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XXII Festival delle Colline Torinesi , Conferenza Stampa

Mercoledì 19 aprile presso il Goethe-Institut ha avuto luogo la conferenza stampa di presentazione della XXII edizione del Festival delle Colline Torinesi, un appuntamento da non perdere dedicato alla creazione teatrale contemporanea. Dialogano sull’argomento: Jessica Kraatz Magri, direttrice dell’Istituto Culturale della Repubblica Federale di Germania, Sergio Ariotti, direttore del Festival, Antonella Parigi, assessore della regione e Barbara Graffino (Compagnia di San Paolo).

Qui si racconta e si anticipa un’edizione tutta dedicata alla donna, che porta alla ribalta moltissime autrici (come Sasha Marianna Salzmann, Mirjana Bobic Mojsilovic, Milena Costanzo..), registe (tra le quali Paola Rota, Daniela Nicolò, Fiona Sansone, Chiara Guidi..) nonché interpreti e performer di altissima qualità. E, come se non bastasse, di una donna è anche il segno d’artista del Festival 2017: parliamo di Marisa Mertz, artista italiana di altissimo talento, per di più unica rappresentante femminile della corrente dell’Arte Povera. Ventisette sono le compagnie che presentano i loro lavori, alcuni dei quali sono in prima assoluta (altri in prima nazionale o quantomeno regionale), con nomi di spicco della creazione contemporanea. Diciannove i giorni a disposizione (4/22 giugno).
Italia, Germania, Grecia, Serbia, Somalia e Libano sono invece i Paesi ospiti da cui provengono gli spettacoli internazionali.
Segio Ariotti ha guidato i presenti nella lettura del programma, attraverso un breve ma efficace focus sugli spettacoli, raggruppabili per famiglie tematiche. Delle ventisette rappresentazioni complessive, sei presentano al centro dell’attenzione poetesse e letterate. Tra queste vanno ricordate: Lettere della notte, che vede l’incontro tra Chiara Guidi e Nelly Sachs, scrittrice e poetessa tedesca di origine ebraica, Premio Nobel 1966; L’amica geniale, che prende spunto dal notissimo ciclo di romanzi dell’autrice senza volto Elena Ferrante; Il cielo non è un fondale, un atto drammatico apparentemente “senza trama e senza finale” che prova a restituirci i continui spostamenti di senso tra quello che noi siamo e quello che ci succede intorno; Emily di e con Milena Costanzo, seconda parte del progetto su Sexton, Dickinson e Weil; Amelia la strega che ammalia and friends (dove Amelia è Amelia Rosselli) di Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa e Corale numero uno, di e con Elena Bucci, che racconta di una singolare e sventurata eroina zingara, Bronislawa Wajs (nome d’arte Papusza), poetessa anch’essa, liberamente tratto dal testo Sputa tre volte di Davide Reviati, uno dei più interessanti autori di graphic novel internazionale.
Hanno invece a che fare con l’identità di genere, tema principe dell’edizione passata, dal quale il festival non sembra essersi ancora liberato del tutto –continua a spiegare il direttore- , lo spettacolo dei Motus, che ritornano a furor di popolo con Raffiche, reinvenzione di una pièce minore di Jean Genet, in una versione provocatoriamente al femminile; Pedigree, messa in scena di un testo inedito, firmato da Valeria Raimondi e Enrico Castellani, dedicato alle famiglie arcobaleno; 50 Grades of Shame, lo spettacolo del collettivo femminile tedesco She She Pop, appuntamento clou del cartellone 2017; Masculu e Fiammina di e con Saverio La Ruina, che interpreta un uomo che racconta se stesso e la propria identità sessuale davanti alla tomba della madre, e infine un performer greco, Euripides Laskaridis, il quale con Titans, nome dello spettacolo, propone le sue trasformazioni, cercando di comprendere perché facciamo ciò che facciamo e di cosa abbiamo realmente bisogno.
Un altro gruppo di titoli combina teatro e musica. Allora nominiamo: Abebech-Fiore che sboccia fiore che sboccia, spettacolo di Saba Anglana, cantante italo-somala, dedicato al sacro nella cultura d’Etiopia, con un personaggio meraviglioso di nonna sullo sfondo; Personale Politico Pentothal che vede in scena Marta Dalla Via, accompagnata dal vivo da cinque rapper; The black’s tales tour di Licia Lanera, al dancing neo-liberty Le Roi Music Hall, la cui architettura, particolare e suggestiva venne progettata nel ’59 dal famosissimo architetto Carlo Mollino.
Infine l’ultima famiglia tematica, che raccoglie tra gli spettacoli del cartellone quelli che presentano interessanti legami con il cinema. Tra questi: Roberta va sulla luna, Ifigenia in Cardiff, con le regia di Valter Malosti, Pixelated Revolution, So little time, Elephant woman, Zoo(m)out, ed infine il lavoro dei fratelli De Serio, Stanze/Qolalka, pronto ad anticipare il nuovo triennio dedicato alle diaspore. Un altro percorso che si completa al Festival è quello di Elvira Frosini e Daniele Timpano. I due presentano Acqua di colonia che affronta il tema del colonialismo italiano. Da non dimenticare, ovviamente, i molti giovani artisti, in relazione ai quali menzioniamo: Diario di una casalinga serba, tratto dal romanzo omonimo di Mirjana Bobic Mojsilovic, L’inquilino, Human animal, Educazione sentimentale. Un cenno finale naturalmente va alla drammaturga prescelta: Sasha Marianna Salzmann, la quale porta in scena Lingua Madre Mameloschn, il cui spettacolo fa parte del progetto Fabulamundi.Playwriting Europe della Pav di Roma ed è coprodotto dallo Stabile di Genova.

Ma il festival non si riduce al cartellone. Al contrario, porta con sé interessanti appuntamenti, approfondimenti ed esposizioni, che arricchiscono e coronano l’appuntamento torinese. Prosegue il progetto “Mezz’ora con..” a cura di Laura Bevione, che consiste in incontri con gli artisti del Festival (e non solo), al quale si aggiungono “Un teatro pieno di interrogativi”, tre incontri per ricordare il Convegno di Ivrea, che nel giugno 1967 radunò alcuni protagonisti del cambiamento teatrale allora in atto e “Cinema in scena” in collaborazione con il Museo Nazionale del Cinema, che prevede, come ogni anno, proiezioni abbinate agli spettacoli in cartellone. Non solo. Ritorna l’appuntamento con gli allievi del corso di laurea in Dams che raccontano attraverso il loro blog (teatrodamstorino.it) la realtà del festival tramite interviste agli artisti, presentazioni, approfondimenti e recensioni degli spettacoli, e Tipstheater, una piattaforma web ideata da Valentina Passalacqua, Giulia Menegatti e Chiara Lombardo dedicata a spettatori, compagnie teatrali, organizzatori.

Per concludere, e a voler sottolineare la forte transculturalità che permea il Festival e che quest’ultimo a sua volta effonde e restituisce, uso l’espressione inglese “last but not least”, per parlare della complicità necessaria e vitale dello spettatore, al quale si richiede, come ogni anno, curiosità e partecipazione. Per i più affamati e impazienti segnaliamo allora le due settimane speciali (20/4-3/5) durante le quali i biglietti possono essere comprati online a prezzi scontatissimi. In alternativa i punti vendita dal 20 aprile sono il Teatro Astra, Rivendite vivaticket, infopiemonte-Torinocultura, vendita serale (online: www.vivaticket.it).
Vi aspettiamo!

@Contatti (per info e abbonamenti):+3901119740291; +393462195112; +info@festivaldellecolline.it
@Luoghi: Le Roi Music Hall (Via Stradella 8), Scuola Holden (Piazza Borgo Dora 49), Polo del ‘900 (Corso Valdocco ang. Via del Carmine), Pratici e Vaporosi (Via Donizetti 13), Ristorante Marechiaro (Via San Francesco d’Assisi 21), Teatro Astra, Teatro Gobetti, Teatro Marcidofilm!, Serming- Arsenale della Pace (piazza Borgo Dora 61), Casa Teatro Ragazzi e Giovani (Coso Galileo Ferraris 266), Cinema Massimo, Le Petit Hotel.
@Sponsor e collaboratori: Regione Piemonte, Città Di Torino, Compagnia Di San Paolo, Teatro Stabile Torino-Teatro Nazionale, Fondazione Piemonte dal Vivo, Fondazione Crt..
@Media partner: La Repubblica, RaiRadio3, Torinosette, TrovaFestival, klpteatro.it, Radioenergy.

“MINETTI: LA FOLLIA NELL’ARTE”

Lo scorso martedì 4 Aprile ha debuttato al Teatro Carignano “Minetti”, un testo di Thomas Bernhard, con Roberto Herlitzka, in scena per la stagione teatrale 2016/2017 del Teatro Stabile di Torino.

Il testo è quasi un lungo monologo, inframmezzato solo da qualche battuta di alcuni personaggi che compaiono all’interno dell’albergo dove è ambientata la storia.
Siamo ad Ostenda, città sulla costa del Belgio, durante la notte di San Silvestro. Giunge in albergo un anziano signore con una pesante valigia da cui non si separa mai, Minetti, che annuncia di avere appuntamento con il direttore del teatro per portare in scena, dopo trent’anni di inattività, il Re Lear di Shakespeare.
Durante l’attesa, così prolungata da infondere il dubbio che in realtà l’incontro sia frutto dell’immaginazione dell’attore, Minetti racconta della sua vita e riflette sul teatro e sul mestiere di attore. Un personaggio che porta con sé la tristezza per essere stato esiliato dalla città dove era direttore del teatro, per essersi negato alla letteratura classica e che per trent’anni, nella soffitta della sorella, non ha fatto altro che ripetere il Re Lear di Shakespeare con la maschera che aveva creato per lui il celebre Ensor.

Per misurarsi con un personaggio così definito e per interpretare un testo tanto forte e complesso, ci vuole sicuramente una certa capacità e esperienza, attributi che chiaramente l’attore protagonista Roberto Herlitzka può vantare. Con grande intelligenza Herlitzka riesce a rendere il personaggio ironico nella sua follia, nonostante la drammaticità di una vita vissuta  esiliato dalla società. Molto dinamico in scena, non lascia mai l’occhio dello spettatore fisso in un punto e, comunicando con tutto il corpo, rende chiaro il messaggio e mantiene alta l’attenzione verso un testo che richiede per sua natura di essere seguito parola per parola.
Grazie ad un approccio intimo al personaggio, coinvolge lo spettatore a tal punto da indurlo a riflettere sulle questioni da lui affrontate. Questo aspetto viene sottolineato anche da alcune battute registrate con voce soffiata, che sembrano quasi svelare al pubblico le riflessioni personali di Minetti sull’arte.

Il protagonista si confronta principalmente con due personaggi, la cui presenza è per lui il pretesto per esporre le proprie idee: il primo è una signora, ospite ogni anno dell’albergo per passare il Capodanno sola con una maschera da scimmia e qualche bottiglia di champagne. Può essere vista come l’alter ego di Minetti, poiché entrambi vivono in una triste solitudine e sentono il bisogno di “recitare”  una parte nascosti dietro una maschera.
Il secondo personaggio è quello di una ragazza giovanissima che aspetta il fidanzato per andare a una festa mentre ascolta musica da una radiolina. Un po’ timida, scambia qualche parola con Minetti provando forse nei suoi confronti una certa tenerezza. Essa è chiaramente un contrasto con la sua situazione, è una giovane donna che ha ancora tutta la vita davanti e alla quale l’attore augura di non commettere errori.

La vicenda è interrotta qua e là da figure mascherate che entrano ed escono dall’albergo: si muovono lentamente, hanno maschere inquietanti e la loro presenza determina una situazione surreale che contrasta con il tono ironico e grottesco del racconto di Minetti. Si tratta di figure allusive che sembrano quasi uscire dalla mente del protagonista, come fantasmi del suo passato, delle sue paure e dei tormenti che alimentano la sua follia.

La scenografia ha un tratto naturalistico ed è ben curata in ogni dettaglio, come anche la musica e i vari suoni, ad esempio quello esterno del mare o quello dell’ascensore all’interno dell’albergo.
Le luci cambiano repentinamente a seconda dei momenti dello spettacolo per sottolineare ora l’introspezione del racconto, ora l’atmosfera quasi onirica dovuta alla presenza dei personaggi mascherati.

Importante è il ruolo delle maschere: quella della signora, quella di Re Lear di Ensor dalla quale Minetti non si separa mai e quelle indossate da chi festeggia San Silvestro. Maschera come rifugio dalla realtà e come unica possibilità per essere liberi.

Proprio perché la scenografia è così naturalistica, risulta forse un po’ stridente il finale, che secondo il testo dovrebbe essere ambientato all’esterno su una panchina mentre la neve cade su Minetti. In questo caso, il fondo della scenografia cambia, ma il contesto dell’albergo, così visivamente ben curato, rimane.
Inoltre, gli attori erano muniti di microfono, aspetto che può lasciare perplessi, perché una delle caratteristiche del teatro è per esempio poter notare negli attori un cambio di tonalità vocale a seconda della posizione del corpo nello spazio.
In ogni caso la recitazione del protagonista è riuscita a catturare con molto efficacia l’attenzione del pubblico, sia per la sua dinamicità, sia per l’ironia con cui si è approcciato al personaggio.

Un testo che parla della vita, della società, dell’arte e che vede nell’attore colui che è in grado di vivere fino in fondo tutte le emozioni e perciò anche la frustrazione che porta inevitabilmente alla follia. Come afferma lo stesso Minetti, l’arte è “orrenda” e l’attore è “mostruoso” poiché è l’unico in grado di portare di fronte al pubblico la dura realtà. Ma proprio perché non viene compreso dalla società, l’attore è destinato a fallire sia nell’arte che nell’esistenza.

di Alice Del Mutolo

di Thomas Bernhard
traduzione Umberto Gandini
con Roberto Herlitzka
e con Pierluigi Corallo, Verdiana Costanzo, Matteo Francomano, Roberta Sferzi, Vincenzo Pasquariello
regia Roberto Andò
scene e luci Gianni Carluccio
costumi Gianni Carluccio, Daniela Cernigliaro
suono Hubert Westkemper
Teatro Biondo Palermo

CASA DI BAMBOLA: UNA NORA HELMER LIBERA E VOLONTARIA

il 21 marzo ha debuttato al Teatro Carignano di Torino  Casa di Bambola, celeberrimo testo teatrale di Henrik Ibsen, del 1879. A calcare il palcoscenico Filippo Timi e Marina Rocco, che hanno simbolicamente ritratto in scena l’ipocrisia borghese, la critica ibseniana verso quella società ma anche i ruoli diversi dell’uomo e della donna nell’ambito del matrimonio in epoca vittoriana.

Per comprendere Casa di Bambola forse è utile conoscere la psicologia dei suoi personaggi, la morale del testo ibseniano,  il ricorso di Ibsen ai simboli, che esprimono una visione del mondo, dell’uomo e della vita. Nora è la giovane moglie dell’avvocato Torvald Helmer. I loro tre figli vengono allevati dalla bambinaia, come di consueto negli ambienti borghesi dell’epoca. Le sue giornate trascorrono tra frivolezze di ogni genere. Suo marito la ama, la coccola, le proibisce di mangiare dolci come si farebbe con una bambina, ma non le fa mancare abiti e feste da ballo. In passato, per curare il marito malato, ha contratto un debito con un tal Krogstad, falsificando la firma del padre per ottenere soldi in prestito. Nora tenta di ricoprire il ruolo della donna accanto a quello maschile del “rendimento dei conti”.

Torvald Helmer ha ottenuto il ruolo di direttore nella banca in cui lavora, ha maggiore potere sugli altri, e a Nora questo piace, ma è tormentato dall’idea di perdere la propria reputazione e per questo non ammette che la moglie ficchi il naso nelle faccende che
non le competono: la sua piccola allodola, come lui la chiama continuamente – nel testo più che in questa rappresentazione – non dovrebbe avere influenza sulle sue decisioni, anche se di fatto Nora lo supplica di non licenziare Krogstad, che lavora nella sua stessa banca.
Insidiato dal licenziamento, Krogstad minaccia Nora di rivelare tutto a Torvald. Venuto a conoscenza del fatto, Torvald non riconosce nel gesto di Nora un atto d’amore per lui ed è deciso ad allontanare dalla cura dei figli quella che egli considera una moglie bugiarda e madre indegna, salvo poi perdonarla quando il ricatto che minaccia la famiglia viene annullato e il timore dello scandalo svanisce.
Il comportamento vigliacco di Torvald delude profondamente Nora
che spinta da pulsioni vitali inarrestabili non sarà disposta ad essere ancora, come da bambina, una bambola nelle mani
degli uomini intorno a lei.

Per un testo che è stato considerato un forte esempio di femminismo, Filippo Timi ha deciso di “farsi in tre”, interpretando i tre personaggi maschili principali, probabilmente, come ha affermato la regista Andrée Ruth Shammah

“Per riequilibrare una storia che se la leggi senza pregiudizi non parla di una moglie che sfugge alle grinfie del marito, ma della relazione uomo- donna arrivando al cuore più profondo, là dove
tutto è meno innocuo e veniale, le donne più ambigue, violente, gli uomini meno semplici, forse più femminili”.

La scenografia vuole riprodurre il modello di spazio borghese ibseniano, un ambiente artificialmente sereno che piegherà sul noir.
Le tinte del rosa – delle pareti e del vestito di Nora – e del verde – della tovaglia di velluto e delle sedie – sottolineano il gusto di Nora nel curare i particolari della casa e del suo aspetto. Lo spazio scenico risulta accogliente anche grazie alle luci calde che,  progressivamente, si snodano in una freddezza glaciale.

L’inattesa rottura delle normali convenzioni della finzione teatrale sorprende il pubblico e produce un diffuso umorismo. La rottura della quarta parete crea un effetto brillante che al pubblico piace, come la scena dove il terzo escluso Dottor Rank ringrazia dopo aver cantato con romantica malinconia My Funny Valentine.

Alessandra Pisconti

21 marzo 2017, Teatro Carignano Continua la lettura di CASA DI BAMBOLA: UNA NORA HELMER LIBERA E VOLONTARIA

La sacralità della vita nel teatro civile. Pasolini e la morte: un rito culturale

“È teatro sociale”, esclama Mauro Avogadro, uno degli attori dello spettacolo Pasolini e la morte: un rito culturale, dopo il debutto al Teatro Baretti di Torino, mercoledì 15 Marzo scorso.

Con una sigaretta in bocca, il sorriso di chi è stanco ma soddisfatto, scambia qualche parola con me e altri curiosi che vogliono sentire qualcosa in più su uno spettacolo che ha lasciato a tutti qualcosa su cui riflettere. “Non esiste più” continua Avogadro, “ma io credo che sia essenziale. I greci hanno iniziato a fare teatro per questo. Io in questo spettacolo inizio a parlare con calma, perché gli argomenti sono importanti e non voglio spaventare lo spettatore. Poi cerco di evocare qualcosa su cui riflettere tutti insieme”. Ed è questo che lui e i suoi due colleghi hanno fatto, con l’aiuto di una troupe fantastica. Ma facciamo adesso un passo indietro.

Mauro Avogadro

Il Teatro Baretti è intimo, raccolto, un luogo dove la magia del teatro non fa fatica a materializzarsi. Questa volta però, gli spettatori entrando non si trovano di fronte a un sipario chiuso, curiosi di sapere cosa nasconda. Il sipario è aperto, gli attori sono già sulla scena e camminano immersi nei loro pensieri, mentre il resto dei collaboratori sistema le ultime cose. La quarta parete viene quindi abbattuta, noi sappiamo che quelli sono gli attori che, attraverso le loro parole, ci faranno intraprendere un viaggio in cui lo spettatore non potrà essere passivo e coccolato, e sedendoci non possiamo far altro che accettare la sfida.

Quando le luci si abbassano, gli attori attirano la nostra attenzione con le loro bellissime voci e subito comprendiamo che la storia è semplice: un regista (Mauro Avogadro) vuole girare un documentario su Pasolini. Egli stesso interpreterà lo scrittore che risponde alle domande di un giornalista (Gianluca Gambino), che sembra incarnare un po’ l’idea dell’”uomo medio” tanto odiato da Pasolini e bersaglio di Orson Welles ne La ricotta, mentre Lorenzo Fontana interpreta Pasolini durante alcuni momenti di stasi della narrazione.

Lo svolgimento e i temi dello spettacolo però sono tutto tranne che scontati: partendo dall’ipotesi che Pasolini sia stato coscientemente regista del film della sua vita, viene ripercorso sinteticamente il montaggio di esso, attraverso stralci di un intervista lasciata a Duflot e alcune sue poesie. Del resto, come mi suggerirà più tardi Avogadro “si parla solo della morte di Pasolini e del mistero attorno ad essa. Ma è importante parlare dell’uomo che è stato, perché quello che ha scritto è incredibilmente attuale”.

Ma andiamo con ordine: gli argomenti toccati dall’intervista sono molti ed eterogenei. Il giornalista e Pasolini sono seduti su due sedie bianche, che contrastano con il nero dello sfondo e dell’impalcatura. Su quest’ultima si muove l’alter-ego di Pasolini, al quale è affidata la declamazione delle poesie, accompagnate da proiezioni di immagini o di fotogrammi dei suoi film. In particolare questi momenti creano un’atmosfera sospesa, grazie anche all’uso della musica e, mentre la voce profonda e ferma di Avogadro sembra dare vita ai pensieri più profondi di Pasolini, la voce sottile e drammatica di Fontana recita le poesie con un dolore, una sofferenza e una consapevolezza che presagiscono già il terribile epilogo da tutti conosciuto.

Pasolini

Uno dei primi temi trattati è quello della sacralità della vita, molto caro a Pasolini: egli affermava infatti che tutto è santo, ma la santità è al tempo stesso una maledizione. Diceva di avere nostalgia del sacro perché rimaneva legato agli antichi valori, tanto che sperava che venisse costruita una democrazia senza cancellare il sentimento del sacro.

Successivamente viene trattato un argomento attuale più che mai, l’immigrazione, parlando di un’integrazione necessaria alla convivenza nelle città, perché se si accetta il “colore” di quelli che vogliono entrare con “innocente ferocia” nella nostra società, potremo arricchirci grazie alla loro “sacra tribalità” e così raggiungere un effettivo progresso.

Purtroppo però Pasolini si era già reso conto che non solo essi spesso vogliono occidentalizzarsi e non mantenere la loro cultura, ma anche che la maggioranza degli italiani è diventata di una “intolleranza violenta”, persone che non vogliono ricordare la povertà che li aveva caratterizzati.

Memorabile e commovente è stato sicuramente il momento in cui è stata proietta una parte de La ricotta, ovvero quella della citazione figurativa della Deposizione di Pontormo (1526-28).

In questa occasione l’intervistatore chiede a Pasolini della sua misoginia ed egli risponde di non essere affatto misogino, ma di “raffaellizzare le donne, di voler donare loro una forte aura di sacralità”.

Questo in particolare è stato un momento in cui il pubblico ha tenuto il fiato sospeso e si è ritrovato a riflettere su tutte le tematiche che lo spettacolo ha tirato fuori e che sono in realtà insite in ognuno di noi, solo che a volte serve un po’ d’aiuto per ragionare sulla realtà.

ricotta_deposizione

 

A spettacolo quasi finito, in un momento di buio dominato dalla musica, Fontana-Pasolini si spoglia, rimanendo nudo in scena: questo gesto vuole forse alludere alla morte dello scrittore, interpretando la vita in maniera circolare e quindi la fine di essa come un ritorno al ventre materno. Dopo questo gesto, infatti, l’attore si rannicchia su una poltrona, coperta da un telo bianco, in posizione fetale e recita un’ultima poesia, con una certa quiete e serenità. Questa tranquillità è sottolineata dall’uso della luce calda che crea quasi un’immagine caravaggesca di un uomo che nella morte ritrova una condizione di umanità.

L’ultima battuta è affidata ad Avogadro che nel frattempo è salito sull’impalcatura per annunciare agli spettatori di sapere che “siamo tutti in pericolo”, una delle frasi dell’ultima intervista che Pasolini ha rilasciato proprio il giorno prima di morire. Sicuramente un finale che ha fatto correre a tutti un brivido lungo la schiena, anche a coloro che non conoscevano bene le vicende e i pensieri dell’intellettuale, ma hanno seguito con attenzione lo spettacolo.

Gli attori hanno mostrato in scena di aver profondamente interiorizzato la lezione di Pasolini e incontrando successivamente Avogadro dietro le quinte ne ho avuto la conferma, poiché ha rivelato di averlo da sempre amato e studiato e che sentiva fortemente l’esigenza di realizzare uno spettacolo non di Pasolini, ma su Pasolini.

Da segnalare la scenografia, essenziale ma ben costruita, che in realtà è parte integrante dello spettacolo proprio perché su alcune sezioni specifiche vengono proiettate non solo scene da film pasoliniani ma anche riprese dal vivo della performance da angolazioni invisibili allo spettatore, ricordando proprio i documentari pasoliniani; scenografie che sottolineano anche la poliedricità degli argomenti trattati. Inoltre, tramite le riprese proiettate in real-time, si è potuto sottolineare ancora di più la forte contemporaneità degli argomenti, ma anche della figura stessa di Pasolini in quanto uomo.

Le luci sono state usate in modo da sottolineare la drammaticità degli argomenti e dei momenti rappresentati.

Tutti questi elementi hanno richiamato l’attenzione di un pubblico che di certo ha avuto molto da metabolizzare ed è stato così invitato a riflettere anche sulla nostra attualità attraverso le parole di un uomo davvero contemporaneo e che rimarrà per sempre nella Storia.

di Alice Del Mutolo

 

“Pasolini e la morte: un rito culturale”

Drammaturgia di Ola Cavagna

Con Mauro Avogadro, Lorenzo Fontana, Gianluca Gambino

Regia e allestimento Ola Cavagna, Ginevra Napoleoni, Massimiliano Siccardi

Regia video live Umberto Sareaceni

Musiche a cura di Tommaso Ziliani

Luci Alberto Giolitti

Associazione Baretti

 

L’innocenza degli anziani – Schegge In

Il 18 e 19 febbraio, presso il CuboTeatro e all’interno della stagione treatrale Schegge In 2016/17, la compagnia Teatro Presente ha portato in scena Il vecchio principe, candidato al “Premio Teatro del Mundo 2013” di Buenos Aires come Miglior Spettacolo Straniero.

_1390991In un spazio scenico vuoto e circondato da pareti nere, dopo che il pubblico si è seduto, i tre attori attendono il massimi silenzio per poi presentarsi come Antoine, il Principe e il Vecchio. Questi tre attori ci racconteranno la storia de Il vecchio Principe attraverso dialoghi, un grande uso del linguaggio corporeo e pochi oggetti scenici, inseriti di volta in volta durante lo spettacolo.

Il testo si rifà al racconto Il piccolo principe ma con protagonista un anziano altrettanto bizzarro e innocente quanto il bambino che conosciamo dalla storia originale . Questo anziano ci viene presentato solo come il Vecchio ed  è ricoverato in un ospedale geriatrico. Di lui si occupa un giovane infermiere che lentamente viene addomesticato e che piano piano si lascerà trasportare dalla vivacità del Vecchio.

Antoine desiderava fare il pittore ma la sua fantasia è smisurata, al posto di cappelli vedeva serpenti che inghiottono elefanti e per questo abbandona l’idea di fare l’artista per un lavoro più concreto, ovvero l’infermiere. Sapendo della passione per l’arte e la grandissima immaginazione di Antoine, il Vecchio gli chiede di disegnargli una pecora tutta per sé. Possibilmente una pecora giovane e  felice. Antoine gli disegna una pecora che è talmente piccola da non vedersi sul foglio e il Vecchio ne è entusiasta: è proprio ciò che voleva lui.

_1390637Il Vecchio racconta di essere venuto da un pianeta tutto suo, dove poteva guardare tutti i tramonti che voleva spostando poco più in là la sedia, in cui doveva pulire i crateri dei vulcani ed estirpare le radici dei terribili baobab. Proprio mentre si dedicava al giardinaggio aveva notato la crescita di una nuova pianta, molto diversa dai baobab. Davanti agli occhi increduli del  Vecchio stava sbocciando una rosa vanitosa e bisognosa di attenzioni.  Ne rimane subito affascinato e le dedica tutto il suo tempo, attribuendole un grande valore e facendola diventare la sua rosa.
Ma questa rosa è troppo capricciosa, vuole stare al riparo sotto una teca per non prendere freddo, si lamenta di qualsiasi cosa e il Vecchio, stufo di non vederla mai contenta, decide di abbandonarla e andarsene dal suo pianeta.

Mentre il Vecchio ci racconta tutto ciò, sul palco si crea come una seconda dimensione, quella del ricordo e del suo pianeta, dove vediamo la rosa effettivamente parlargli. Intanto Antoine nella stanza dell’ospedale cerca di farlo ritornare alla ragione dicendogli che sono stati i suoi parenti a farlo ricoverare, che non arriva da nessun pianeta e di prepararsi alle visite.
A fare visita al Vecchio sono la direttrice dell’ospedale, una donna vanitosa che vuole farsi applaudire e che dà ordini a tutti – persino alle sue stesse gambe -, una parente che parla solo di affari e non ha un minuto per il Vecchio, un ubriacone che beve per dimenticare la vergogna di bere e un  lampionaio che deve accendere e spegnere il lampione di continuo.

Il Vecchio non riceve attenzioni né dai parenti né dai dottori. In realtà l’unica persona che gli è realmente vicina è Antoine. Tra loro si è creato un rapporto di abitudine e quotidianità ma anche di affetto, al Vecchio rincuora sapere che ad una certa ora Antoine verrà a dargli le medicine, che gli rifarà il letto e gli dedicherà qualche minuto del suo tempo per chiacchierare. Pur avendo questo amico, il Vecchio non smette di pensare alla sua rosa e una sera, malato e con la febbre, saluta Antoine dicendo che sta per tornare al suo pianeta.

_1390981La compagnia Teatro Presente ha portato in scena uno spettacolo che ci ricorda quanto sia importante dare attenzione alle persone care, soprattutto agli anziani che tendiamo ad allontanare quando raggiungono una certa età e tornano a comportarsi come bimbi. Il piccolo principe con leggerezza riesce a trasmettere insegnamenti importanti e questi si rispecchiano anche nel testo scritto da César Bie, che è riuscito a mantenere lo stile dell’opera originale rendendo alcuni passaggi in scena particolarmente gioiosi, anche grazie alla musica di Chango Spasiuk, ma sempre offrendoci uno spettacolo capace di far riflettere.

Andreea Hutanu
Foto di Bruno Garetto

Il vecchio principe
Testo e regia di César Brie
Con Manuela De Meo, Daniele Cavone Felicioni, Pietro Traldi
Musiche Chango Spasiuk
Costumi Anna Cavaliere
Produzione Teatro Presente / ERT Emilia Romagna Teatro Fondazione
Uno spettacolo di Teatro Presente

L’ultima performance: la vita

All’interno della stagione del TPE Teatro Piemonte Europa, Eros Pagni va in scena con Minetti di Thomas Bernhard, testo classico del teatro contemporaneo. Un magistrale attore diretto da un amico, Marco Sciaccaluga; due artisti che sono riusciti a trovare una perfetta intesa e a creare una reciproca collaborazione. Lo spettacolo prodotto dal Teatro stabile di Genova è stato in scena a Torino dal 15 al 19 febbraio.

Minetti racconta la storia di un attore ormai anziano, Bernhard Minetti appunto, che viene chiamato per interpretare uno spettacolo che segnerebbe il suo ritorno sulla scena teatrale dopo trent’anni di assenza. Minetti arriva dunque all’albergo e attende il suo amico e direttore del teatro, che gli ha dato appuntamento nella hall la notte di San Silvestro. Quest’ultimo tarda però ad arrivare; durante la lunga attesa l’attore incontra vari ospiti che alloggiano all’hotel, e racconta loro in modo ossessivo la storia della sua vita. Il suo attaccamento quasi morboso al passato si manifesta fin da subito, non solo tramite le storie che racconta, spesso ridondanti e sempre uguali, ma anche nell’atteggiamento che ha nei confronti della sua valigia. Questa, dalla quale non si allontana mai, contiene infatti un oggetto estremamente prezioso: la maschera del Re Lear. Il vecchio attore racconta con passione di come la sua  interpretazione del dramma shakespeariano lo abbia portato al successo, interpretazione però dalla quale non è più riuscito a separarsi, e lo capiamo dai racconti della sua vita quotidiana. Egli stesso afferma che ogni giorno, facendosi la barba o preparando la cena, ripete la parte per almeno venti minuti, e ogni domenica l’intera opera. Minetti spaccia questo comportamento come un “tener viva la memoria”, in realtà guardandolo da un punto di vista esterno sembra più un disperato tentativo di sentirsi ancora un attore vivo e presente sulla scena.    Continua la lettura di L’ultima performance: la vita

JE TE HAIME. Teatrodanza che racconta

“Odi et Amo”. Ti odio e ti amo scriveva Catullo, due sentimenti contrastanti, che mettono, però, radici nello stesso terreno, si scoprono complementari, come le facce di una stessa medaglia, si fondono e si saldano. Proprio come, nel titolo dello spettacolo, i vocaboli francesi “haine” odio e “aimer” amare, si uniscono a formare l’inesistente verbo “haime”. Inesistente solo sul vocabolario, ma assai presente e concreto nella vita di relazione. Il carme prosegue, nella traduzione di Salvatore Quasimodo “Forse chiederai come sia possibile; non so, ma è proprio così e mi tormento”. A questo rispondono i corpi dei due danzatori in scena. JETEHAIMEfoto-Olivier-GoirandCorpi tecnicamente impeccabili, che ricamano la narrazione legando tecnica di danza contemporanea, contact e una solida formazione teatrale. Continua la lettura di JE TE HAIME. Teatrodanza che racconta

A caccia di consapevolezza

Nel buio e nel silenzio del teatro si apre il sipario. Undici attori vestiti di nero sono disposti a schiera –in proscenio- con le spalle al pubblico. All’incirca al centro, il dodicesimo guarda verso la platea e veste di bianco. Intanto una gigantesca stella cometa -tempestata di 4300 crisantemi giallo-oro- discende dall’alto, molto lentamente, accompagnata dalle note dolci di Tu scendi dalle stelle.

Nessuno ha ancora proferito parola, eppure lo spettacolo ha già rivelato – a questo punto- molto di sé. Uno degli elementi scenici più simbolici è in scena, e l’aria pesante, mesta e sofferta –costante nel corso dello spettacolo- inizia, fin da subito, ad impregnare la sala. Latella, sin dall’inizio, sembra volerci avvisare: siamo di fronte a un testo più crudo e più violento di quel che si pensa, o che si è sempre pensato.

Inizia così questo percorso che attraverso la famiglia Cupiello ci parla anche e soprattutto di Eduardo De Filippo e della sua grande eredità. Ma l’eredità, come diceva lo stesso Eduardo, è la vita che continua: la vita che dalla morte viene rigenerata. Ed è esattamente su questo che Latella sembra voler rivolgere la propria attenzione.

Antonio Latella, attore e regista teatrale anticonvenzionale, ha da tempo a cuore il problema dell’eredità. Convinto, da un lato, dell’importanza della tradizione e della conoscenza del nostro passato teatrale, egli sottolinea, dall’altro, la necessità di assimilarla, digerirla, e quindi di interiorizzarla. Rifare significa morire, poiché la riproposta del teatro dei grandi maestri del passato preclude la possibilità -urgente e necessaria- di procedere: “I morti non ritornano” ci dice -non a caso- l’Arlecchino (interpretato da Roberto Latini) de Il servitore di due padroni (riscrittura integrale a cura di Ken Ponzio, regia di Antonio Latella).

Da qui uno spettacolo distante dall’ormai lontana messinscena eduardiana, di fronte al quale la perplessità del pubblico è palpabile. Ai più lo spettacolo non piace. Tra questi c’è chi ritiene indegno stravolgere in tal modo un capolavoro qual è l’originale Natale in casa Cupiello. A loro si aggiunge chi si sforza di capire, ma il cui sguardo nasconde in realtà una forte disillusione. Altri, semplicemente non riescono a mantenere la concentrazione. Per queste ragioni, durante l’intervallo che separa la prima parte (I e II atto) dall’epilogo(III atto), molte persone abbandonano la sala.

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Ora, che il lavoro di Latella sfoci verso l’intellettualismo è evidente. Così come è chiaro l’impegno e la preparazione che le sue messinscene presuppongono. Per meglio capire ciò di cui si sta parlando è bene soffermarsi un momento sull’interpretazione delle didascalie, elemento caratteristico e importante della rappresentazione. Ormai da tempo Latella adotta la particolare soluzione di affidare agli attori non soltanto la recitazione delle battute, ma anche quella delle didascalie: si tratta di un accorgimento tanto usato dal regista da essere stato più volte definito una sua cifra stilistica. Siamo di fronte a una modalità non sconosciuta prima di lui, ma sicuramente inusuale. Soluzione antinaturalistica e talvolta straniante, essa infatti, se da un lato amplia lo spazio scenico stimolando l’immaginazione dello spettatore –così come un romanzo-, dall’altro presuppone una conoscenza più o meno approfondita del testo, senza la quale, la fruizione dello spettacolo diventa problematica.

Chiarito questo, ci si potrebbe interrogare sulle svariate motivazioni per le quali il pubblico potrebbe avere ragione o meno a non apprezzare il lavoro di Latella, ma sarebbe un’operazione superficiale, oltre che scontata. E’ chiaro che uno spettatore digiuno di Eduardo e che per di più di napoletano se ne intende ben poco non capisca granché della messinscena del regista e per questo ne resti amareggiato. Più interessante sarebbe invece soffermarsi su un particolare atteggiamento -ormai diffuso, e, purtroppo, non solo interno al teatro-, che sembra attanagliare, sempre più, l’uomo moderno.

Ciò su cui preme far luce è una generale attitudine a rimanere sulla superficie delle cose. Lavoriamo per associazioni e accenniamo a due termini: società liquida -coniato dal sociologo, da poco mancato, Z. Bauman- e cultura della fretta, che Stephen Bertman crea per indicare il modo in cui si vive nel nostro tipo di società. Ci bastino per comprendere alcune delle ragioni di tale atteggiamento “superficiale”.   Ma in cosa consiste, nello specifico, questa incapacità di entrare nel significato profondo delle cose, in relazione allo spettatore che -addirittura innervosito per i soldi sprecati- lascia la sala a rappresentazione inconclusa? La risposta è semplice e breve tanto che la si potrebbe ridurre ad una sola parola: consapevolezza. O meglio nella mancanza di consapevolezza che lo spettatore dimostra nel presentarsi ad uno spettacolo senza conoscere, se non il testo, per lo meno la linea artistica- in questo caso fortemente anticonvenzionale- del regista. Come si è detto prima questa non vuole essere una polemica, ma una presa di coscienza, che ci permette di definire superficiale (non nella sua accezione negativa, ma come dato di fatto) l’atteggiamento di chi abbandona la sala con frustrazione, come se gli fosse stato fatto un torto. Quando, in realtà, l’unico responsabile del torto che pensa gli sia stato fatto è sé stesso.

Che il teatro sia fonte di divertimento non significa che esso rappresenti una banale evasione che ci permette di “spegnere il cervello”. Il teatro, così come altre forme di intrattenimento presuppone una certa consapevolezza. Che ci si trovi di fronte ad uno spettacolo teatrale, o ad un film, anche nel caso in cui esso sia un cinepanettone -per fare due esempi-, è diritto dello spettatore sapere dove si trova e cosa sta facendo.

Latella non contamina né rielabora i contenuti del testo. La sua messa in scena restituisce allo spettatore il testo intonso. E’ l’interpretazione visiva quella che varia, funzionale al regista per allontanarsi dall’autore quanto necessario a ritrovarlo.   Sì, si può certo non essere in sintonia con la linea artistica di Latella. No, non ci si può indispettire di fronte ad uno spettacolo perché esso non è “come ci aspettavamo”. Per quanto possa sembrare strano, anche quando la rappresentazione non piace il teatro può essere importante, ancora una volta è motivo di confronto, di riflessione. Anzi è importante soprattutto quello che “non piace”, che lascia “insoddisfatti” perché aiuta a formare un gusto e una consapevolezza che permetterà di essere critici e di pensare con la propria testa.

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Di Eduardo De Filippo
Drammaturgia Linda Dalisi
Con Francesco Manetti, Monica Piseddu, Lino Musella, Valentina Acca, Francesco Villano, Michelangelo Dalisi, Leandro Amato, Giuseppe Lanino, Maurizio Rippa, Annibale Pavone, Emilio Vacca, Alessandra Borgia
Regia Antonio Latella
Scene Simone Mannino, Simona D’amico
Costumi Fabio Sonnino
Luci Simone De Angelis
Musiche Franco Visioli
Teatro di Roma

 

La famiglia Popoch, o come lavorare per vivere.

I due protagonisti Yona e Leviva appaiono come due figurine su uno schermo.  Se si accetta l’idea secondo cui tra attore e pubblico, a teatro, non dovrebbe ergersi un vetro, nel caso de Il lavoro di vivere non è del tutto chiaro se questo vetro esista o meno. Questa rappresentazione è un quadro dipinto perfettamente. L’atmosfera è talmente fedele che viene da domandarsi se si assista a una storia raccontata già mille volte o a un pezzo di vita vera che assomiglia troppo a una finzione. La risposta che viene da darsi è che forse gi attori desideravano rendere proprio questa sensazione ibrida.
Carlo Cecchi, che intrepreta un uomo stanco della vita coniugale, sul palco si muove proprio come se fosse a casa sua. Inciampando e balbettando si comporta davvero come un marito che discute con la moglie. Se la sua intenzione era di trasmettere un dubbio, è stato eccezionale.
La camera da letto che accoglie i due coniugi è costruita con precisione analitica. Le serrande abbassate e i dettagli di luce contribuiscono a creare quella sensazione di “essere a casa”. Il lavoro di Gian Maurizio Fercioni è stato pertanto sobrio e corretto. Al centro di questa stanza c’è il letto attorno a cui girano i due personaggi, è il campo di battaglia loro e degli attori.
Fulvia Carotenuto interpreta Leviva e senza di lei Cecchi e Yona avrebbero poco senso. Nelle prime battute la sua interpretazione pare sotto tono rispetto a quella di Cecchi. L’attrice sembra semplicemente meno a suo agio con la parte. A un certo punto, però, Leviva si prende uno schiaffo e la recitazione di Fulvia Carotenuto dà uno schiaffo al pubblico. Diventa talmente vera che in lei si riconosce – al di là delle potenzialità del testo che lo permette – la chiave di lettura per capire l’interpretazione di Cecchi e il gusto di tutta la rappresentazione. Carotenuto diventa davvero una donna ossessionata dal “mettere su del tè” per risolvere i conflitti. Entra del tutto nel personaggio. Allora quando il testo richiede agli attori di rivolgersi al pubblico apostrofandolo direttamente, Cecchi e Carotenuto non parlano al vuoto, per pura retorica testuale, come potrebbe apparire superficialmente, ma è davvero come se fossero a casa loro a palare agli angoli, da soli, come a volte succede.
Carotenuto lascia un po’ di amaro in bocca solamente nel finale, dal momento che non si è goduta la sua tragedia, è andata veloce alla chiusura della rappresentazione, e tutta la scena ha perso di intensità.
Gunkel, il terzo personaggio, interpretato da Massimo Loreto è un personaggio senza né lode né infamia e la resa dell’attore non si discosta molto da questa definizione. Indubbiamente era fedele al clima della rappresentazione, ma mancava delle sfumature degli altri due interpreti.
Questo clima così intrigante è diretto dalla regia di Andrée Ruth Shammah che ha evidentemente compreso il testo di Hanoch Levin in tutte le sue virtù e potenzialità inespresse.
Un lavoro dunque, per quanto rodato a lungo, che ancora colpisce con ironie sottili e frecciatine ben piazzate, che sembrano uscite spontaneamente  ed è per questo che risultano ancora più amare. Il testo è costruito per aumentare in asprezza più ci si avvicina al finale e gli attori nelle ultime battute sono ormai riusciti a portare completamente il pubblico nella intimità della loro stanza. I movimenti di Yona diventano sempre più stentorei – reso da Cecchi fisicamente molto bene – finché a un certo punto, carico di angosce, si ferma. Non si muove più. Si alzano le serrande ed è giorno. Nella casa in cui tutti ci eravamo abituati a stare entra la luce. Questo finale, scenicamente incisivo, illumina tutte le sfumature.

Tante facce nella memoria e le sue vedove “assenti”

Lo spettacolo, andato in scena il 17 gennaio 2017 alle Fonderie Limone di Moncalieri, è una drammaturgia a sei voci. Scenografia di Paola Comencini, disegno e luci di Gianni Staropoli e regia di Francesca Comencini (regista di “Gomorra la serie”). Interpretato dalle bravissime Bianca Nappi, Lunetta Savino, Carlotta Natoli, Simonetta Solder, Chiara Tomarelli e Mia Benedetta che ne ha curato insieme alla regista i testi.tante-facce-6

Sei storie di donne protagoniste, a vario titolo, dell’eccidio di uomini a loro cari nelle Fosse Ardeatine quando nel 1944, a seguito dell’attentato di Via Rasella, i nazisti coadiuvati dai fascisti si vendicarono con atrocità devastante contro uomini colpevoli di aver difeso il loro onore, amor di patria e libertà. A causa della morte di 33 soldati delle SS furono arrestati e uccisi 335 italiani, l’ordine era “per ogni tedesco ucciso dovevano morire 10 italiani”.

Una voce fuori campo ci ricorda che non siamo di fronte ad uno sceneggiato né a racconti di fantasia, ma a testimonianze dirette raccolte da Alessandro Portelli, uno dei principali studiosi della storia orale, che ha ispirato la regista.                                                                       Lo spettacolo, incentrato sulla memoria e sulla necessità di ricordare, mette al centro la figura femminile ricordandoci quante donne coraggiose hanno partecipato attivamente come partigiane o compagne di partigiani. Non c’è ricordo più forte di chi realmente l’ha vissuto, ricordo che con grande abilità le sei attrici hanno incarnato con molta emotività e sensibilità tanto da non distinguere più l’attore dai personaggi realmente esistiti. Sei monologhi carichi di emozioni, ricordi e qualche nostalgico rimpianto.   Le tre donne partigiane (Bianca Nappi, Mia Benedetta e Chiara Tomarelli) rievocano in tono freddo, duro e umile le gesta violente quanto necessarie compiute.  Le donne non partigiane, con le eccellenti interpretazioni di Lunetta Savino,tante-facce-10Carlotta Natoli e Simonetta Solder, invece, raccontano con più pathos quei momenti di intime sofferenze e di privazioni vissute per la mancanza dei loro cari (padri e mariti).

Viene rappresentato un lutto mai veramente rielaborato perché per anni la storia non ha mai riconosciuto e ricordato abbastanza il sacrificio e il supplizio che quegli uomini e indirettamente quelle donne, ora finalmente unite nel ricordo, hanno vissuto per difendere un’ideale nobile e la patria. E’ un lutto strano, un lutto di figlie, madri e vedove assenti. Assenti perché per anni non hanno potuto raccontare, perché emarginate, perché parenti di antifascisti caduti; assenti perché madri sole con figli da accudire. Non avevano avuto neanche il tempo di piangere. Assenti perché non sapevano nulla, avevano visto arrestare i loro cari, avevano immaginato e anche sperato che fossero stati deportati nei campi di concentramento. Invece no, un trafiletto su “Il Messaggero” il giorno seguente diceva: “L’ordine è già stato eseguito”. Non restava che riconoscerei cadaveri quasi irriconoscibili.                                                                                                 Colpisce una scenografia scarna ma d’impatto, essenziale ma non spoglia: in primo piano le sei sedie e in quinta tanti cappotti appesi quante furono le vittime. L’attenzione è tutta focalizzata su quelle sei donne illuminate da una luce lieve. Sono sei voci che come un’orchestra ben diretta diventano un solo afflato di dolore ma anche di fiducia. E quando lo spettacolo, che ha tenuto un silenzio ingombrante in sala, arriva al finale, le sei donne si raccolgono sotto i cappotti come fossero un’unica persona e a chiudere la pièce teatrale viene suonata la canzone Sempre di Gabriella Ferri.  Le attrici sono sensibilmente commosse, quasi consapevoli che non ci sarà mai un altro ruolo che le farà ritornare a essere quelle donne così fragili ma forti, così comuni ma eroiche. A fine spettacolo tutto il pubblico le richiama con applausi svariate volte dalle quinte e le attrici rientrano sempre ringraziando e riapplaudendo a loro volta il pubblico.

Virginia Cappuzzo.