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Fotografia della Mafia

Alla Fabbrica delle “E” di Torino è andato in scena in prima assoluta  La donna che cammina sulle ferite dei suoi sogni, uno spettacolo della compagnia Viartisti.
Questo è il primo della stagione del ciclo di Teatroimpegnocivile.

Il lavoro presenta l’incredibile vita di una donna, Letizia Battaglia, che ha voluto raccontare attraverso i suoi reportage a Palermo, in quasi vent’anni,  la guerra delle mafie, esprimendola con immagini molto forti e vere.

Scena aperta, scatoloni che fanno da scenografia, fondale nero che si illumina fin da subito con le parole di Letizia: le sue foto che ci accompagnano per tutto lo spettacolo.
Le due attrici in scena, Serena Barone e Gloria Liberati, incarnano l’anima di Letizia, a volte in prima persona a volte in terza, ci raccontano che cosa è stato vivere vedendosi portare via l’istruzione, che cosa ha significato stare in casa, essere donna ma in realtà esserlo solo nella propria casa e solo dopo essersi sposata. Un matrimonio infelice che porta Letizia ad allontanarsi, a Milano. Ma a Letizia non piace Milano, vuole la sua terra anche se succedono cose spaventose. Tornata a Palermo inizia a lavorare come giornalista di cronaca. Le sta stretto dover scrivere, Letizia non è una donna di molte parole. Poi finalmente può raccontare attraverso 1, 2, 500, 1000 e ancora di più foto quello che vede.

Il testo, inedito, scritto da Riccardo Liberati e Pietra Selva, che cura anche la regia, usa parole che servono per spiegare i contenuti di quelle immagini forti. Servono per raccontarci chi è sempre stata dietro la macchina fotografica a scattare. E a un certo punto l’attore chiede al pubblico dove sia Letizia, e si scusa perchè loro stanno usando tante parole, e lei invece è stata capace di non usarne nessuna, perchè le immagini dicono molto di più e il loro compito è quello di sbalordirci e di non farci dire una parola.
Molto suggestive anche le proiezioni che accompagnano tutto lo spettacolo: fotografie che hanno testimoniato venti anni di guerre.
Qualche piccolo inconveniente tecnico legato al suono non è stato in realtà un problema.  Perchè le immagini create dagli attori parlavano in maniera fortissima.390x390_5739a439ce71a_260x260

Letizia Battaglia ieri sera era presente in sala. Alla fine dello spettacolo è stata chiamata sul palco: visivamente commossa ha ringraziato la compagnia, l’autore Riccardo Liberati e la regista Pietra Selva. Il tutto senza dire una parola e facendoci capire ancora una volta che le azioni e le immagini sono più forte di qualsiasi altra cosa.

Elisa Mina

di Riccardo Liberati e Pietra Selva
regia Pietra Selva

con Serena Barone, Gloria Liberati, Alberto Valente
collaborazione artistica e video Riccardo Liberati
consulenza video Eleonora Diana
allestimento Carmelo Giammello
luci Eleonora Diana

produzione Viartisti Teatro
in collaborazione con
Festival delle Colline Torinesi

Una Monica al bacio

di Matteo Tamborrino

«Nacqui nei ’70 e giunsi in anni cupi,/ libero lo spirto mio com’è quello dei lupi./ Da subito in fattezze de masculo/ sentii smover, de drentro,/ l’intensa femminina forza,/ la scorza,/ ch’el tempo avrebbe trasmutato/ in delicata movenza,/ in gentile essenza de bambino/ che l’ambigua carta porta,/ ma ancor senza difesa,/ alfin non resta che la resa;/ lo pensiero dello sbaglio,/ il nascondiglio,/ la lacrima sul ciglio,/ al voler sentire che forte preme/ lo desiderio de svelar/ il sommovimento,/ lo stordimento, de scoprir la direzione/ c’agli altri par sbagliata» (da L. Fontana, Monica Bacio. Frammenti per un monologo)

Lorenzo Fontana/Monica Bacio
Lorenzo Fontana/Monica Bacio

Abbiamo sentito parlare spesso, negli ultimi mesi, di questa bionda squinternata Monica, e ora, finalmente, l’abbiamo conosciuta.

DSC7686-1024x682La creatura teatrale di Lorenzo Fontana  – ispirata a un personaggio del drammaturgo canadese Michel Marc Bouchard – è nata da un  articolato percorso creativo e ha avuto il suo  debutto  ufficiale al Teatro Astra di Torino: «Negli anni – spiega Fontana nelle note di regia – [Monica] è diventata il mio alter ego. Quando ho iniziato a scrivere questa storia, fortemente autobiografica, ho capito subito che mi serviva un tramite per raccontarla e mi è sembrato che la Bacio fosse lì apposta. Ho scritto il lamento di Monica perché credo che sia importante riconoscere il diritto di crescere diventando quello che sentiamo di essere davvero, nel modo più autentico possibile. Quando siamo piccoli c’è sempre qualcuno che pensa di sapere cosa sia giusto per noi, ma quello che è giusto per noi già lo sappiamo, abbiamo solo bisogno di essere accompagnati nel nostro viaggio di costruzione dell’identità».

Il lamento, ovvero le lacrime, di Monica Bacio è un esempio di ottima scrittura scenica.  Un prodotto, anzi no, un’opera preziosa, rara, vera. I versi accarezzano l’orecchio e giocano con la mente. È la potenza della lingua,  dell’italiano nella sua proteiforme beltà, da far andare in “brodo di giuggiole” file intere di letterati. Non è mai la parola stantìa e polverosa delle rappresentazioni da m(a)us(ol)eo. È la parola musicale di un teatro poetico, ma poetico per davvero. E non solo perché in rima.

Fontana_Manescalchi_JudicaOvviamente nulla di tutto ciò sarebbe stato possibile senza un buon cast. In scena il collaudatissimo trio Fontana-Manescalchi-Judica Cordiglia. La pièce ripercorre varie fasi di crescita del protagonista, dall’infanzia all’età adulta, passando per l’adolescenza. Quadri che dipingono situazioni, emozioni, pensieri: la sfilata casalinga in tacchi alti, la partita di calcio, il giardinetto della foia, il bagno turco. La Creante/Manescalchi dà sostanza e azione ai Memoires di Monica/Fontana; a punzecchiare la narrazione intervengono la voce e le mani (e a un certo punto anche il corpo) di Giancarlo Judica Cordiglia, per lo più nei panni (o meglio nei volti) dei genitori.

Di fronte allo spettatore uno svettante cono fucsia adorno di toppe e finti seni, due cespugli, un pallone, una panchina, una parrucca luminescente. Il tutto racchiuso da un buio quasi onirico, da chiar di luna. Quella stessa Luna cacciatrice, con cerchietto e arco, che comparare all’inizio dello spettacolo. La scena, a dire il vero, ci coglie impreparati: forse – stando a quanto Monica aveva lasciato intendere su Internet – ci saremmo aspettati più kitsch, più esuberanza, più ostentazione. E invece no. Il gioco è sempre leggero, mai violento o invasivo. L’incanto delle ombre, poi, è particolarmente evocativo.  Si scherza sì, ma sempre con eleganza. E con il sottofondo di Mina. Non c’è mai la risata sguaiata da spogliatoio. Anche l’allegra falloforìa che a un certo punto invade il palco non è volgare. Perché dietro c’è sempre la storia di “Monica”, che non si piange addosso, ma ci aiuta a riflettere.

E quindi, Monica, tra una copertina di Vogue e il nuovo spot di Pasta Diluvio, continua a “lamentarti”!

IL LAMENTO, OVVERO LE LACRIME, DI MONICA BACIO-
(Prima Nazionale – 16/6/2016, Teatro Astra – Torino)
di Lorenzo Fontana
regia Lorenzo Fontana
con Olivia Manescalchi, Giancarlo Judica Cordiglia e Lorenzo Fontana
scene Paolo Bertuzzi
costumi Viola Verra
light designer Cristian Zucaro
sound designer Luca Vicinelli
direzione tecnica Alberto Giolitti
presentato in collaborazione con Fondazione Teatro Piemonte Europa nell’ambito di Scene d’Europa

Acqua di colonia

Giornali, radio, televisione, social network, politica, libri di scuola… Perché nessuno parla del colonialismo? Perché fin dall’inizio venne dimenticato? Sono proprio queste domande che i due attori Elvira Frosini e Daniele Timpano si sono posti quando due anni fa hanno ideato lo spettacolo Acqua di colonia. Uno spettacolo in cui sono riusciti a portare in scena un momento importante della storia italiana che, al contrario di come viene ricordato (ammesso che sia conosciuto), ebbe inizio sin dal 1882, e non si riduce quindi solamente ai cinque anni dell’Impero Fascista. Una storia banalizzata, schernita, nascosta e camuffata il più possibile per poi essere dimenticata. E così, come gli attori all’inizio dello spettacolo hanno fatto con il pubblico, anch’io chiedo a voi: “Qualcuno si ricorda qualcosa sul colonialismo? Qualcuno ricorda di averlo mai studiato a scuola?” Se la memoria vacilla possiamo allora affidarci alla lettura di libri, magari testi scolastici. Sapete cosa troveremmo? Nulla. Vuoto. Silenzio. Completo silenzio. Quel silenzio di chi sa e non dice, di chi ha subìto e non ha potuto gridare. Orecchie troppo sorde per udire voci ormai troppo consumate, strappate da chi non voleva che si udissero. E a questo punto, perché interessarsi? Perché scavare a fondo? Ormai le nuove generazioni non si sentono più responsabili di nulla. “Tanto erano altri tempi, non eravamo noi, chi se ne importa. È acqua passata, acqua di colonia, cosa c’entra col presente?”
Siamo attorniati da etichette già pronte, schemi di pensiero già formulati per noi, stereotipi già confezionati, dalla pubblicità alla politica, tutti ci bersagliano e noi non ce ne rendiamo conto.

I due attori, con il loro spettacolo alle Lavanderie a Vapore, di cui ho avuto l’occasione di essere spettatrice solo alla prima parte, si sono presentati al pubblico come chi deve mettere in scena un lavoro e si chiede da dove partire. Iniziano così a cercare di capire cosa sia stato il “colonialismo”, ma la disinformazione risulta un ostacolo molto difficile da superare. Cercano risposte nei filosofi, nei pensatori degli ultimi due secoli, ma hanno grandi delusioni. Allora tentano un’altra tecnica: l’immedesimazione, di se stessi e del pubblico, nella condizione di carnefici di altri uomini. Provano ad immaginare di doversi sbarazzare di alcuni peluche vecchi dell’infanzia, di immaginarli lì sul pavimento morti e di prenderli ad uno ad uno e, guardandoli, buttarli in un sacco nero dell’immondizia. Immaginare tutto il sangue sparso. Ma era necessario, andava fatto, era ormai roba vecchia, già passata.
Naturalmente il rimando alla situazione attuale dell’immigrazione, alle condizioni degli immigrati, sulla nostra consapevolezza e sul nostro dovere di agire, era spontaneo e loro non se lo sono fatti mancare.
E infatti, dopo aver provato a domandarsi come avrebbero potuto fare per capire, spiegare il colonialismo e la sua rimozione, giungono alla conclusione che è inutile preoccuparsi. Tanto vale rilassarsi, “Ora possiamo andare anche noi al mare, ma non sul fondo..!”.
Alessandra Botta

Di Daniele Timpano e Elvira Frosini

Regia: Daniele Timpano e Elvira Frosini

interpretazione: Daniele Timpano e Elvira Frosini

consulenza: Igiaba Scego

aiuto regia e drammaturgia: Francesca Blancato

scene e costumi: Alessandra Muschella e Daniela De Blasio

disegno luci: Omar Scala

progetto grafico: Antonello Santarelli e Valentina Pastorino

con la partecipazione di Suad Omar

produzione: Elvira Frosini e Daniele Timpano

 

 

 

Verità nascosta da una farfalla

Ieri è andato in scena 1983 BUTTERFLY, spettacolo della “Piccola Compagnia della Magnolia” in prima assoluta al Festival delle colline.

Il lavoro narra la storia di Bernard Boursicot e Shi Pei Pu, persone realmente vissute, in maniera molto intima, raccontando e mettendo in scena pagine del diario di Boursicot.

Un giovane contabile francese, in viaggio per lavoro nella Pechino del 1962 incontra un cantante d’opera, Shi Pei Pu, che si è appena esibito nella “Madame Butterfly”. Nonostante si dica che i cinesi odino la Butterfly come opera perché vi ritrovano l’oppressione dell’uomo occidentale sulla donna orientale, Bernard trova che in Shi ci sia qualcosa di speciale.
Tra i due nasce un sentimento, Shi gli racconta che in realtà è una donna, avranno un figlio insieme. Andranno a vivere in Francia tutti e tre.
Bernard inizierà a passare documenti francesi alla Cina per poter proteggre la sua famiglia.
Qualcosa smuove l’apparente felicità che c’è in questa sorta di famiglia. Un’accusa di controspionaggio. Una rivelazione che sconvolge tutto.

Lo spettacolo è realizzato da due soli attori.
I due si scambiano i ruoli di sesso, Davide Giglio interpreta Shi, Giorgia Cerutti interpreta Bernard. Devo ammettere che magnolia foto repertorio 1per la prima parte dello spettacolo la cosa mi ha turbato. Mi chiedevo il perchè di questa scelta. Ma, a un certo punto, sono le stesse parole del diario di Bernard a spiegarci che la sessualità non ha importanza. A fronte di ciò, ritengo che gli attori abbiano giocato molto bene su questo aspetto e abbiano saputo sfruttarla per una resa scenica ancora più di impatto.
Non ho apprezzato molto però l’uso dei microfoni. Mi sembra che servissero puramente per amplificare la voce e non per creare effetti particolari. E’ vero, i due attori hanno camuffato la voce per tutta la durata dello spettacolo, però sono ancor dell’idea che in teatro la parola debba arrivare senza mezzi intermediari.
Altro protagonista è lo schermo : stretto e a tutta altezza, ci mostra i fatti, ci porta da un luogo all’altro, da un anno all’altro, permettendo così alla compagnia di usare una scena molto essenziale e pulita. Un pavimento bianco, un bancone rosso, sei candele : tre a un capo del bancone e tre dalla parte opposta.
La storia di per sé è molto cruda, ma racchiude un non so che di poetico. Negli anni passati era già stata portata alla luce e i protagonisti resi immortali da un film . Ma grazie al teatro si è potuto rinnovare questa poesia e libertà delle proprie scelte che porta a un destino triste e infelice.

Elisa Mina

 

di Giorgia Cerruti
regia Giorgia Cerruti

assistente alla regia Cleonice Fecit
con Davide Giglio e Giorgia Cerruti
scene e luci Lucio Diana
costumi Gaia Paciello – atelier Pcm
musiche Giorgia Cerruti – Cleonice Fecit
organizzazione Giulia Randone

produzione Piccola Compagnia della Magnolia, Festival delle Colline Torinesi

UN MAGO D’ESTATE

 

Un mage en été, una visione di suoni onirici.

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Già presentato nel 2010 in occasione del Festival d’Avignon, Un mage en ètè di Olivier Cadiot con la regia di Ludovic Lagarde ha fatto la sua prima e unica tappa italiana al  Gobetti di Torino, città perfetta per ospitare il “mago” francese Laurent Poitrenaux e il suo vortice di sensazioni e idee, per il Festival delle colline torinesi.

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Si spengono le luci , il sipario si apre. Solo sul palcoscenico, un insolito mago vestito di bianco inizia un monologo che è poesia.  Ho un occhio puntato ai sopratitoli e l’altro verso Laurent Poitrenaux, e ciò che vedo è un mago moderno, una macchina teatrale.

Il mago Robinson vive chiuso in una stanza che è il suo mondo, si costruisce tutto solo la sua isola interiore, la sua vita quotidiana. È un susseguirsi di visioni da sogno, di”rumori bianchi”che rilassano ma non fanno addormentare, dettagli uditivi con articolazioni pop-elettroniche che non so dire da dove provengano ma creano effetti lontani. Robinson condivide con noi il fuoco di emozioni che si scatenano al ricordo di una ragazza X che lui vede distesa beata nella natura illuminata da un sole forte, fino al loro incontro e a un bacio. Adesso vede una nave vichinga e rumorosa, ora vede Nietzsche giocare a golf e ha una voce robotica e distorta che mette quasi paura. Poi chiude gli occhi: è un cantante sott’acqua, si crea uno pseudonimo accattivante.

Non ci sono trucchi di magia da tenere nascosti, Robinson è un mago di percezioni legate a immagini che invadono lo spazio in un turbine di forme geometriche. Sta comprendendo le cose del mondo, le vive dal suo punto di vista, e lo fa con umorismo.

Questo testo di Oliver Cadiot ha una forma ciclica, è il serpente che si mangia la coda, una rinascita. Quello che egli vede lo ha già visto, è un infuso di nostalgia, felicità, rabbia. E’ una meditazione sul potere del pensiero.Un mago d'estate

Il colore verde con le sue tonalità è ricorrente per tutta la durata dello spettacolo: dalla visione della ragazza nella natura, fino all’epilogo quando lui stesso torna giovane  e rannicchiato, “sott’acqua nato”.

Buon teatro e buona magia a tutti!

Alessandra Pisconti

di Olivier Cadiot regia Ludovic Lagarde

con Laurent Poitrenaux scenografia Antoine Vasseur luci Sébastien Michaud costumi Fanny Brouste immagini/visual design Cédric Scandella drammaturgia Marion Stoufflet applicazioni informatico-musicali Ircam/Grégory Beller suono David Bichindaritz coreografie e movimenti Stéfany Ganachaud video Jonathan Michel codice creativo Brice Martin Graser

produzione La Comédie de Reims Centre Dramatique National coproduzione Festival d’Avignon, Ircam/Les Spectacles Vivants – Centre Pompidou, Centre Dramatique National Orléans/Loiret/Centre con il sostegno di Région Champagne-Ardenne il testo Un Mage en été è pubblicato dalle edizioni P.O.L

traduzione Gioia Costa per il Festival delle Colline Torinesi

Anteprima Killing Desdemona

16/06/2016

Ieri pomeriggio (il 16 giugno) ho avuto la possibilità di assistere alla prova generale di Killing Desdemona, presentato al Festival delle colline in Anteprima Nazionale della compagnia BALLETTO CIVILE.
Lo spettacolo ideato da Michela Lucenti e Maurizio Camilli, con musica dal vivo Jochen arbeit è bellissimo.
Premettiamo che “prova” non è mimimamente sembrata, gli attori e i ballerini sono stati all’altezza di una vera e propria replica.

Il lavoro racconta la vicenda dell’ Otello tentando di sottolineare in maniera ancora più marcata la posizione e l’amore di Desdemona. La compagnia ha un uso molto suggestivo dei microfoni grazie ai quali si riescono a creare effetti nuovi, frusciiBALLETTO CIVILE_7, echi lontani e canti che ci trasportano in un altro mondo.
Molto forti e toccanti sono le coreografie di tutti i personaggi che col corpo danno vita alle vere parole del testo: quelle non dette. Ciò accade fin da subito, con Desdemona e il Moro, che entrano in questa sorta di danza mentre cinti l’uno all’altra si amano, e poi anche con gli scontri comici tra Iago e Cassio, tra Otello e Iago, che ci mostrano la vera forza di questa storia di gelosia, amore e rabbia.

Per la rappresentazione di oggi la compagnia ha gia il tutto esaurito.
Non mi resta che augurarvi, cari lettori : buono spettacolo…

KILLING DESDEMONA
Ideazione Michela Lucenti e Maurizio Camilli
Regia e Coreografia Michela Lucenti
Musica originale eseguita dal vivo Jochen Arbeit (Einstürzende Neubauten)
Interpretato e creato da : Fabio Bergalio, Maurizio Camilli, Andrea Capaldi, Ambra Chiarello, Michela Lucenti, Demian Troiano, Natalia Vallebona
Scene e costumi Chiara Defant
Realizzazione scene Alessandro Ratti

Produzione Balletto Civile, Festival delle Colline Torinesi, Ravello Festival, Neukoellner Oper Berlin, Compagnia Gli Scarti
con il sostegno di Mare Culturale Urbano , CTB Centro Teatrale Bresciano , Festival Resistere e Creare, Centro Dialma Ruggiero-FuoriLuogo

Elisa Mina

Jerusalem: la pièce di piombo (fuso)

di Matteo Tamborrino

“Il Consiglio di sicurezza […] esorta le parti israeliana e palestinese e i loro leader a cooperare[…]. Decide di continuare a seguire con grande attenzione la questione” (da Risoluzione ONU n. 1397/2002). Questione. È un termine che raggela, soffoca, come piombo fuso. Che scende dritto nei polmoni.

Ruth Rosenthal in scena
Ruth Rosenthal in scena

Jerusalem Cast Lead (premio giuria come miglior performance all’Impatience Festival di Parigi nel 2011) è il battesimo torinese di Winter Family, duo di musica sperimentale franco-isrealiano nato dodici anni fa dall’incontro artistico tra Ruth Rosenthal e Xavier Klaine, fucina di molti spettacoli di teatro documentario, sempre proposti in spazi non convenzionali. Dopo aver fatto il giro del mondo – dall’Europa in Israele, dal Giappone in Canada – Ruth & Xavier approdano sul palco dell’Astra, con il loro “rotacistico” agitprop dai toni rochi.

Lo spa901504_518678041528409_1330654207_ozio scenico, albino, somiglia a un foglio piegato: due facce perpendicolari, con la metà verticale che – all’occasione – si trasforma in grande schermo, atto a resuscitare grandi celebrazioni di massa, canti melanconici e danze folkloristiche di un passato ancora prossimo. Figure virtuali a cui l’ombra della performer puntualmente si mescola. Quello che si coglie non è però un candore puro, immacolato, rasserenante, bensì un bianco freddo, livido, da obitorio (su cui giocano perfettamente le luci, ora abbaglianti, ora più fioche).

Quattro casse, qualche microfono, una Coca e un tramezzino. E poi file ossessive di bandiere, stelle ciano incastonate in un manto interrotto di tallèd. La Rosenthal ha un vestito scuro, casalingo, di quelli che si vedono nei documentari sulla Seconda Guerra Mondiale, mosso da un’indecifrabile fantasia; e poi trecce da bambina; e scarpe da ginnastica con la suola violetta. Questa la cromia della pièce: una “limpidezza sporca” che nasconde mostri di piombo. I mostri della storia. Il timbro sonoro è penetrante, fende i timpani; i movimenti sono geometrici, perlustrano tutto lo spazio disponibile. La protagonista si barrica sempre più dietro fragili mura simboliche. È davvero una sintesi allucinata nella sua cruda realtà, oppressiva e mai dispersiva.

Ma che cosa c’è, dentro? «In occasione dell’anniversario della formazione dello stato di Israele e della riunificazione di Gerusalemme nel 2008 – racconta il programma di sala – i Winter Family incidono a Gerusalemme il brano Jerusalem Sindrome per la radio France Culture. Ruth Rosenthal e Xavier Klaine decidono di sviluppare e approfondire questo lavoro e di creare una performance di teatro documentario: così nasce Jerusalem Cast Lead. Fra il 2009 e il 2010 Ruth e Xavier documentano le cerimonie commemorative nazionali nelle scuole, nei quartieri, in un gran numero di luoghi simbolici di Israele. In scena la stessa Ruth guiderà il pubblico in un viaggio nella società israeliana attraverso suoni, immagini e testi che celebrano il dolore, la memoria e il coraggio. I simboli di questi elementi permeano la vita quotidiana degli israeliani, che ne sono sopraffatti, quasi, come recita il sottotitolo, come vivessero sotto una dittatura emotiva».

Con codici volu541916_684599334936278_965661395_ntamente semplificatori, Winter Family cammina, o meglio saltella, sul filo sottile che separa il sionismo collettivo, fatto di tradizioni comunitarie e pillole di memoria storica (prima fra tutte la shoah, che si materializza in cinque candele che si specchiano), dagli atti esecrandi di una società che viene smascherata, senza retorica ma anche senza pietà, nelle sue manipolazioni. Si tratta di una vera cecità visiva e cognitiva. “Gli insegnanti – ripeto parafrasando – ci portavano a vedere i kibbutz. Ci dicevano soltanto che una volta avevano nomi arabi. Noi non indaghiamo oltre”.

Due elenchi risuonano nelle orecchie degli spettatori: la sequela dei bambini sterminati nei lager da un parte, i prénoms dolceamari delle operazioni militari israeliane dall’altra: Colonna di nuvola, Arca di Noè, Grappoli della collera, Piombo fuso. Oferet Yetsukah. Cast Lead. Le scritte e i sopratitoli, che leggiamo con foga e con un po’ di alienazione (per via della scomoda posizione dei due schermi), non ci possono lasciare impassibili. L’animo – alla fine – è un po’più scuro, meditabondo. Plumbeo.

 

JERUSALEM CAST LEAD. HALLUCINATORY TRIP IN AN EMOTIONAL DICTATORSHIP
di Rosenthal & Klaine
regia Rosenthal & Klaine
idea originale, registrazione, regia e progettazione Winter Family (Rosenthal & Klaine)
con Ruth Rosenthal
suono e video Xavier Klaine
disegno luci e direzione tecnica Julienne Rochereau
tecnico del suono Sébastien Tondo
voci Marilee Scott & Brian Gempp
collaborazione artistica Yael Perlman
produzione Winter Family e ESPAL du Mans
residenza creativa Ferme du Buisson e Fonderie au Mans
versione francese con sopratitoli in italiano
traduzione a cura di VIE Festival Modena

Reality: i diari di Janina Turek

Cosa darei ogni tanto per essere morta, anche solo per cinque minuti”

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Una donna e un uomo inscenano una morte, provandola e riprovandola, cercando di renderla più “realistica” possibile, badando tuttavia a dettagli plateali quali una ciocca di capelli sul volto o la posa che assume un corpo privo di vita una volta caduto a terra. Da questo studio incomincia la storia di Janina Turek, partendo proprio dalla sua morte, avvenuta all’età di 80 anni a causa di un infarto, per le strade di Cracovia.

Subito le lancette del tempo vengono spostate indietro, nel febbraio 1943, poco dopo Continua la lettura di Reality: i diari di Janina Turek

PPP: LE PAROLE SONO ATTENTATI

PPP ULTIMO INVENTARIO PRIMA DI LIQUIDAZIONE: questo il titolo dello spettacolo con cui il duo Ricci/Forte sceglie di omaggiare Pier Paolo Pasolini nel quarantesimo anniversario della sua scomparsa.

Data la ricorrenza, questa scelta non può che rappresentare una scommessa. Innanzitutto perchè il rischio di cadere nel vuoto memorialismo e negli stereotipi è elevato. In secondo luogo perchè si tratta di celebrare un artista dalla personalità poliedrica che ha fatto dell’eclettismo il tratto distintivo della sua attività intellettuale.

I due giovani autori-registi, forti della loro idea di teatro, non si sono lasciati intimorire dalle circostanze e hanno cercato un approccio diverso che segna una frattura decisiva rispetto ai lavori che in questi decenni si sono succeduti attorno all’universo pasoliniano.

Il coraggio di questa scelta si evince dal non aver optato per l’allestimento di un’opera teatrale scritta dallo stesso Pasolini, ma nell’aver capito che l’eredità di questo artista è un pozzo di domande a cui dobbiamo ancora delle risposte.

Ecco allora che Pasolini in questo spettacolo non diventa il mito da celebrare, ma la guida di un viaggio, un’intima esperienza di scoperta che attori e spettatori compiono indistintamente.

Proprio per questo si rivela interessantissimo il lavoro fatto da Ricci/Forte per la stesura del testo. La tessitura drammatica, lungi dall’essere un catalogo di citazioni letterarie e cinematografiche, alterna momenti di riflessione a scene giocate sull’impatto sensoriale. Nei primi, è la parola a prevalere, nei secondi la comunicazione è tutta affidata a suono e movimento. La trama è assente: non vengono qui ripercorse né le vicende umane, né quelle intellettuali di Pasolini. Lo spettacolo apre una serie di focus tematici su questioni centrali dell’opera pasoliniana che ancora oggi si pongono con tutta la loro bruciante attualità.  È lo sguardo all’indietro che Pier Paolo fa prima di sciogliersi nel ventre liquido del mare di Ostia.

I protagonisti sono un uomo e cinque donne dalla differente provenienza geografica che dialogano ed interagiscono tra loro in un’atmosfera distorta, dai tratti allucinatori. La loro identità non è mai dichiarata. Non c’è Pier Paolo. C’è un uomo che di fronte alla sua macchina da scrivere non accetta di avere un foglio bianco, mentre riecheggiano irrisorie le note di The Show Must Go On. Ci sono delle donne che orbitano attorno a lui, lo interrogano, lo deridono, lo cercano. Non ci sono personaggi, ma un’unica tensione riflessa in sei corpi diversi, tutti accompagnati dalle loro ombre di dubbio.

L’allestimento scenografico consiste in un ammasso di pneumatici, elemento imprescindibile dello spettacolo, che richiamo la tragica fine che l’artista trovò sul lido di Ostia nel novembre 1975. Toccante la scena finale che rievoca l’accaduto con forti accenti lirici.

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Ne deriva un’opera dalla struttura frammentaria, aperta, di cui è difficile rendere conto. Un’esperienza forte che richiama in causa tutti quei nodi contraddittori che Pasolini non è riuscito a sciogliere e che ancora non cessano  di tormentarci.

Uno fra tutti il rapporto tra intellettuale e realtà: due universi distinti che si scontrano e si fanno violenza reciproca.

L’artista è qui “un santo, uno stronzo, un idiota”. Perennemente in bilico tra il possesso del proprio io e l’essere posseduto dal mondo. Inevitabilmente destinato a soccombere di fronte alla natura refrattaria del reale e agli uomini che masticano e sputano la poesia nella convinzione di averla compresa.

Ad essere rappresentato è il dramma di un Pasolini, confinato fuori dalla Storia, in eterna lotta tra un mitico ritorno alle origini e uno sguardo lucido e profetico sul futuro.

Questa disillusione simboleggia sì la condizione propria dell’intellettuale, ma richiama anche il disagio personale dei due registi che hanno dovuto abbandonare l’Italia per vedere realizzata la loro vocazione artistica.

Uno spettacolo che dunque ci invita a riflettere su quale possa essere il senso di fare cultura in un paese inginocchiato, in cui il conformismo ci illude di essere liberi.

Non a caso l’omologazione è un altro dei temi tanto cari a Pasolini. Di grande impatto la scena in cui la conformazione ai dettami della società consumistica è rappresentata come ricerca ossessiva e nevrotica di un piacere inappagante.

Ineludibile infine il confronto con i temi della trasgressione e della sessualità: forza vitale primaria, pura dimensione corporea. L’uomo preda degli istinti animali è emblematicamente rappresentato dalle maschere da maiale indossate dalle attrici.

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Ricci e Forte propongono un teatro coraggioso e nuovo che inevitabilmente non può raccogliere l’unanimità dei consensi, ma che indubbiamente può ritenere di aver vinto la propria scommessa in un terreno tanto scivoloso quanto quello pasoliniano.

Cecilia Nicolotti

PPP ULTIMO INVENTARIO PRIMA DI LIQUIDAZIONE

omaggio a Pier Paolo Pasolini

di ricci/forte
regia Stefano Ricci

con Capucine Ferry, Emilie Flamant, Anna Gualdo, Liliana Laera, Giuseppe Sartori, Catarina Vieira
drammaturgia ricci/forte
movimenti Francesco Manetti
scene Francesco Ghisu
costumi Gianluca Falaschi
ambiente sonoro Andrea Cera
direzione tecnica Alfredo Sebastiano
assistente regia Ramona Genna

produzione ricci/forte
coproduzione CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Festival delle Colline Torinesi