita. Peppino è omosessuale, come dice lui “nu masculu ch’i piacciono i masculi”, “o masculu e fìammina” come diceva la mamma. Ma quella definizione non è mai piaciuta a Peppino. “Nu masculu ch’i piacciono i masculi” è un maschio a cui piacciono i maschi, ma sempre maschio rimane, di femmina non c’è proprio niente. Non gli piace nessuna delle tante parole che si utilizzano per definire chi è come lui, in particolare la parola diverso. “Diverso da chi?” si domanda. “Perché non siamo tutti diversi l’uno dall’altro?” Peppino rivela così a sua madre il grande peso che si porta dentro da sempre, fin da quando era solo un bambino e guardava incantato il ragazzo biondo suo vicino di ombrellone mentre giocava sulla spiaggia, d’estate, o quando ammirava di nascosto le gambe dei suoi compagni di scuola durante l’ora di educazione fisica. Non erano le ragazze o le maestre a fargli nascere della fantasie, ma i suoi compagni di scuola. Pensando a loro si toccava nei momenti di intimità, e poi si guardava allo specchio, disperato e pieno di vergogna, confessando a se stesso: “sono un ricchione”. Quella era la parola più gettonata dai suoi compaesani per definire gli omosessuali. All’epoca, quando era un ragazzino, ricorda Peppino, di omosessuale dichiarato ce n’era solo uno, e ogni volta che usciva per strada era sempre accompagnato dal solito coro che riecheggiava in tutto il paese: “Ricchiù! Ricchiù!”. A ogni incrocio di ogni via, per cinquecento metri e più, a ogni singolo incrocio il gruppo lo aspettava e intonava un “Ricchiù! Ricchiù!” come se fosse una specie di Rosario: per ogni grano, si recitava un “Ricchiù!”. Sono ricordi accompagnati da sorrisi amari quelli che Peppino condivide con la foto sorridente e silenziosa della madre, una madre che non aveva mai chiesto niente, non aveva mai accennato alla questione, ma che sapeva, che probabilmente aveva intuito tutto del figlio. E il figlio sapeva che la madre era a conoscenza della sua situazione. Quella donna non aveva mai fatto una domanda al riguardo, ma lo aveva silenziosamente rispettato per tutto il corso della sua vita. E non è una questione di istruzione, è rispetto, dice Peppino, perché la madre lo aveva rispettato e per farlo le era bastata la terza elementare. Per questo Peppino la ringrazia, per quel rispetto intimo e profondo che gli aveva sempre riservato, quella madre che durante un Natale, quando davanti alla tavola imbandita il figlio se ne stava in silenzio e non toccava cibo, si chiedeva chi era quel “cornuto” che lo riduceva così.

Masculu e Fìammina, con Saverio La Ruina. Foto ©Masiar Pasquali

Tante sono le persone e i momenti che hanno fatto parte della sua vita e che ora vivono nei suoi ricordi, molti di questi collegati tra loro da un sottile filo rosso: la perdita di un amore. La perdita della madre, che vive proprio davanti ai nostri occhi. La perdita di Angelo, il suo primo grande amore, “Angelo di nome e di fatto” come ricorda Peppino, il primo ragazzo che gli aveva fatto pensare che due uomini potessero veramente stare insieme. Ma la verità, gli diceva Angelo, è che due uomini che stanno insieme sono e saranno sempre due ricchioni. La perdita di Alfredo, incontrato in gioventù nella fantastica Riccione. Alfredo che aveva amato intensamente e che aveva perso in un modo così doloroso e insensato da non sembrare quasi possibile, ucciso da una specie di spedizione punitiva contro chi, come loro, viveva un amore proibito, diverso. Un piccolo spiraglio di luce illumina la sua triste storia quando riceve una telefonata da parte della sorella di Alfredo, che lo invita a far visita a lei a alla sua famiglia a Treviso. Peppino viene accolto con calore dai famigliari dell’uomo che ha amato e perso, ma quando, tornato in Calabria, spedisce loro una lettera raccontando la storia d’amore che avevano condiviso, vede sparire anche quella famiglia che sembrava aver capito e accettato.

Il Peppino di Saverio La Ruina è un uomo semplice, modesto, molto gradevole e pacato. I suoi ricordi, frutto di una vita costellata di piccole e grandi battaglie private e non, si trasformano in storie leggere, ricche di una nostalgia delicata, la nostalgia delle cose belle che non ci sono più, la nostalgia di ciò che poteva essere e che non è stato. Le sue parole sono cariche di un peso importante che però percepiamo come lieve e delicato, perché sono parole che non colpiscono duramente, ma che accarezzano chi ascolta. Sono parole gentili ed eleganti, caratterizzate da un’inflessione dialettale che ci trasporta in una terra così bella e piena di contraddizioni, una terra del sud alla quale Peppino è molto affezionato ma che descrive con grande amarezza. Amara è anche la consapevolezza di quest’uomo, una consapevolezza che sfiora la rassegnazione. Arrivato a questo punto della sua vita, dice di non trovarsi poi così male a stare da solo. Qualche vicino pensa che sia single, altri che sia vedovo, alcuni dichiarano addirittura di aver visto sua moglie. Peppino sorride quando racconta di queste persone che costruiscono attorno alla sua figura ogni sorta di situazione possibile, spinti dall’irrefrenabile impulso di collocarlo in una qualche categoria umana. Se va bene a loro, allora va bene anche lui.

Un racconto commovente, a tratti molto ironico, spensierato e colorato, a tratti silenzioso, sofferto, fatto di violenze subite e taciute e di una profonda solitudine. Una racconto che finisce nel modo più dolce possibile: Peppino, seduto accanto alla tomba della madre, scrive su un vecchio scontrino trovato in tasca: “Svegliatemi in un mondo più gentile”. E mentre gioca con la neve con un sorriso quasi infantile, noi lo vediamo scivolare nel buio che cala in sala, e ci auguriamo la stessa cosa per quest’uomo che ci ha raccontato una vita intera, ma anche per noi.

Eleonora Monticone

Masculu e fìammina

di e con Saverio La Ruina

musiche originali Gianfranco De Franco
collaborazione alla regia Cecilia Foti
scene Cristina Ipsaro e Riccardo De Leo
disegno luci Dario De Luca e Mario Giordano
audio e luci Mario Giordano
organizzazione Settimio Pisano

Spettacolo realizzato in collaborazione con la Fondazione Piemonte dal Vivo

Tangram Teatro, MaldiPalco 2017

Il Cantico dei Cantici di Virgilio Sieni

Attribuito a Salomone, terzo re d’Israele, il Cantico dei cantici è un testo biblico suddiviso in otto capitoli che ragiona sulle tematiche amorose offrendosi a numerose possibilità interpretative. In tale gioco esegetico si è recentemente cimentato Virgilio Sieni, coreografo di punta della danza contemporanea italiana, ispiratosi al cantico per una delle ultime produzioni della sua compagnia. Lo abbiamo visto all’Auditorium Melotti, all’interno del complesso architettonico che ospita il Mart, a Rovereto, dove la solenne modernità progettistica di Mario Botta entra in dialettica con il silenzio primitivo evocato dalla coreografia di Sieni. Il celebre autore fiorentino, infatti, sembra aver conservato del testo sacro gli aspetti morali più alti, in una lettura dei valori di ascolto e di comunione mai trattata in modo esageratamente astratto. Umano e umanesimo si confrontano tra palcoscenico e teoria della danza.

Lo spettacolo colpisce per l’indiscutibile livello di qualità al quale la Compagnia Virgilio Sieni può permettersi di operare. La scenografia è scarna ma efficace: un grande disco dorato, appositamente realizzato da artigiani toscani, fa da tappeto ai sei danzatori, vestiti di soli pantaloni grigio-azzurri, calzatura francescana, il torso è nudo. La musica, eseguita dal vivo dall’autore (il contrabbassista Daniele Roccato, già punto di forza di molti spettacoli del coreografo fiorentino) è minimale ma estremamente presente. Austera, perpetua, sembra dialogare in tempo reale con gli interpreti della compagnia. Le luci creano uno spazio d’azione tanto devozionale quanto maestoso, in un’atmosfera ieratica dove si fondono l’aurora e il crepuscolo. È soprattutto nella qualità del movimento però, che la firma di Sieni si distingue maggiormente e si conferma come suo tratto più caratteristico: uno stile asciutto, quasi freddo, dove niente è lasciato al caso. La scrittura coreografica è rapida e lineare, fatta di gesti, ancora prima che di danza, che si susseguono fluidi, precisi, articolati, mai barocchi. Le masse muscolari si fanno leggere, sospese in una differente gravità, accogliendo nel proprio territorio il corpo dell’altro senza apparentemente mutare stato. Un’estetica impeccabile che, mentre attinge dall’iconografia pittorica medievale, ridisegna quella della danza contemporanea all’italiana.

Il finale lascia un boato nello spettatore il quale, se anche non coglie appieno i possibili riferimenti citazionisti e non possiede i corretti strumenti interpretativi relativi alla danza, dimentica la necessità di tale comprensione per una buona ora di coinvolgimento artistico, dove la sensualità diventa percepibile dall’intelletto. Spiace la mancanza di pubblico e l’apparente distacco di quest’ultimo, forse abituato ad una lettura critica che se funziona con l’arte museale non è detto che si possa adottare anche con quella orchestica.

Coerente con una poetica della povertà, del cenobitico e del sacrale, il Cantico dei cantici si fa portavoce di un “manifesto religioso” più che politico, reso linguisticamente democratico da una sintassi fatta di rinunce e cedevolezze motorie, scritta sul e col corpo. Una poetica che Sieni percorre da anni attraverso i diversi orizzonti produttivi: dai lavori per la Compagnia Virgilio Sieni a quelli per le comunità, dai “cammini popolari” ai soli, all’improvvisazione coreografica.

L’opera manifesta la sua «confluenza di poemi mesopotamici», stando alle parole di Sieni, dove «si odora di origine». Essa rievoca per sussurri e sensazioni quella mezzaluna fertile, culla dell’umanità e della sacralità. Tra Babilonia e Gerusalemme la danza di Sieni graffia la tradizione religiosa proprio a partire dalla rievocazione fedele di quella stessa tradizione che, democraticamente, va ad infrangere. Una tale definitiva, consapevole e rispettosa rottura si rivela forse l’unica via di riappropriazione cultuale in un’epoca connotata da forti sentimenti irreligiosi ed irreparabili lacerazioni tra contemporaneità e consapevolezza storica.

Tobia Rossetti

Un’introduzione alla danza contemporanea – Introdans fra van Manen, Childs, Kylián e Duato

Fonderie Limone di Moncalieri gremite per la sesta serata di Torino Danza. È olandese la storica compagnia Introdans che per l’occasione presenta quattro spettacoli del suo repertorio, creati da alcuni tra i più celebri coreografi viventi, ben distribuiti sul territorio europeo e non: Hans van Manen, Lucinda Childs, Jiří Kylián e Nacho Duato, provenienti, nell’ordine, da Olanda, Stati Uniti, Repubblica Ceca e Spagna. La ricca proposta si dimostra una degna introduzione alla danza contemporanea, come vuole il nome della compagnia, fondata negli anni Settanta con l’arduo intento di diffondere l’arte tersicorea nei Paesi Bassi ad un pubblico il più vasto possibile. Nella serata torinese infatti, Introdans porta in scena una fetta della più grande coreografia degli ultimi vent’anni del Novecento, eccezion fatta per il pezzo di Lucinda Childs che la celebre artista newyorchese ha creato solo due anni fa appositamente per la Introdans, ma che esteticamente e ideologicamente si integra alla perfezione con le altre tre proposte del programma.

Ad aprire la scena è Polish Pieces, un variopinto ed eccentrico balletto di Hans van Manen scritto su musica di Górecki nel 1995. Una dozzina di danzatori vestiti di lycra dai colori sgargianti ed una coreografia dinamica ed esuberante: queste le connotate di uno spettacolo astratto, nel senso proprio dell’astrattismo pittorico cui sembra farsi portavoce, e che ha i toni di un cartone animato ma il ritmo di una competizione sportiva. Forme bellissime si fanno e si disfano attraverso l’anatomia dei corpi perfettamente disegnata dai costumi attillati e non vogliono aggiungere altro al piacere della geometria e al divertimento dei colori.

Decisamente più contemporary nell’estetica (ma forse non nell’intenzione) è il secondo pezzo, Canto Ostinato, che Lucinda Childs ha recentemente ideato sulla omonima composizione del musicista olandese Simenon ten Holt. I giochi di luce che formano la scenografia sono costituiti da linee luminose che si incrociano parallele sul fondale. I danzatori, vestiti in bianco, si dichiarano più neutri rispetto alla gaiezza cromatica del brano precedente. La coreografia, fatta di simmetrie ripetitive ed ossessive, ammicca a certo minimalismo compositivo tutto americano, ribadendo la provenienza della coreografa. Al di là di queste suggestioni, che analizzate singolarmente sembrerebbero prese in prestito dalla danza contemporanea, lo stile coreografico è tuttavia insolitamente rigoroso, quasi accademico, potremmo dire moderno. I quattro ballerini, due uomini e due donne, si muovono all’interno di una costruzione modulare effettivamente ostinata, come da titolo, che si spegne in una leggera dissolvenza finale.

Più dichiaratamente drammatico è il Kylián del terzo balletto, Songs of a Wayfarer, che l’autore compone ispirato dai toni solenni dei Lieder di Mahler nel 1982 per il Nederlands Dans Theater. Cinque struggenti passi a due si incrociano in un ambiente agreste, oscuro e bucolico, dove lo stile coreutico raggiunge i picchi più lirici (ricordiamo che la coreografia è anche la più anziana fra le quattro proposte) ed esalta romanticamente i caratteri della coppia uomo-donna.

Chiude la serata Nacho Duato con il quarto ed ultimo pezzo, Rassemblement, il più lungo in durata ed il più ricco di contenuti drammaturgici. Un alto numero di ballerini racconta la storia dello schiavismo africano tout court evocando suggestioni che parlano di terre lontane. Immaginifico ed esotico, questo balletto del 1990 coniuga la cultura occidentale con quella dell’Africa attraverso alcuni escamotage visivi e contenutistici che, se oggi si rivelano facili cliché, negli anni Novanta erano ancora semanticamente innovativi (il danzatore di colore didascalicamente frustato da due guardie, i canti rituali intonati in una lingua a noi sconosciuta, i richiami coreografici a danze, movenze e gestualità marcatamente africane ecc.). Un inno a quel territorio di comunione culturale in cui comunità diverse possano incontrarsi, che commuove a tal punto la platea da far passare quasi inosservata la timida caduta di una danzatrice. Lo spettacolo di Duato è quello abitato dal ritmo più serrato e coinvolgente: le sequenze più evocative e toccanti si trovano qui e si scoprono alla fine della serata, cogliendo sapientemente il pubblico di sorpresa. Gli applausi sono fragorosi e partecipati.

In quasi mezzo secolo la Introdans, oggi diretta da Roel Voorintholt, dimostra di aver rispettato il suo obiettivo, riuscendo a diffondere su larga scala la danza di alto livello, veicolandone in modo efficace e riconoscente i significati. Un’introduzione alla danza contemporanea che presenta quattro spettacoli appartenenti a quello stile e quel particolare contesto produttivo precedente il sistema contemporaneo e che anticipa e apre la strada alla danza di oggi, definibile contemporanea in senso più stretto. Un invito alla comprensione di ciò che è adesso la coreografia, che di essa omaggia la grandezza e la coralità, attraverso una compagnia di alto calibro, e un repertorio che, preso per singoli frammenti drammaturgici, a tratti ancora incanta come fuori dal tempo. Tre classici e una novità, già anch’essa a suo modo classica, che convincono della riscoperta dei valori coreografici, di contro a certo già démodé concettualismo coreico. Un’introduzione alla danza europea (e non) che Torino può andar fiera di ospitare e diffondere, oggi, in Italia e che non a caso il pubblico ha dimostrato di apprezzare calorosamente.

«Il futuro è costruire su quanto di buono è stato fatto nel passato. Ci vedo un compito per i media, ma anche per i governi» dice Hans van Manen provocando le nuove generazioni di intellettuali, ancor prima che di danzatori, a farsi adeguatamente carico del passato, delle tradizioni e dei valori che la danza ha veicolato. L’invito, esplicitamente rivolto al vecchio continente, è, in questo momento storico, quello di saper leggere ed integrare i vecchi valori e, a partire da questi, fondarne di nuovi. Senza illudersi di poter applicare i paradigmi contemporanei alla storia del passato. Per farsi protagonisti del proprio tempo e non soltanto spettatori.

 

 

 

 

Tobia Rossetti

Stanze/Qolalka: siamo diversi?

Martedì 20 giugno, in occasione del Festival delle Colline Torinesi, va in scena alle Fonderie Limone lo spettacolo diretto da Massimiliano e Gianluca De Serio Stanze/Qolalka.

Lo ammetto: quando sono entrato in teatro e ho visto due leggii senza alcuna scenografia se non un paio di sedie, un cassone e due teli bianchi ho avuto paura. Temevo di risentire la classica storia sul quanto siamo cattivi e poco accoglienti noi occidentali nei confronti dei fratelli africani in un’accozzaglia di letture e video utili solo all’autocelebrazione di un’idea.

E invece? Invece i Fratelli De Serio hanno dato vitae spazio a storie forti e coinvolgenti raccontate da due immigrati e ora mediatori 

culturali di nome Abdullahi e Suad che, pur non essendo attori, hanno portato in scena ciò che molti grandi professionisti (o presunti tali) italiani non riescono a trasmettere: la verità.

Sì, perché Abdul e Suad sono anche autori dello spettacolo e, per poco più di un’ora, hanno raccontato cosa è realmente la Somalia e di cosa tratta la loro cultura: tra poesia, religione, guerre, morti e un’instabilità politica tristemente nota a molti paesi africani.

La messinscena, come ho già accennato ironicamente, è essenziale: è evidente come in questo spettacolo giochi un ruolo da protagonista l’uso sapiente delle retroproiezioni dei Fratelli De Serio, non a caso – ottimi – registi cinematografici. I teli bianchi sono infatti mobili e vengono spostati dai due attori per creare delle stanze ogni volta differenti, arricchite da immagini, parole e sottotitoli, in un’alternanza di idiomi tra somalo e italiano, i quali finiscono per fondersi in un’unica lingua nella parte iniziale dello spettacolo, in cui le parole italiane vengono simpaticamente ”somalizzate” (ad esempio ”insalata” diviene ”ihynsalatah”) per aiutare il pubblico a prendere confidenza con una lingua, così come una cultura, apparentemente tanto diversa dalla nostra.

La domanda che ci si pone è: siamo veramente tanto diversi? La risposta non è importante, siamo esseri umani entrambi. Ma è innegabile che vi siano delle disuguaglianze tra il popolo italiano e quello somalo: ciò che salta immediatamente agli occhi è l’intensità dell’aspetto religioso. Questo è infatti molto presente nelle vite dei somali che continuamente durante lo spettacolo si rivolgono a Dio.

Inevitabile una riflessione sul testo, seppur buono, della rappresentazione: non c’è stata la volontà di spingersi ancora più in là di quanto si sia fatto per muovere delle accuse e portare delle testimonianze su quello che per la Somalia era ed è un vero e proprio ”cancro” che la divora dall’interno: lo jihadismo. Ho avvertito una necessità di dover mostrare solo il lato buono della cultura somala (cosa peraltro legittima) senza volersi mai addentrare nei fantasmi che hanno costretto centinaia di migliaia di persone a scappare per cercare un posto in cui vivere in sicurezza, lontani dalle bombe e dalla violenza gratuita delle minoranze belligeranti.

Esclusi Suad e Abdullahi, tutti gli attori siedono tra il pubblico e il senso di insieme tra platea e palco è palpabile, vista anche la scelta di luci che potrebbe risultare poco rischiosa ma anche funzionale allo spettacolo: il palco è sempre molto illuminato con un piazzato e, questa scelta, aiuta la distruzione della quarta parete come voluto anche per gli attori, i quali si rivolgono direttamente al pubblico e non recitano: raccontano.

I rimandi e le critiche al fascismo sono moltissimi. Un momento di fortissimo impatto emotivo è stata la stanza (o scena che dir si voglia) in cui si ricorda dei saccheggi e delle violenze perpetuati dagli italiani ai danni del popolo somalo negli anni del colonialismo. Quest’ultima mi è parsa una fondamentale chiave di lettura dello spettacolo: chi siamo noi per giudicare chi fugge da una guerra? Chi siamo noi per ostacolare chi cerca una terra diversa da quella che hanno calpestato per la prima volta? Dov’è finita la nostra umanità? La realtà è che una parte importante del nostro paese è composta da persone egoiste e attente a cercare un capro espiatorio che permetta loro di vivere felice. E’ stata quindi ottima la scelta degli autori e dei fratelli De Serio di sbattere in faccia la realtà a chi era in platea, di dire chiaramente le cose come stanno: ci lamentiamo di chi non ha niente e cerca qualcosa da noi ma, noi, che qualcosa lo avevamo, da loro ci siamo andati comunque. E il nostro aiuto non era richiesto.

Lo spettacolo si divide in tre momenti fortemente emozionanti: il racconto di un ragazzo somalo che, tramite un video, descrive la terrificante violazione dei diritti umani subita in un carcere libico; la testimonianza di una mamma come Suad dell’uso della poesia, la quale è fortemente presente nella cultura somala; il racconto di Abdullahi sul perché ha scelto di mettersi su un barcone e rischiare la vita e su quali sono i passaggi, le esperienze, i rischi concreti di chi sceglie di intraprendere questo pericolosissimo viaggio.

Molto interessante l’uso della tecnologia in tutto lo spettacolo, specialmente se abbinata alla tradizione somala: una volta le poesie (che, come già descritto, sono parte integrante della loro cultura) venivano tramandate oralmente, mentre ora i principali canali di diffusione sono Whatsapp, Viber, Facebook e Youtube. Questi ultimi, come testimonia Abdullahi, sono anche fondamentali nell’aiuto all’integrazione dei nuovi arrivati, i quali possono mettersi in contatto prima della partenza con chi ha già subito il calvario che li aspetta.

Abdullahi, infatti, racconta di come l’occidente sia visto come una terra promessa dai profughi africani ma, per una persona come lui che ce l’ha fatta, altre cento non riescono ad integrarsi e a trovare un motivo per vivere.

La colpa? Questo non ci è dato saperlo. Stanze/Qolalka è una straordinaria fonte di riflessione su quello che vuol dire integrarsi e sul come spiegare una cultura in modo fresco e a tratti brillante, oltre che emotivo e drammatico. L’auspicio è che la ricerca dei fratelli De Serio non si fermi qui e che si porti avanti questo progetto anche su altre culture apparentemente, e forse effettivamente, tanto lontane dalle  nostre.

Luca Vincent Pecora

Roméo et Juliette – Angelin Preljocaj

Prima serata per TorinoDanza 2017 che, in collaborazione con La Francia in Scena, offre al suo pubblico un classico della danza contemporanea, inserito in MITO SettembreMusica. Angelin Preljocaj, francese di origini albanesi, è infatti uno dei piú affermati nomi della danza d’autore ascrivibile alla macroetichetta del neoclassico. Quello che porta in scena, sul palco del celebre festival torinese, è il suo storico balletto Roméo et Juliette, datato 1990, che reinterpreta in chiave moderna il classico shakespeariano, già molto ambito dai coreografi dopo che nel 1935 Prokof’ev ne scrisse un adattamento musicale per balletto.

Si entra nella sala del Teatro Regio a sipario già alzato, suoni bassi e solenni accolgono lo spettatore che si accomoda fra i tanti sedili, ancora distratto nei convenevoli. Fin dalle prime scene quella del franco-albanese si presenta come una versione dinamica e spettacolare che fonde il dramma dei due amanti al contesto sociale est-europeo degli anni ’80, ancor più sul piano estetico che su quello drammaturgico. Scenografie imponenti e futuristiche riproducono un grande muro, che a prima vista separerebbe due mondi opposti, con al centro una grande e totemica torretta di controllo da cui si dipana una passerella sospesa che successivamente scopriremo predisposta alla ronda notturna di una sentinella e del suo pastore tedesco. L’architettura fa da cornice ad uno spettacolo fantascientifico-distopico, se questo genere si puó applicare ad un lavoro di danza, il cui carattere fortemente cinematografico lo rende un kolossal coreutico, esplicitamente atto ad intrattenere positivamente un grande pubblico di massa, e non per forza di esperti. Passionale ed appassionato, Preljocaj pone due mondi a confronto: la milizia incaricata di assicurare l’ordine al di qua del muro (i Capuleti), contro i senzatetto rivoluzionari che vivono fuori dalla barriera, ma che di tanto in tanto riesco ad intrufolarvisi (i Montecchi).

Un divertissement pop, formalmente sospeso tra accademismi e rappresentazione di genere, esteticamente oscillante tra il Terry Gilliam di Brazil e i migliori videoclip musicali dell’epoca, in una retorica profondamente anni ’90, tanto ambigua quanto dissacrante.

TorinoDanza apre la stagione guardando al passato, con un degno spettacolo di evasione, a tratti ancora d’impatto, ad altri già stucchevole: ad emozionare sono le intramontabili sequenze corali, robuste ed incalzanti, supportate dalle potenti musiche del compositore russo; a distrarre invece, forse per eccessiva enfasi didascalica, i passi a due, recitati piú che danzati, con certa marcata impostazione tutta accademica. La suspense e le sfumature da thriller, qualità affatto scontate per un balletto, e che questo Romeo e Giulietta possiede, sembrano assopirsi proprio alla fine, quando fra i consueti ammazzamenti amorosi il pubblico non sa se applaudire o se rimanere in attesa.

Si conferma tuttavia una storia splendida, degna dei più alti ed astorici connotati narrativi, ma altrettanto integrata nel contraddittorio contesto sociale (e artistico) dell’Europa dell’Est dell’ultimo ventennio del XX secolo. Forse non poi così diverso, per coloro che volessero amarsi al di là delle dinamiche politiche, da quello delle importanti famiglie del Cinquecento italiano. Il tutto, ovviamente, raccontato con la capacità unica di trascendere e ridefinire i linguaggi della favola, propria della danza, che se a tratti banalizza la drammaturgia, ne accentua poi enormemente il carattere barocco, onirico e fiabesco.

Spettacolo senza dubbio retorico, ma di una retorica che a conti fatti regge bene il confronto con i suoi ventisette anni.

Tobia Rossetti

 

 

Pedigree: l’odore del biologico

Pedigree è l’ultima produzione teatrale di Babilonia Teatri, scritta da Enrico Castellano e Valeria Raimondi , in programma al Festival delle Colline Torinesi.

Lo spettacolo guarda la questione della genitorialità omosessuale raccontata dal figlio di due madri ( mamma Marta e mamma Perla), nato biologicamente da un padre donatore.

Si spengono le luci della sala del teatro Astra, rimane solo una tenue luce rossa proveniente dal palco. Questa luce si fa più netta mentre lentamente si alza il volume di Love me tender di Elvis, mentre iniziano a definirsi i contorni della scena.

 Un giovane uomo è seduto su una poltrona stile side-car Harley-Davidson. Dalle sacche laterali borchiate della “poltrona-moto” l’attore estrae quattro polli, uno alla volta; dopo averli baciati come se stesse compiendo un rituale, li infilza con cura in uno spiedo di un  girarrosto elettrico, e li mette a cucinare per la durata esatta dello spettacolo.

Il giovane, interpretato da Enrico Castellano, da quella poltrona ripercorre il suo trascorso, la sua infanzia, in un monologo dal tono accusatorio, e con lo sguardo fisso  rivolto alla platea. Si sfoga finalmente, di qualcosa rimasto irrisolto per tanti anni; si rivolge a un vecchio compagno di scuola delle elementari, Denis, a proposito del quale conserva forse l’unico ricordo di quegli anni. Denis è rimasto impresso nella sua memoria per un episodio svoltosi durante l’esecuzione di un compito a casa, un problema di aritmetica; il protagonista del problema si chiamava anche lui Denis e aveva cinque fratelli esattamente come il suo compagno, una mamma e un papà. Il problema poneva questo interrogativo: “se il papà di Denis torna a  casa per cena con quattro polli, quanti polli mangerà ogni componente della famiglia?” Tante le coincidenze tra il Denis del problema e il compagno del nostro giovane; ma non erano state queste a distrarre Denis dallo svolgimento del compito a casa.  Bensì una domanda che ingenuamente il compagno gli rivolse: “Ma tu perché non hai un papà, e hai due mamme?” Il ricordo dà il via a una lunga riflessione, che parte dal mito raccontato da Aristofane sugli ermafroditi, al quale il giovane si riferisce per cercare di spiegare che “mamma e papà”  è solo una delle possibili varianti, non l’unica. Denis da quel momento diventa l’espressione della società, che mette in crisi il perfetto – per il protagonista- nucleo familiare composto dal figlio e dalle due mamme. Con grande cura di dettagli parla delle prime esperienze sensoriali di un essere vivente, di quando ancora non conosce niente della vita e non ha ancora imparato niente. Solo certi odori, certe voci, poco per volta, iniziano a diventare familiari. Pel lui, questi odori, queste voci, sono quelli delle sue due mamme, mamma Marta e mamma Perla. Due mamme candide, benevole, materne, che vengono celebrate nel momento più magico della rappresentazione: una danza scandita dalle note di Can’t Help Folling in love with you di Elvis, danzata dal giovane Enrico con gli abiti da sposa delle due mamme che dondolano dal soffitto,  e che evocano le figure delle due donne. Una danza dolce e leggera, che tocca il cuore, ma che termina brutalmente mentre Il giovane conserva i vestiti mettendoli sottovuoto con l’aspirapolvere.

Prosegue la riflessione arrabbiata del giovane in un fluido susseguirsi di eventi che mettono in luce le incertezze, i dubbi,  le difficoltà a convivere con la parola “biologico”, unico aggettivo al quale riesce a ricondurre la figura del padre che non ha mai incontrato, una parola che per lui è diventata un incubo e che porta un significato sempre più artificiale e opprimente. Rivolgendosi al padre ammette che per lui “padre” è sempre stata una parola su cui tracciare una linea di penna e sopra la quale scrivere “mamma”; ammette prima il desiderio di voler abbracciare  suo padre e di conoscerne l’odore, e poco dopo lo supplica di poter vivere ignorando la sua figura. La ricerca del padre è quindi fortemente combattuta e complicata, un’ossessione che porta il giovane poi a diventare un donatore lui stesso, ma senza consentire al figlio – dopo i diciotto anni – di poterlo conoscere. Restando anonimo non darà dunque la possibilità che lui stesso ha ricevuto di poter conoscere i suoi “fratelli di sperma” sparsi per il mondo, nati da madri diverse ma dallo stesso padre donatore. Lui ne ha ben cinque, esattamente come Denis, il protagonista del vecchio problema: Chan di Pechino, Ben di Sidney, Conchita di Madrid, Jack di New York e Francois di Parigi, e poi c’è lui, di Roma. Sono tutti sparsi per il mondo ed è ormai da cinque anni che, attraverso il gruppo di WhatsApp di cui lui è amministratore, riesce ad incontrare i suoi fratelli per festeggiare il Natale. Quest’anno tocca a lui e tra non molto i suoi fratelli arriveranno a Roma, per trascorrere il Natale tutti insieme, e questa volta anche con mamma Marta e mamma Perla. È un momento molto importante, da sei mesi pensa al menù che avrebbe preparato per loro. Dunque si ritorna all’elemento scenico che per primo si era presentato: il girarrosto con i quattro polli in cottura, i polli di Denis,  che a questo punto sono cotti al punto giusto. Dunque la rappresentazione arriva al culmine con il giovane ragazzo che, accompagnato dalla colonna sonora di White Christmas cantata da Elvis,  stacca una coscia di pollo e se la magia tranquillamente.

Babilonia Teatri mette in scena un tema molto delicato, volendo mostrare quanto sia presuntuoso e riduttivo marcare delle linee o dei confini. Partendo dal tema dell’identità viene tracciata una storia possibile nella realtà, portata alle estreme conseguenze. “Io non sono un essere binario” ripete affannosamente il giovane ragazzo, “voglio i forse, i ma, le minoranze, le opinioni divergenti, le sfumature, le differenze, i colori”. Questo perché riguardo a svariati temi spesso si cerca di schierarsi o da una parte o dall’altra e la società stessa ci chiede di prendere una posizione, ma questo può essere riduttivo, magari da un punto di vista affettivo, come nel caso del giovane Enrico in scena. È messa quindi in scena  la necessità di affermare i propri diritti e prendere una posizione, proprio perché questi diritti spesso vengono messi in discussione; ma è altrettanto  semplicistico tagliare tutto con l’accetta. E con queste riflessioni Babilonia Teatri ringrazia il  suo pubblico, senza dare soluzione, non ne avrebbe mai avuto la pretesa; ma anzi rinforza i dubbi, e forse anche un po’ le inquietudine, intorno al tema affrontato.

Emanuela Atzeni

Zoo[M]Out – Attraverso gli occhi di un alieno

Chi può dire di essersi fermato ad osservare ogni cosa che lo circonda? Chi continua a vedere il mondo con gli occhi di un bambino -o di un alieno- stupendosi di tutto ciò che il proprio sguardo riesce a cogliere, come se fosse sempre la prima volta?

Vi sono persone che non hanno mai effettivamente guardato il mondo nella sua interezza, partendo dal più piccolo particolare fino ad arrivare ad una visione completa e globale del pianeta.

Non vi è quasi nessuno che, in questo nuovo millennio, non abbia utilizzato un software cartografico per eseguire movimenti di allontanamento da un punto su una mappa.

Questo viene fatto tramite il comando zoom out, dal titolo dell’opera, che significa “allontanarsi”. Ed è proprio di questo che tratta lo spettacolo: l’uomo dovrebbe posare lo sguardo sulla Terra come se la vedesse per la prima volta e per fare ciò, sarebbe meglio allontanarsi sempre di più, così da vederla nella sua totalità. Di come ci si debba soffermare per percepire ogni cosa, di come non si debba dare niente per scontato, come un astronauta che vede la Terra nella sua interezza per la prima volta. Ne vede il blu dei mari, il verde delle piante e delle valli, mentre quello che credeva fosse un pianeta immenso, si trasforma in una piccola sfera multicolore.

L’opera prende ispirazione dal romanzo di fantascienza L’uomo che cadde sulla terra scritto da Walter Tevis, dal quale nacque anche l’omonimo film per la regia di Nicolas Roeg, interpretato da David Bowie nei panni di un extra terrestre che si ritrova su un pianeta a lui sconosciuto.
Il duo Th[on]gu cerca di riprodurre la fascinazione e l’alienazione del protagonista che per la prima volte conosce la Terra, solcando il palco della Casa Teatro Ragazzi di Torino il 6 Giugno durante il Festival delle Colline Torinesi (tenutosi dal 2 al 20 Giugno).

La scenografia è essenziale, non vi è nulla se non l’attrice, Guendalina Tondo, che grazie alla sua interpretazione riempie la scena. Il duo ha indubbiamente preso decisioni creative audaci dato la semplicità scenica e l’accostamento di rumori forti improvvisi che vanno a sostituire il rilassante silenzio, spezzato solo dalla voce dell’interprete; e le accecanti luci, quasi disturbanti, che sostituiscono con uno stacco netto il nero profondo in cui si trova immerso sia il palco che il pubblico per quasi tutta la durata della performance.

Al lato del palco, si trova Riccardo Giovinetto, che accompagna il monologo della Tondo con musiche ed effetti sonori. Anche a lui va riconosciuta grande maestria nell’effettuare cambi repentini di rumori e luci cogliendo lo spettatore di sorpresa.

Altro elemento presente sulla scena è un pannello di retro proiezione posto sopra la testa dell’attrice, sul quale vediamo riprodotti un cielo azzurro e degl’alberi visti dal basso, quasi a dare l’idea di trovarci in mezzo alla natura.
L’opera non ha una vera e propria trama lineare, ma il tutto si basa sull’osservazione di ciò che ci circonda.

L’attrice inizia a raccontare di fotografie, scattate in diversi luoghi, che tappezzano ogni angolo del mondo. Rappresentano il microscopio ed è da queste che parte lo zoom out; dalla pupilla di un occhio alla piccola sfera vista dall’astronauta.
Quello che i Th[on]gu vogliono raccontare è come sia effettivamente difficile, nella società moderna, fermarsi per osservare ciò che ci circonda, poter bloccare il tempo per vivere questo mondo nella sua totalità. Per questo s’impegnano a ricordarci chi siamo e da dove veniamo.

Ho avuto modo di confrontarmi con alcune persone presenti tra il pubblico ed ho riscontrato opinioni contrastanti. Se da una parte l’interpretazione di Guendalina Tondo è stata di gran lunga apprezzata (l’attrice infatti è stata applaudita per diversi minuti da tutta la sala), dall’altra l’opera in sé ha riscosso in alcuni titubanza ed incertezza. Il copione infatti è molto conciso e ripetitivo ed io stessa ritengo che forse la compagnia avrebbe potuto trattare l’argomento più ampiamente, evitando le diverse ripetizioni che potrebbero portare in certi spettatori noia ed indifferenza.

Molto apprezzata inoltre la scenografia spoglia e la decisione di non utilizzare alcun microfono, come a coinvolgere dentro la scena ogni singolo spettatore; sensazione amplificata dalla ridotta dimensione della sala.

L’impostazione e l’intonazione di voce di Guendalina Tondo sono di grande impatto.
Durante uno dei tanti momenti di buio, infatti, è stata in grado di guidare lo spettatore nel suo nuovo mondo, sempre lo stesso ma al contempo totalmente diverso.
Di far vedere tramite la sua voce. Cosa che attraverso gli occhi non saremmo stati in grado di percepire con tanta forza. Il tutto reso ancora più alienante dal totale silenzio della scena.

E’ uno spettacolo su come guardiamo il mondo. Su come lo percepiamo e, per la maggior parte delle volte, su come non lo percepiamo così da non doverci fermare davanti a niente; in questa realtà dove nessuno ha più tempo per altro, se non per se stessi.
Posso affermare che durante i quaranta minuti di spettacolo mi sono allontanata dalla realtà per riscoprirne una nuova, piena di dettagli e colori, senza mai alzarmi dalla sedia e, in alcuni momenti, aprire gli occhi.

IL SOGNO DI BOTTOM: La realtà di oggi letta con sguardo ingenuo e crudele ironia

In un mondo ormai dominato dalla televisione e dalla tecnologia, c’è ancora spazio per il teatro?

Questa è la domanda a cui lo spettacolo, messo in scena dalla fondazione TPE per la regia di Lia Tomatis, cerca di trovare una risposta.

La ricerca avviene attraverso le parole e i gesti di Rick Bottom e Peter Quince, due personaggi del Sogno di una notte di mezza estate, probabilmente la commedia più famosa di William Shakespeare.

La trama dell’opera costituisce il punto di partenza della rappresentazione; tuttavia, questa se ne discosta quasi subito per prendere una strada autonoma. Inoltre, non mancano le citazioni di altri testi del drammaturgo inglese, tra i quali Amleto, Macbeth, Riccardo III e La Tempesta.

Sono rimasto piacevolmente colpito dall’originalità con cui il testo di Shakespeare è stato riletto in scena. In una scenografia essenziale (costituita da un semplice sgabello di legno), tutto è affidato alla parola e al suo potere evocativo. Sono i personaggi a trasportarci man mano in ambienti ed epoche diverse, grazie alle loro azioni. Un ritorno alle origini del teatro, che oggi viene percepito come novità.

Questo spettacolo conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, quanto i testi di William Shakespeare siano straordinariamente attuali. Per quanto si possa scavare al loro interno, non si finirà mai di scoprirne nuovi aspetti e chiavi di lettura.

Sono testi attuali perché lo sono i personaggi che li popolano. Uomini e donne tormentati dagli stessi problemi e dubbi che affliggono gli spettatori, in epoca elisabettiana come in quella contemporanea.

Vorrei spendere due parole sugli attori, Gianluca Guastella (Rick Bottom) e Riccardo de Leo (Peter Quince). Essi, infatti, hanno tratteggiato due personaggi totalmente opposti tra loro, ma proprio per questo complementari l’uno all’altro, come le due metà di una sola persona.

Bottom è la metà istintiva, irrazionale, ingenua. E’ un personaggio a tratti infantile, costantemente perso nel suo mondo immaginario. Proprio per questo motivo appare come un estraneo nella nostra società.

Quando si addormenta e si ritrova in epoca contemporanea, gli sembra di vivere un incubo da cui non riesce più a svegliarsi. Il suo sguardo diventa anche il nostro, una specie di lente attraverso cui osserviamo il mondo di oggi. Una visione priva di filtri, probabilmente ancora più spietata perché sincera nell’evidenziare tutti i difetti della nostra società. Quince, invece, è la metà razionale. E’ la perfetta rappresentazione dell’uomo contemporaneo, sempre di fretta perché impegnato e costantemente attaccato al suo smartphone.

Personalmente, trovo che Guastella sia stato più efficace, rispetto a de Leo, nel restituire il proprio personaggio sul palco. Al di là della tecnica (eccellente), è riuscito ad esprimere con forza il carattere sognante e ingenuo di Bottom.

De Leo, invece, pur possedendo una buonissima base tecnica, ha fatto apparire Quince solo a tratti, il suo personaggio era “opaco”, non sempre è stato efficace nel dargli maggiore forza espressiva.

La rappresentazione si basa sullo schema del “teatro nel teatro”. A mio parere, era necessario per raggiungere lo scopo prefissato. Lo spettacolo non poteva fare altro che reggersi su questi meccanismi. Esistono molti modi per criticare il teatro, ma credo che quello più efficace sia svelarne gli ingranaggi interni, in modo da poter vedere meglio il danno e ripararlo.

La domanda sul senso del “fare teatro” oggi sembra apparentemente lasciata in sospeso al termine dello spettacolo.

In realtà la risposta viene data, ma non esplicitamente. Per capirla, è necessario prestare molta attenzione a ciò che non viene detto ma solo lasciato intendere tra le righe.

Sì, ha senso fare teatro oggi. Non solo ha senso, ma è necessario. Viviamo in un’epoca dominata dall’apparenza e dalla superficialità. Noi uomini siamo ossessionati dall’idea di dover emergere a ogni costo e con ogni mezzo, per questo andiamo di fretta e vogliamo tutto subito. All’interno di questo contesto sociale, il teatro è uno dei pochi strumenti ancora in grado di farci fermare e riflettere, producendo esattamente l’effetto opposto a quello della televisione o della tecnologia che ormai ci hanno invasi.

Con questo non intendo certo dire che il teatro sia la cura di tutti i mali. Anzi, nella maggior parte delle produzioni odierne <<c’è del marcio>> (e Il sogno di Bottom non manca certo di sottolinearlo).

La rappresentazione messa in scena dalla Tomatis non ci dice come dovrebbe essere il teatro oggi, perché preferisce mostrarcelo. La risposta è dunque implicita nella messa in scena stessa della rappresentazione. Un teatro semplice, non spettacolarizzato e con scenografie ridotte all’essenziale. Un teatro in cui gli attori possano ritrovare la loro antica e genuina capacità di evocare immagini attraverso parole e gesti, in modo da stimolare la fantasia dello spettatore e fargli aprire la mente. Un teatro che sappia anche prendere (e prendersi) in giro, ma senza mai scadere nella critica sterile e fine a sé stessa, perché in fondo il teatro è un sogno che, per un breve periodo, può farci dimenticare la realtà.

L’infantilità di Rick Bottom, che emerge a tratti e stride con l’apparente “serietà” del nostro mondo, è secondo me la chiave di lettura di tutta la rappresentazione. E’ come se il personaggio ci suggerisse di provare ogni tanto a tornare bambini, cioè di perdere tempo a guardare anche le cose più insignificanti con curiosità e andare oltre le apparenze.

In fondo, come dice Bottom stesso nello spettacolo, citando Macbeth: <<La vita non è che un’ombra che cammina, un povero attore che si agita e si pavoneggia per un’ora sulla scena e poi non si presenta più>>, quindi non va presa troppo sul serio.

Shakespeare lo aveva capito, ma noi lo abbiamo dimenticato.

Sirio Alessio Giuliani

Turbolenze di emozioni in Raffiche

 

Non capita spesso di sentirsi direttamente trasportati in un presente così sensibilmente vivo, quasi tangibile e assolutamente reale da sentirsi fisicamente in un altro luogo e in un altro tempo.

Tutto è iniziato in medias res al “Le Petit Hotel” di Torino, il pubblico si trovava nella sala d’attesa dell’albergo quando una delle sette gangster, abbracciando un mitra con aria violenta e seducente, compare per invitare una parte dei presenti ad entrare nell’ascensore e, automaticamente, a rendersi partecipe del crimine.

Ci ritroviamo così in una delle camere dello “Splendid’s Hotel”, nome dello stesso testo teatrale di Jeane Genet che ha trovato nella regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò una reinterpretazione originale e accattivante.

I complici vengono fatti accomodare e udendo dalla radio in scena, sempre accesa quasi da essere centrale nella storia, alternando notizie a musiche-colonna sonora, i comunicati stampa che le Raffiche inviano ai giornali-radio, comprendono di trovarsi intrappolati e accerchiati dalla polizia che da tempo cerca di identificare e catturare il gruppo di rivoltose.

Le Raffiche si presentano infatti come un gruppo di creature eleganti di non genere, o di donne in vesti da uomo o forse ancora come uomini in corpi di donne contro gli stereotipi, i divieti e le imposizioni di una società opprimente a cui non ci si deve adeguare mai,a costo di morire. Sono un gruppo di sovversive che ha scelto di non identificarsi in favore della libertà dagli schemi di genere e di ruolo.

Nella stanza è presente il cadavere di una ragazza che le Raffiche hanno precedentemente reso ostaggio e che ora, per temporeggiare, spacciano per viva alla polizia, ma c’è anche una poliziotta (Federica Fracassi) complice del misfatto che smaniosa di avventura, decide di unirsi al gruppo di latitanti.

Si scatena così una vicenda mozzafiato che riesce a rendere permanente nello spettatore uno stato di agitazione, una suspance continua che crea un attenzione tanto forte da essere turbinosa, dove dialoghi taglienti si alternano a momenti di puro erotismo di cui Jean (Silvia Calderoni), capo del gruppo, è elemento scatenante.

La regia Motus (nome della compagnia) riesce, in questa occasione, ad afferrare il tempo per dominarlo attraverso una partitura scenica completamente coreografata, dove anche il silenzio delle attrici ha un suo ritmo particolare e trova sfogo in uno spazio gestuale molto coinvolgente. Ottima è stata anche la scelta delle musiche-colonna sonora, perfette per confermare l’intimità del luogo, e che ben esprimono l’interiorità violenta e seducente delle Raffiche.

Arrivando al finale, Jean sarà fisicamente costretta dalle compagne ad indossare vesti femminili, o meglio a travestirsi, per fingersi l’ostaggio già morto e mostrarsi al pubblico di poliziotti che attendono una nuovo colpo di scena da parte delle sovversive, fuori dall’edificio, in un esterno che noi spettatori non vediamo ma sentiamo interagire con le rivoltose. Jean muore per un colpo di pistola e come se nulla fosse mai successo il suo corpo rimarrà fuori sul balcone mentre Pierrot (Ondina Quadri), personaggio che si occupava della propaganda dei messaggi rivoluzionari attraverso scritte sul proprio corpo, in grave crisi di astinenza da droghe, perde il controllo premendo, pochi minuti dopo, il grilletto della sua pistola per togliersi la vita, avendo ormai tutte perso l’identità di gruppo.

Uno spettacolo davvero emozionante che ha creato una “turbolenza di emozioni” quasi mai scontate per il teatro dei nostri tempi e che non per nulla ha ottenuto il tutto esaurito dopo pochi giorni dall’apertura del “Festival delle Colline Torinesi”, contesto in cui è stato sapientemente inserito.