Per la seconda volta, a distanza di pochi giorni mi ritrovo ad assistere ad un nuovo spettacolo al Teatro Carignano. Questa volta si tratta di Sogno di una notte di mezza estate diretto da Elena Serra.
Il teatro, sia per Romeo e Giulietta che per Sogno di una notte di mezza estate si è prestato ad un mutamento scenografico, allargando il palco fino a metà spalti e ricoprendolo di erba sintetica, quasi come se fosse una vera e propria scena elisabettiana.
Se con Romeo e Giulietta rimasi entusiasta per la freschezza degli attori nel rendere la tragedia una visione fanciullesca, nel Sogno la compagnia si è superata. Questi giovani attori sono riusciti a dare un qualcosa in più.
Non è la prima volta che assisto alle loro rappresentazioni e man mano, spettacolo dopo spettacolo, emergono nuove sfaccettature del loro modo di lavorare .
Questa volta, quello che mi ha colpita è stata il senso di interezza che sono riusciti a far emergere da una delle più famose commedie di Shakespeare, rendendo le parti uniche nel loro genere. Visto che il testo non ha un unità di tempo o di spazio, la regista ha potuto sfruttare a pieno il palco, utilizzando enormi cuscini dai quali fuoriescono una buona quantità di foglie, inserendo una fontana da cui sgorga acqua dove alcuni attori si siederanno, si bagneranno e si uniranno in un unico corpo ed infine facendo muovere tutti loro in danze ritmicamente nevrotiche con la musica dei Laibach. Inoltre i costumi degli attori passano da una maestosità contemporanea ad una semplicità quasi medievale.
Sicuramente nelle parole di Elena (Annamaria Troisi) un po’ tutte le donne o prima o dopo si sono ritrovate. La sua disperazione per il rifiuto continuo del suo amato Demetrio (Christian Di Filippo), ogni volta che lo rincorrere non fa altro che peggiorare la situazione, mentre la vivacità di Ermia (Barbara Mazzi), il suo essere algida nei suoi confronti lo porta ad innamorarsi di lei ma la giovane Ermia ha occhi solo per Lisandro, il suo unico amore (Marcello Spinetta). Insomma vedremo un bel quartetto in azione.
Ogni attore, in questa rappresentazione ha cercato di creare un siparietto divertente, come quello di Oberon (Vittorio Camarota) insieme al folletto Robin (Raffaele Musella) che oltre ad essere tecnicamente encomiabili sono riusciti ad avere una buona presenza sul palco utilizzando capriole, sbeffeggiamenti e una timbrica maestosa.
Ottima anche Titania (Beatrice Vecchione) che rimarrà fissa sulla fontana ma questo non le impedisce di ammaliare con la sua presenza scenica e con le sue alterazioni vocali proprio come la fata, Fior di Pisello (Giorgia Cipolla) che vedremo addirittura cantare.
Ed il padre di Ermia, Egeo (Alessandro Conti) il quale avrà una voce robotica e sarà posizionato su una “balconata”.
Ed infine i due soldati di Atene Nick Bottom (Angelo Tronca) e Peter Quince (Yury D’Agostino) che hanno creato un siparietto niente male, inscenando all’interno della commedia, la tragedia di Romeo e Giulietta con un’ironia e un sarcasmo che ha coinvolto tutto il pubblico, suscitando impeti di applausi e calorose risate durante la rappresentazione.
Insomma il progetto del “prato inglese” direi che ha dato i suoi frutti, portando in questo caso nel Sogno di una notte di mezza estate il tocco di una donna che ha affrontato la commedia shakesperiana con un’inconscia visione di una metafora d’amore.
di William Shakespeare
con Vittorio Camarota, Giorgia Cipolla, Alessandro Conti, Yuri D’agostino, Christian di Filippo, Barbara Mazzi, Raffaele Musella, Marcello Spinetta, Beatrice Vecchione, Annamaria Troisi, Angelo Tronca
scene e luci Jacopo Valsania
costumi Alessio Rosati, Aurora Damanti
regia Elena Serra
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
Il secondo appuntamento della rassegna Quello che tutti chiamavano manicomio, promossa da Lavanderia a Vapore, Fondazione Piemonte dal Vivo, Regione Piemonte e Comune di Collegno in occasione del quarantennale della Legge Basaglia, ha ospitato il 7 Marzo sul palco della Lavanderia La storia di Marco Cavallo, spettacolo prodotto dal Teatro delle Selve. La regia è di Franco Acquaviva, che è anche l’attore solista presente sulla scena, e l’aiuto alla regia è di Anna Olivero.
All’interno della cornice della rassegna occorre mettere in luce lo spirito col quale nasce il Teatro delle Selve: fondato nel 1998 da Franco Acquaviva e Anna Olivero, si impegna a promuovere una idea di cultura teatrale in grado di valorizzare le relazioni tra l’ambiente e la memoria che lo abita. Appare chiara l’aderenza rispetto al tema proposto dall’iniziativa e al luogo dello spettacolo: l’attuale Lavanderia a Vapore nasce infatti dalla ristrutturazione di quelle che erano le originarie lavanderie del manicomio di Collegno (questo l’ambiente) ed entra in pieno contatto con il tema proposto, volto a ricordare e riattualizzare il problema dell’esclusione sociale (questa la memoria collettiva). Come ci ricorda lo stesso regista infatti lo spettacolo “appare necessario oggi che molte delle conquiste sociali e civili di quegli anni sono messe in discussione” e la sua idea nasce principalmente da un bisogno di dialogo e di apertura sociale.
La storia di Marco Cavallo parla di quella che fu la prima esperienza di animazione teatrale condotta all’interno di un manicomio. Nel 1973 a Trieste, su idea di Franco Basaglia, un gruppo eterogeneo di persone (fra cui pittori, registi, insegnanti, scrittori, fotografi, animatori) decise di mettere a disposizione la propria professionalità per cercare un nuovo modo di stare insieme e modificare la realtà ancora chiusa e crudele del manicomio. Attraverso la creazione di un grande cavallo di legno e cartapesta dal colore azzurro, simbolo della gioia di vivere, e dalla pancia simbolicamente piena dei desideri di tutti i pazienti, l’esperienza aprì il manicomio alla città e contribuì a cambiare il modo di essere del teatro e della cura. Portata a termine la costruzione del cavallo venne infatti organizzata una grande parata per le vie di Trieste e il quadrupede di cartapesta divenne immediatamente il simbolo per eccellenza della liberazione manicomiale.
Il testo di Franco Acquaviva nasce dalla convergenza di diverse fonti rielaborate all’interno di una cornice drammaturgica creata specificamente per lo spettacolo. Marco Cavallo, il testo a cura di Giuliano Scabia, uno dei maggiori protagonisti dell’azione teatrale del ’73, è l’opera di riferimento, alla quale si aggiungono frammenti di altri testi che disegnano una situazione di teatro nel teatro con tre personaggi e diverse figure minori. Un teatro di narrazione, quello che il regista ci propone, attraverso una e-vocazione (più che una ri-evocazione) dell’atmosfera, delle idee e delle difficoltà proprie di quell’esperienza. L’attore, attraverso la forza della sua fisicità, crea un ricco tessuto di voci che dialogano nel corso della vicenda seguendo un ritmo sempre sostenuto, mai scontato. Il tutto prende avvio da un personaggio che ricorda un’esperienza risalente agli anni universitari, nei quali fu mandato a Trieste dal suo professore di Storia del teatro, nel manicomio quasi dismesso della città. Il suo compito era intervistare il responsabile di un laboratorio teatrale che si sarebbe realizzato nei padiglioni coi pazienti, ma inaspettatamente si ritrovò ad essere parte attiva dello spettacolo, dedicato appunto a Marco Cavallo.
Alle curiosità, ingenuità e resistenze del ragazzo si intrecciano il racconto dell’esperienza storica e le manie bizzarre e divertenti della compagnia dei matti. Nel reparto P troviamo un teatro partecipato, sudato, vissuto in comunità, “un gioco che però impegna”, nel quale i malati riescono a vedere un’attività libera, in cui poter fare ciò che desiderano. Lo studente, inizialmente scettico e dubbioso riguardo all’utilità dell’esperienza, grazie alla sua prolungata permanenza e al dialogo creato a mano a mano con la realtà che lo avvolge, riesce a comprenderne il valore, superando la crisi nata in lui in seguito all’uscita dall’ambiente universitario. Il ragazzo fa così ritorno dal professore senza aver compiuto l’intervista, ma portando con sé una diversa consapevolezza. L’attenzione portata dal regista sui muri interni alla mente dello studente ne è solo un esempio. Muri che, inoltre, ci riportano con un tuffo spontaneo nel presente, ai tanti muri, reali o simbolici, che la contemporaneità continua ad erigere nei confronti dell’altro. Uno spettacolo che, pur portando in scena un’esperienza passata, si dimostra nei suoi contenuti quanto mai attuale, rivolgendosi ad un pubblico appositamente composto da studenti liceali e universitari.
L’autore ci lascia con un messaggio: “la follia è un modo per uscire da se stessi”. Il teatro può rappresentare questa via, laddove esso non è semplicemente vita, ma “vita più follia”. Follia che deve essere insegnata a tutti perché è elemento positivo della vita, come l’acqua e il fuoco.
Si ricorda infine che il 19 marzo si è tenuto un prezioso incontro pubblico organizzato da Fondazione Piemonte dal Vivo e Lavanderia a Vapore presso il Polo del ‘900, nel quale sono intervenute importanti figure: Giuliano Scabia, Peppe dell’Acqua, Renato Sarti e Massimo Cirri. La riunione ha voluto rievocare il clima e le esperienze di quegli anni unitamente alla storia di Franco Basaglia per coinvolgere il pubblico in una riflessione partecipata sulla psichiatria.
recensione di Linda Casoli
La storia di Marco Cavallo
di e con Franco Acquaviva
aiuto regia Anna Olivero
produzione Teatro delle Selve 2014
con il patrocinio e il sostegno di: Regione Piemonte, Fondazione Piemonte dal vivo – Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo di Torino, Comune di San Maurizio d’Opaglio, Compagnia di San Paolo
“ll teatro è politica fatta con altri mezzi” ci ha ricordato a suo tempo Eugenio Barba. Se questa massima non si è sbiadita si riconferma oggi più attuale che mai, ribadendo quel dovere proprio di tutti gli addetti al multiforme settore dello spettacolo dal vivo di farsi carico di una non secondaria responsabilità. La chiamata si fa tanto più impellente quanto più si sfilaccia la comunità che la genera, in un presente storico nel quale la partecipazione politica non è delle più fortunate e la fatidica forbice fra cittadino e istituzioni va intensificandosi anziché accorciarsi.
Quel vasto territorio pedagogico, artistico e politico che oggi si definisce sotto il nome di Teatro sociale e di comunità sembra accettare tale sfida e accoglierne le problematiche pratiche e le contraddizioni metodologiche. Si è svolta a questo proposito, il primo di febbraio, una giornata internazionale di studio dal titolo Teatro, salute e disuguaglianza. Dodici ore di lezioni, approfondimenti e tavole rotonde organizzate dall’Università di Torino presso l’Aula Magna dello stesso ateneo e il Teatro Vittoria di via Gramsci. Docenti, operatori, esperti e ricercatori si sono succeduti in un exploit di esposizioni che avessero, come ha sottolineato l’Assessora Monica Cerutti, un comune filo rosso che riconducesse ad una impellente quanto scottante tematica: l’ascolto della persona. Una materia complessa che richiede un approccio trasversale ma al contempo delicato, in un contesto amministrativo nel quale, al contrario, l’ambito pubblico sembra ragionare per compartimenti stagni.
L’unità di ricerca del PRIN – Per-formare il sociale, riallacciandosi a quell’antica tradizione di un teatro come forma di cura, vuole riaggiornare l’argomento all’epoca dell’istituzione sanitaria, all’insegna delle nuove strategie comunitarie e delle pratiche artistico-terapeutiche, affinché il teatro sociale possa acquisire un suo autonomo statuto scientifico. Si ricorda a tal proposito che il teatro sociale così inteso è nato proprio sul suolo torinese e che la sua natura democratica e paritara lo rende uno strumento efficace sia all’interno delle performing-arts sia come risorsa per i settori socio-sanitari e socio-educativi. Chi ha a cuore la comunità come produttrice di cultura e la cultura come indicatore di salute della stessa comunità non può prescindere dal promuovere le possibilità dell’arte di coltivare i rapporti sociali laddove ve ne sia carenza. Il Social Community Theatre Centre (SCT) dell’Università di Torino, diretto da Alessandra Rossi Ghiglione e ideato insieme ad Alessandro Pontremoli, forte di una lunga esperienza sul campo, offre oggi una metodologia riconosciuta a livello internazionale, un dispositivo culturale di innovazione sociale e di contrasto alle disuguaglianze.
Per contro bisogna tener presente che chi il teatro lo fa da una vita ha a cuore il suo ruolo professionale e difficilmente accetterà con serenità di condividere il suo bagaglio di competenze con una fetta di pubblico estranea al suo mondo operativo. O, se lo farà, ne trarrà ben poca soddisfazione. Questa impasse viene portata alla luce dall’intervento di Pier Luigi Sacco. Il Professore dell’Università IULM di Milano, infatti, sottolinea li rischio considerevole di strumentalizzazione culturale ai fini terapeutici cui lo strumento artistico in mano ai non artisti può andare incontro. In altre parole sarebbe facile ritrovarsi a somministrare dosi di pratiche teatrali in sostituzione a prescrizioni mediche. Siccome non sono disponibili facili risposte, la necessità è quella di co-progettare a stretto contatto con gli artisti del teatro che siano volenterosi di farlo, per rispettare un ampio spettro di competenze preziose e valorizzare un ambito artistico-professionale che necessariamente possiede regole e metodi tutti suoi. Diversa è invece la posizione di Giuseppe Costa, docente di Sanità Pubblica presso l’Università di Torino, il quale, occupandosi da vicino di epidemiologica, considera a prescindere gli strumenti culturali e sociali i più validi a migliorare quella costruzione sociale che è la salute. Chiude la lunga giornata l’intervento di Claudio Bernardi il quale, con sarcasmo, collocandosi fra i due tavoli dell’istituzione (i docenti) e del mercato (gli operatori), sottolinea la difficoltà implicita di chi si trova nel mezzo dei due tavoli (il cittadino) di farsi sentire e contemporaneamente di comprendere e condividere gli equilibri dei due colossi posti ai suoi lati, con partecipazione e fiducia.
La sfida lanciata da Eugenio Barba, al fine di ricreare quello spazio potenziale dove differenze fra dominato e dominatore si possano, non solo retoricamente, superare, rimane aperta e quanto mai attuale. In particolare se confrontata ai recenti sviluppi storico-politici. La giornata di studio denota l’intenso impegno dell’istituzione universitaria, capace di sporcarsi le mani con le problematiche sociali e di non rifugiarsi, soprattutto in campo artistico, nello sterile accademismo.
Dio è morto. Ma quale Dio? Nietzsche lo ha constatato. Tutto il nostro mondo, la nostra cultura deve fare i conti con questa morte. Noi tutti, figli di Cadmo, lo abbiamo ucciso e la modernità ha preso il sopravvento. Siamo in grado di contrastare la sua rabbia feroce? Il teatro è ancora il luogo dove un dio può prendere vita?
Dopo Fedra di Seneca, partendo dalla domanda “Chi è Dioniso?”, il regista Andrea De Rosa prosegue la sia indagine sui classici, mettendo in scena un adattamento della tragedia di Euripide, Le baccanti, in data 5 dicembre 2017, al teatro Carignano di Torino. Una produzione Teatro Stabile Torino, Teatro Stabile Napoli e Fondazione Campania dei festival.
Un linguaggio antico che parla alla nostra modernità, alle sue contraddizioni ed incongruenze. Il mondo di Tebe come metafora di una ipotetica metropoli di un mondo postmoderno, in cui si cerca di alienarsi dal mondo circostante, essere altro da sé.
Dioniso è colui che accompagna verso i confini dell’anima, confini che non si raggiungeranno mai. Spinge gli uomini ad abbandonarsi, a strapparsi di dosso la propria identità, costruita faticosamente. È un Dio portatore di doni: il vino, la droga, la danza, le allucinazioni, ma soprattutto il lenimento del dolore. Esperienze che vivono gli adolescenti. Per questo, Dioniso è un dio adolescente che si rivolge a loro. Gli adolescenti si trovano nella situazione di non sapere chi sono e in questa fase complicata, quel dio porta loro sollievo, unico modo per non sentire il dolore della crescita. Tematica più che attuale.
Dioniso è interpretato da una donna, l’attrice Federica Rosellini, già assistente alla regia di Luca Ronconi per Panico, attrice di molti spettacoli teatrali tra cui Santa estasi di Antonio Latella, e attrice di cinema premiata a Venezia. Una scelta che si è rivelata giusta. Si ha veramente la sensazione che Dioniso sia in scena. Capelli lunghi biondi che cadono sul seno coperto appena da una velo trasparente, e dei jeans scuri completano questo dio moderno che con la sua voce deve penetrare nelle persone, ammaliarle e comandarle verso l’irrazionalità più sfrenata. La scelta di Dioniso al femminile sottolinea meglio la natura bisessuale di questo dio e l’attrice riesce a condensare insieme la parte più femminea e fanciullesca del dio, con l’altra più violenta e feroce. L’insieme di questi due aspetti aumenta il livello di tensione erotica, che raggiunge il massimo grado nel rapporto tra Penteo e il dio. Un erotismo con una vena infantile, sì violento, ma anche ferito. Dioniso è un personaggio bestiale solo nella forma più genuina del termine: è stato strappato dal grembo materno e risente di questa mancanza.
Penteo allora è il suo doppio, con le sue ossessioni. Anche lui è privo della madre, Agave, preda di Dioniso, ormai a capo delle baccanti a condurre una vita istintuale e selvaggia. Sicuramente ha qualcosa di represso: tentato e pieno anche lui di Dioniso, vorrà vedere la madre posseduta. Penteo deve morire per aver osato mettersi contro il dio. Così questi lo punisce, ma non prima di avergli fatto provare l’abbandono dei sensi, l’irrazionalità, l’amore carnale, non prima di avergli fatto sentire chi è Dioniso. A interpretare Penteo è Lino Musella, non benissimo, perché viene accentuata troppo la parte influenzabile, corruttibile, repressa di un re che non sa fare il re, come se fosse un ingenuo che viene abbindolato dal primo venditore che vede. Manca, o meglio, è un po’ sbrigativa la congiunzione tra quando Penteo è un re che non vuole sottomettersi al dio, e quando invece cade preda di questi. Invece, reso molto bene da Dioniso-Rosellini l’atto di possedere il re, avvicinandosi lentamente e poi arrampicandosi con movimenti ferini sul trono per trasformarlo. Penteo in primis è un re di una grande città, Tebe, e per questo deve proteggerla dalla nuova “moda”, dal nuovo culto che si sta diffondendo a causa di Dioniso. Lui sa chi è, al contrario di chi ha perso coscienza di sé, è per questo è saldo, forte e non deve cedere al dio. Tuttavia, verrà anche lui ammaliato perché Dioniso agirà sul suo lato più insicuro, rivelando a Penteo il suo bisogno di perdersi. Tale passaggio poteva essere reso con più efficacia. Infatti, solo l’atto finale di questa trasformazione è reso bene, con Penteo che, vestito con abiti da donna, va verso la morte per la propria curiosità, mentre Dioniso, seduto sul trono di Tebe, osserva il suo prodotto e si prepara a finire la sua vendetta.
Gli altri personaggi Cadmo e Tiresia, rispettivamente Ruggero Dondi e Marco Cavicchioli, sono due figure grottesche, due furbi. Il primo è pronto a trarre profitto da questo nuovo culto di Dioniso e il secondo è un opportunista. Incitano il popola a perdersi, e danzano mentre si compirà la tragedia. Sono dei finti folli contrapposti ai veri folli, come Penteo o la madre Agave, interpretata da Cristina Donadio. Una madre che uccide il figlio, posseduta dal dio, in una caccia di belve tra belve. Una testa cullata tra mani, trofeo di guerra, protetta e riconosciuta solo dopo il parto. Una madre che partorisce un figlio. Morto. Questo parto è un parto di Dioniso, del dio, un parto morto, una metafora per dimostrare come noi nasciamo già morti, ma anche metafora ribaltata della condizione di un dio che è morto. Un parto non molto chiaro nell’immediato, ma a cui una riflessione successiva contribuisce a dare forza espressiva e semantica. “Agave la si può immaginare come le ragazze madri, o le donne degli anni ’70, dove non c’erano limiti”, ci dice l’attrice Cristina Donadio. Alla fine, Dioniso dirà basta e tornerà al suo mondo selvaggio.I personaggi non hanno un carattere vero e proprio, sono follia, maschere. Dioniso offre a tutti la possibilità di mascherarsi. Non ci sono caratteri, ma solo corpi. Corpi seminudi, sporchi, insanguinati, vestiti con indumenti trasparenti e color carne altrettanto sporchi, tacchi al posto degli zoccoli: la natura selvaggia di questi corpi è evidente.
Lo spettacolo inizia con Dioniso che si presenta, mentre dispensa piacere con la sua voce ammaliatrice, come se fosse un cantante su un palco di un rave party mentre canta e urla in un escalation sempre più forte, e la sue baccanti ballano, perse, fino a che hanno forza. Dioniso è il marionettista che con la sua voce, il vino, la droga, fa danzare le sue marionette. In fondo al palco si intravede il rito, l’orgia in onore di Dioniso. Una parete fatta di casse acustiche rimanda la musica allucinatoria di Dioniso. Un suono di basso continuo che dura per quasi tutto lo spettacolo, interrompendosi solo quando Penteo viene ucciso, ma che poi ricomincia, perché la musica di Dioniso non termina mai. Un suono ossessivo che investe anche lo spettatore e lo fa immergere in quel rito che si sta compiendo sul palcoscenico, fino al punto di non accorgersi più di quella musica. Lo spettacolo è tutto giocato sul ritmo e gli attori recitano in modo antinaturalistico seguendo sempre il tempo della musica. Così come è arrivato a Tebe, ora Dioniso se ne va, dopo aver compiuto la sua vendetta contro un re e un popolo che hanno osato sfidare il dio, peccando di “ubris”. Nulla può fermare Dioniso, perché tutti hanno bisogno di lui.
Un adattamento ben fatto e non didascalico, in cui emerge con chiarezza il paragone con il nostro mondo. Una tematica attuale: noi siamo tentati da vari rimedi facili per alleviare il nostro dolore e abbiamo bisogno di estraniarci dalla razionalità, dalla realtà che ci circonda per fermare per un attimo un tempo che ha visto la morte di Dio causata da noi stessi. Dioniso è in noi, lo abbiamo reso indispensabile.
Emanuele Biganzoli
Autore: Euripide
Adattamento e regia: Andrea De Rosa
Attori: Marco Cavicchioli (Tiresia), Cristina Donadio (Agave), Ruggero Dondi (Cadmo), Lino Musella (Penteo), Matthieu Pastore (Messaggero), Irene Petris (Coro), Federica Rosellini (Dioniso), Emilio Vacca (Messaggero), Carlotta Viscovo (coro), allieve della scuola teatrale del Teatro Stabile di Napoli Maria Luisa Bosso, Francesca Fedeli, Serena Mazzei (Coro)
Scene: Simone Mannino
Costumi: Fabio Sonnino
Luci: Pasquale Mari
Musiche originali: G.U.P. Alcaro e Davide Tomat
Produzione: Teatro Stabile Torino, Teatro Stabile Napoli, Fondazione Campania dei Festival
Martedì 20 giugno, in occasione del Festival delle Colline Torinesi, va in scena alle Fonderie Limone lo spettacolo diretto da Massimiliano e Gianluca De SerioStanze/Qolalka.
Lo ammetto: quando sono entrato in teatro e ho visto due leggii senza alcuna scenografia se non un paio di sedie, un cassone e due teli bianchi ho avuto paura. Temevo di risentire la classica storia sul quanto siamo cattivi e poco accoglienti noi occidentali nei confronti dei fratelli africani in un’accozzaglia di letture e video utili solo all’autocelebrazione di un’idea.
E invece? Invece i Fratelli De Serio hanno dato vitae spazio a storie forti e coinvolgenti raccontate da due immigrati e ora mediatori
culturali di nome Abdullahi e Suad che, pur non essendo attori, hanno portato in scena ciò che molti grandi professionisti (o presunti tali) italiani non riescono a trasmettere: la verità.
Sì, perché Abdul e Suad sono anche autori dello spettacolo e, per poco più di un’ora, hanno raccontato cosa è realmente la Somalia e di cosa tratta la loro cultura: tra poesia, religione, guerre, morti e un’instabilità politica tristemente nota a molti paesi africani.
La messinscena, come ho già accennato ironicamente, è essenziale: è evidente come in questo spettacolo giochi un ruolo da protagonista l’uso sapiente delle retroproiezioni dei Fratelli De Serio, non a caso – ottimi – registi cinematografici. I teli bianchi sono infatti mobili e vengono spostati dai due attori per creare delle stanze ogni volta differenti, arricchite da immagini, parole e sottotitoli, in un’alternanza di idiomi tra somalo e italiano, i quali finiscono per fondersi in un’unica lingua nella parte iniziale dello spettacolo, in cui le parole italiane vengono simpaticamente ”somalizzate” (ad esempio ”insalata” diviene ”ihynsalatah”) per aiutare il pubblico a prendere confidenza con una lingua, così come una cultura, apparentemente tanto diversa dalla nostra.
La domanda che ci si pone è: siamo veramente tanto diversi? La risposta non è importante, siamo esseri umani entrambi. Ma è innegabile che vi siano delle disuguaglianze tra il popolo italiano e quello somalo: ciò che salta immediatamente agli occhi è l’intensità dell’aspetto religioso. Questo è infatti molto presente nelle vite dei somali che continuamente durante lo spettacolo si rivolgono a Dio.
Inevitabile una riflessione sul testo, seppur buono, della rappresentazione: non c’è stata la volontà di spingersi ancora più in là di quanto si sia fatto per muovere delle accuse e portare delle testimonianze su quello che per la Somalia era ed è un vero e proprio ”cancro” che la divora dall’interno: lo jihadismo. Ho avvertito una necessità di dover mostrare solo il lato buono della cultura somala (cosa peraltro legittima) senza volersi mai addentrare nei fantasmi che hanno costretto centinaia di migliaia di persone a scappare per cercare un posto in cui vivere in sicurezza, lontani dalle bombe e dalla violenza gratuita delle minoranze belligeranti.
Esclusi Suad e Abdullahi, tutti gli attori siedono tra il pubblico e il senso di insieme tra platea e palco è palpabile, vista anche la scelta di luci che potrebbe risultare poco rischiosa ma anche funzionale allo spettacolo: il palco è sempre molto illuminato con un piazzato e, questa scelta, aiuta la distruzione della quarta parete come voluto anche per gli attori, i quali si rivolgono direttamente al pubblico e non recitano: raccontano.
I rimandi e le critiche al fascismo sono moltissimi. Un momento di fortissimo impatto emotivo è stata la stanza (o scena che dir si voglia) in cui si ricorda dei saccheggi e delle violenze perpetuati dagli italiani ai danni del popolo somalo negli anni del colonialismo. Quest’ultima mi è parsa una fondamentale chiave di lettura dello spettacolo: chi siamo noi per giudicare chi fugge da una guerra? Chi siamo noi per ostacolare chi cerca una terra diversa da quella che hanno calpestato per la prima volta? Dov’è finita la nostra umanità? La realtà è che una parte importante del nostro paese è composta da persone egoiste e attente a cercare un capro espiatorio che permetta loro di vivere felice. E’ stata quindi ottima la scelta degli autori e dei fratelli De Serio di sbattere in faccia la realtà a chi era in platea, di dire chiaramente le cose come stanno: ci lamentiamo di chi non ha niente e cerca qualcosa da noi ma, noi, che qualcosa lo avevamo, da loro ci siamo andati comunque. E il nostro aiuto non era richiesto.
Lo spettacolo si divide in tre momenti fortemente emozionanti: il racconto di un ragazzo somalo che, tramite un video, descrive la terrificante violazione dei diritti umani subita in un carcere libico; la testimonianza di una mamma come Suad dell’uso della poesia, la quale è fortemente presente nella cultura somala; il racconto di Abdullahi sul perché ha scelto di mettersi su un barcone e rischiare la vita e su quali sono i passaggi, le esperienze, i rischi concreti di chi sceglie di intraprendere questo pericolosissimo viaggio.
Molto interessante l’uso della tecnologia in tutto lo spettacolo, specialmente se abbinata alla tradizione somala: una volta le poesie (che, come già descritto, sono parte integrante della loro cultura) venivano tramandate oralmente, mentre ora i principali canali di diffusione sono Whatsapp, Viber, Facebook e Youtube. Questi ultimi, come testimonia Abdullahi, sono anche fondamentali nell’aiuto all’integrazione dei nuovi arrivati, i quali possono mettersi in contatto prima della partenza con chi ha già subito il calvario che li aspetta.
Abdullahi, infatti, racconta di come l’occidente sia visto come una terra promessa dai profughi africani ma, per una persona come lui che ce l’ha fatta, altre cento non riescono ad integrarsi e a trovare un motivo per vivere.
La colpa? Questo non ci è dato saperlo. Stanze/Qolalka è una straordinaria fonte di riflessione su quello che vuol dire integrarsi e sul come spiegare una cultura in modo fresco e a tratti brillante, oltre che emotivo e drammatico. L’auspicio è che la ricerca dei fratelli De Serio non si fermi qui e che si porti avanti questo progetto anche su altre culture apparentemente, e forse effettivamente, tanto lontane dalle nostre.
Non capita spesso di sentirsi direttamente trasportati in un presente così sensibilmente vivo, quasi tangibile e assolutamente reale da sentirsi fisicamente in un altro luogo e in un altro tempo.
Tutto è iniziato in medias res al “Le Petit Hotel” di Torino, il pubblico si trovava nella sala d’attesa dell’albergo quando una delle sette gangster, abbracciando un mitra con aria violenta e seducente, compare per invitare una parte dei presenti ad entrare nell’ascensore e, automaticamente, a rendersi partecipe del crimine.
Ci ritroviamo così in una delle camere dello “Splendid’s Hotel”, nome dello stesso testo teatrale di Jeane Genet che ha trovato nella regia di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò una reinterpretazione originale e accattivante.
I complici vengono fatti accomodare e udendo dalla radio in scena, sempre accesa quasi da essere centrale nella storia, alternando notizie a musiche-colonna sonora, i comunicati stampa che le Raffiche inviano ai giornali-radio, comprendono di trovarsi intrappolati e accerchiati dalla polizia che da tempo cerca di identificare e catturare il gruppo di rivoltose.
Le Raffiche si presentano infatti come un gruppo di creature eleganti di non genere, o di donne in vesti da uomo o forse ancora come uomini in corpi di donne contro gli stereotipi, i divieti e le imposizioni di una società opprimente a cui non ci si deve adeguare mai,a costo di morire. Sono un gruppo di sovversive che ha scelto di non identificarsi in favore della libertà dagli schemi di genere e di ruolo.
Nella stanza è presente il cadavere di una ragazza che le Raffiche hanno precedentemente reso ostaggio e che ora, per temporeggiare, spacciano per viva alla polizia, ma c’è anche una poliziotta (Federica Fracassi) complice del misfatto che smaniosa di avventura, decide di unirsi al gruppo di latitanti.
Si scatena così una vicenda mozzafiato che riesce a rendere permanente nello spettatore uno stato di agitazione, una suspance continua che crea un attenzione tanto forte da essere turbinosa, dove dialoghi taglienti si alternano a momenti di puro erotismo di cui Jean (Silvia Calderoni), capo del gruppo, è elemento scatenante.
La regia Motus (nome della compagnia) riesce, in questa occasione, ad afferrare il tempo per dominarlo attraverso una partitura scenica completamente coreografata, dove anche il silenzio delle attrici ha un suo ritmo particolare e trova sfogo in uno spazio gestuale molto coinvolgente. Ottima è stata anche la scelta delle musiche-colonna sonora, perfette per confermare l’intimità del luogo, e che ben esprimono l’interiorità violenta e seducente delle Raffiche.
Arrivando al finale, Jean sarà fisicamente costretta dalle compagne ad indossare vesti femminili, o meglio a travestirsi, per fingersi l’ostaggio già morto e mostrarsi al pubblico di poliziotti che attendono una nuovo colpo di scena da parte delle sovversive, fuori dall’edificio, in un esterno che noi spettatori non vediamo ma sentiamo interagire con le rivoltose. Jean muore per un colpo di pistola e come se nulla fosse mai successo il suo corpo rimarrà fuori sul balcone mentre Pierrot (Ondina Quadri), personaggio che si occupava della propaganda dei messaggi rivoluzionari attraverso scritte sul proprio corpo, in grave crisi di astinenza da droghe, perde il controllo premendo, pochi minuti dopo, il grilletto della sua pistola per togliersi la vita, avendo ormai tutte perso l’identità di gruppo.
Uno spettacolo davvero emozionante che ha creato una “turbolenza di emozioni” quasi mai scontate per il teatro dei nostri tempi e che non per nulla ha ottenuto il tutto esauritodopo pochi giorni dall’apertura del “Festival delle Colline Torinesi”, contesto in cui è stato sapientemente inserito.
Lo spettacolo, andato in scena il 17 gennaio 2017 alle Fonderie Limone di Moncalieri, è una drammaturgia a sei voci. Scenografia di Paola Comencini, disegno e luci di Gianni Staropoli e regia di Francesca Comencini (regista di “Gomorra la serie”). Interpretato dalle bravissime Bianca Nappi, Lunetta Savino, Carlotta Natoli, Simonetta Solder, Chiara Tomarelli e Mia Benedetta che ne ha curato insieme alla regista i testi.
Sei storie di donne protagoniste, a vario titolo, dell’eccidio di uomini a loro cari nelle Fosse Ardeatine quando nel 1944, a seguito dell’attentato di Via Rasella, i nazisti coadiuvati dai fascisti si vendicarono con atrocità devastante contro uomini colpevoli di aver difeso il loro onore, amor di patria e libertà. A causa della morte di 33 soldati delle SS furono arrestati e uccisi 335 italiani, l’ordine era “per ogni tedesco ucciso dovevano morire 10 italiani”.
Una voce fuori campo ci ricorda che non siamo di fronte ad uno sceneggiato né a racconti di fantasia, ma a testimonianze dirette raccolte da Alessandro Portelli, uno dei principali studiosi della storia orale, che ha ispirato la regista. Lo spettacolo, incentrato sulla memoria e sulla necessità di ricordare, mette al centro la figura femminile ricordandoci quante donne coraggiose hanno partecipato attivamente come partigiane o compagne di partigiani. Non c’è ricordo più forte di chi realmente l’ha vissuto, ricordo che con grande abilità le sei attrici hanno incarnato con molta emotività e sensibilità tanto da non distinguere più l’attore dai personaggi realmente esistiti. Sei monologhi carichi di emozioni, ricordi e qualche nostalgico rimpianto. Le tre donne partigiane (Bianca Nappi, Mia Benedetta e Chiara Tomarelli) rievocano in tono freddo, duro e umile le gesta violente quanto necessarie compiute. Le donne non partigiane, con le eccellenti interpretazioni di Lunetta Savino,Carlotta Natoli e Simonetta Solder, invece, raccontano con più pathos quei momenti di intime sofferenze e di privazioni vissute per la mancanza dei loro cari (padri e mariti).
Viene rappresentato un lutto mai veramente rielaborato perché per anni la storia non ha mai riconosciuto e ricordato abbastanza il sacrificio e il supplizio che quegli uomini e indirettamente quelle donne, ora finalmente unite nel ricordo, hanno vissuto per difendere un’ideale nobile e la patria. E’ un lutto strano, un lutto di figlie, madri e vedove assenti. Assenti perché per anni non hanno potuto raccontare, perché emarginate, perché parenti di antifascisti caduti; assenti perché madri sole con figli da accudire. Non avevano avuto neanche il tempo di piangere. Assenti perché non sapevano nulla, avevano visto arrestare i loro cari, avevano immaginato e anche sperato che fossero stati deportati nei campi di concentramento. Invece no, un trafiletto su “Il Messaggero” il giorno seguente diceva: “L’ordine è già stato eseguito”. Non restava che riconoscerei cadaveri quasi irriconoscibili. Colpisce una scenografia scarna ma d’impatto, essenziale ma non spoglia: in primo piano le sei sedie e in quinta tanti cappotti appesi quante furono le vittime. L’attenzione è tutta focalizzata su quelle sei donne illuminate da una luce lieve. Sono sei voci che come un’orchestra ben diretta diventano un solo afflato di dolore ma anche di fiducia. E quando lo spettacolo, che ha tenuto un silenzio ingombrante in sala, arriva al finale, le sei donne si raccolgono sotto i cappotti come fossero un’unica persona e a chiudere la pièce teatrale viene suonata la canzone Sempre di Gabriella Ferri. Le attrici sono sensibilmente commosse, quasi consapevoli che non ci sarà mai un altro ruolo che le farà ritornare a essere quelle donne così fragili ma forti, così comuni ma eroiche. A fine spettacolo tutto il pubblico le richiama con applausi svariate volte dalle quinte e le attrici rientrano sempre ringraziando e riapplaudendo a loro volta il pubblico.
Per il seminario In Atelier, Processi creativi e dinamiche di relazione nelle “compagnie d’arte”, la sala piccola della Casa del Teatro Ragazzi e Giovani di Torino ospita la performance che corona la lectio mattutina Tra voce e infanzia tenuta da Chiara Guidi presso l’Aula Magna della Cavallerizza Reale. Il contesto raccolto e intimo Continua la lettura di Chiara Guidi, LA-VOCE-CHE-NON-C’E’. Performance conferenza nello spazio del”tra”→
Tra il 10 il 14 ottobre, il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università degli Studi di Torino, in collaborazione con l’Université Paris 8 e con l’Università Italo-francese/Université Franco-italienne, organizzerà presso la propria sede di Palazzo Nuovo (nonché negli spazi del Rettorato, della Cavallerizza Reale e di Casa del Teatro Ragazzi e Giovani) un imperdibile Seminario Internazionale di Teatro dal titolo In atelier. Processi creativi e dinamiche di relazione nelle “compagnie d’arte”, che coinvolgerà studiosi, formazioni teatrali e relatori provenienti da tutto il mondo. L’evento, coordinato da Eva Marinai, Giulia Filacanapa ed Erica Magris, si preannuncia come una preziosa occasione di approfondimento e sperimentazione, vista la nutrita kermesse di incontri, tavole rotonde, workshop e perfomance. Sono invitati a partecipare tutti gli studenti dell’ateneo e chiunque fosse interessato a scoprire qualcosa in più sul mestiere dell’attore e sulla lunga storia delle “famiglie teatrali”. Tutti gli incontri sono ad ingresso libero (fino ad esaurimento posti). Per iscriversi ai laboratori delle compagnie Gli Omini e Les Têtes de Bois è necessario prenotarsi, scrivendo a eva.marinai@unito.it (i posti sono in esaurimento). Sarà possibile assistere allo spettacolo di Chiara Guidi il 12/10 alle ore 21 presso Casa del Teatro Ragazzi e Giovani, previa prenotazione (contattare la Segreteria al numero: 011/19740280).
Dopo il salto sarà possibile consultare il programma dettagliato del Seminario. Vi aspettiamo numerosi!
10 ottobre, ore 10.00-12.00 (Aula 7, 1° piano di Palazzo Nuovo, via sant’Ottavio 20) e ore 17.30-19.30 (Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo); 11 ottobre, ore 10.00-12.00 (Aula 7, 1° piano di Palazzo Nuovo)
Gli Omini Workshop sulla scrittura scenica a partire dai materiali raccolti in strada (racconti, testimonianze, gesti, suoni) condotto dalla Compagnia: Francesco Rotelli, Francesca Sarteanesi, Giulia Zacchini
Gli Omini vogliono condividere con gli studenti il proprio metodo di lavoro. La compagnia dal 2006 crea i propri spettacoli tramite una ricerca continua sul campo, un campo che è la strada principale di un paesino, il bar, la chiesa, le stazioni, i treni, le scuole, le bocciofile. Negli anni hanno accumulato una quantità enorme di quello che loro chiamano “materiale umano”, una serie di racconti, confessioni, sfoghi che la gente incontrata ha lasciato loro in regalo. Un materiale che è stato lo spunto di molti spettacoli. Spettacoli che hanno in comune, oltre al metodo di costruzione, una comicità amara, la voglia di far riflettere lo spettatore attraverso il riso. Nei due giorni di laboratorio gli Omini metteranno a disposizione parte del loro archivio e allo stesso tempo faranno in modo che gli studenti stessi diventino un po’ Omini, facendoli indagare, ascoltare, scegliere e scrivere, per mettere in scena un piccolo spaccato di realtà.
______________________________________________ 10 ottobre, ore 15.00-16.00 (Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo)
Teatro delle Ariette Incontro su Teatro naturale? Moi, le couscous et Albert Camus a Parigi – a cura di Giulia Filacanapa e Erica Magris. Con 7′ del video-documentario sulla compagnia, realizzato da Livia Giunti per il progetto PHC Galilée 2016 + ore 16.00-17.00: Focus su A. Camus e sulle “scritture sceniche” di L’étranger e Caligula Tavola rotonda: Stefano Pasquini e Paola Berselli, Franca Bruera, Eva Marinai, Armando Petrini
«Abbiamo deciso di fare questo spettacolo per parlare dell’oggi. E per parlare dell’oggi abbiamo pensato di raccontare una storia di
molti anni fa, quando avevo 17 anni. L’incontro con l’amore mi ha aperto le strade della conoscenza, mi ha fatto mangiare per la prima
volta il couscous e mi ha fatto scoprire Lo straniero di Albert Camus, un libro che mi ha cambiato la vita e mi ha messo di fronte
all’eterno conflitto tra uomo naturale e uomo sociale. In questo nostro spettacolo si intrecciano e si confondono il passato e il presente: il passato della storia che raccontiamo e il presente dello spettacolo che stiamo facendo. Perché il teatro si fa solo al presente e parla solo di oggi anche quando racconta storie di molti anni fa » (Stefano Pasquini).
All’incontro con la Compagnia delle Ariette farà seguito un approfondimento sul teatro di Albert Camus e su alcune riscritture italiane, tra cui Caligola di Carmelo Bene e Lo straniero di Marco Baliani.
_____________________________________________ 11 ottobre, dalle ore 17.00 (Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo)
Silvia Bottiroli Curatrice di arti performative, Direttrice di Santarcangelo Festival (2012-2016). Incontro a cura di Alessandro Pontremoli
+ Focus su Teatro «en plein air» /pop / urban /site-specific Tavola rotonda: Silvia Bottiroli, Federica Mazzocchi, Beppe Navello, Alessandro Pontremoli, Antonio Pizzo
Scrive Fabrizio Cruciani nel suo volume Lo spazio del teatro: «Lo spazio non è soltanto una qualità della realtà fisica quanto piuttosto una struttura storica dell’esperienza; è qualcosa cioè che costruisce visione». Nel momento storico in cui ogni idea forma di teatro è stata
messa in crisi e smantellata, lo spettacolo sembra ritornare al momento che precede la nascita di questa idea forma: allo spazio del teatro medievale, alla piazza, al sagrato, alla strada. Gli spazi aperti sono tornati ad essere quelli in cui l’evento accade ed è qualificato non solo dall’azione del performer, ma dagli oggetti simbolo di fronte ai quali questa azione si consuma (simboli che acquistano senso e danno senso), e dai corpi di chi è presente a questa azione. Al di là del gioco di parole: la presenza è quella di chi qualifica questo spazio proprio in virtù della sua presenza.
_____________________________________________ 12 ottobre, ore 10.30-12.30 (Aula Magna della Cavallerizza Reale, Via Verdi 9)
Chiara Guidi (Societas), Tra voce e infanzia Incontro a cura di Eva Marinai e Erica Magris Con il patrocinio dell’Università di Torino
«Credo che il mio lavoro si ponga tra infanzia e voce, per la loro capacità di sollevare qualcosa che non si vede ancora e di credere in
ciò che ancora non è. Per questo voglio stare con la cultura di cui i bambini sono portatori. Stare con gli infanti, coloro che vivono
prima del linguaggio, per ritrovare la mia voce e per serrare in me il mistero della vita» (Chiara Guidi). L’artista ci renderà partecipi della sua poetica, raccontandoci il lavoro sulla “tecnica vocale” e il “metodo errante”, pratica che mette in gioco i due fronti della rappresentazione: l’azione e la recezione, includendo lo sguardo dei bambini e la loro tendenza spontanea a prendere iniziative.
______________________________________________ 12 ottobre, ore 21.00 (Casa del Teatro Ragazzi e Giovani, Corso Galileo Ferraris 266) – costo: 5 € (previa prenotazione)
Chiara Guidi (Societas), Relazione sulla verità retrogada della voce Performance-concerto di e con Chiara Guidi Con il patrocinio della Città di Torino e in collaborazione con la Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani
______________________________________________ 12 ottobre, ore 15.00-16.30 (Aula Multifunzione della Cavallerizza Reale) * 14 ottobre, ore 15.00-18.00 (Aula Magna del Rettorato, ingresso da via Verdi 8 e da via Po 15)
Compagnie Les Têtes de Bois (Montpellier) Workshop sul teatro con le maschere, condotto da Mehdi Benabdelouhab e Valeria Emanuele a cura di Giulia Filacanapa + * 14 ottobre, ore 18.00: Focus su La magia della maschera tra occidente e oriente Tavola rotonda: Edoardo Giovanni Carlotti, Giulia Filacanapa, Eva Marinai
Lo stage proposto dalla compagnia francese Les Têtes de Bois é un momento dedicato all’utilizzo scenico della maschera. I partecipanti
avranno modo di scoprire e utilizzare le maschere della Commedia dell’arte, quelle della tradizione balinese, ma anche maschere
contemporanee e maschere di animali. Chi sa suonare uno strumento lo porti. Chi sa cantare si scaldi la voce. Tutti i talenti saranno i benvenuti. Il lavoro sulle improvvisazioni sarà condotto dal regista Mehdi Benabdelouhab che cercherà di guidare l’attore, mostrandogli la strada. A volte si trovano delle pepite d’oro, a volte solo dei granelli di sabbia. A volte nulla. Il nulla, il tunnel. L’importante non è quello che si trova, ma l’atto stesso di cercare.
«Tout est vrai, vous n’êtes qu’à la recherche du vrai» (A. Mnouchkine).
Per questo laboratorio la Compagnia chiede necessariamente una tenuta da lavoro così composta: pantaloni, maglietta manica lunga e calze tutto nero, capelli raccolti.
______________________________________________ 13 ottobre, ore 10.00 (Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo)
La bottega del dramaturg di Alessandra Rossi Ghiglione
«Credo che il lavoro e la passione di chi scrive per qualunque forma di teatro sia quella di dare voce ai molti. I molti incontrati nella vita e nell’immaginazione, persone che diventano personaggi e personaggi che prendono carne negli attori. Perché il teatro è sì linguaggio, ma è fra tutti il linguaggio più “addosso” alla vita che conosciamo. La bottega del dramaturg è una sartoria della scrittura, uno spazio sperimentale per un gruppo di giovani dove inseguire la propria personale declinazione di dramaturg: autore flessibile, dotato di creatività e poetica propria e insieme capace di ascolto e servizio nei confronti di altri autori, dal regista, agli attori alla comunità del pubblico».
______________________________________________ 13 ottobre, ore 11.00(Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo)
«Il Teatro è un arte contaminata. Un’arte contaminata dalla vita. (Il corpo dell’attore, il luogo fisico, la presenza dello spettatore)»
Il teatro di Cuocolo-Bosetti / Iraa Theatre offre un ritorno al quotidiano attraverso elementi e dispositivi di quella stessa realtà.
Rielaborando contenuti quasi esclusivamente autobiografici, coi loro spettacoli invitano a ripensare le consuete barriere tra realtà e
finzione, attore-personaggio, spazio pubblico e privato, spettatore e partecipante, aprendo luoghi di relazione in spazi non deputati
dove la coppia abita o ha transitato.
___________________________________________ 13 ottobre, ore 15.00(Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo)
Piccola Compagnia della Magnolia Giorgia Cerruti e Davide Giglio, Il Viaggio degli Atridi Incontro a cura di Giulia Menegatti + ore 16.00-17.00: Focus su Mito, ri-scrittura, vissuto Tavola rotonda: introduce Giulio Guidorizzi; partecipano: Giorgia Cerruti, Davide Giglio, Giulia Palladini, Giulia Randone, Eva Marinai
Un viaggio tra le metamorfosi del mito e del rito. L’appuntamento intende da un lato ripercorrere il lavoro “di compagnia” della
Magnolia e dei progetti “Teatro Abitato” e Atridi. Metamorfosi del rito, dall’altro indagare il rapporto tra ricadute del mito greco sulla
scena contemporanea e sguardi autobiografici. L’obiettivo è capire qual è il ruolo svolto dalla scena teatrale nell’elaborazione collettiva
della coscienza tragica: scena in quanto topos privilegiato in cui il “discorso mitico” può mettere in atto un processo di rienunciazione,
rinarrazione e riattivazione. «Chi sono i Greci?» significa anche «chi siamo noi?»
______________________________________________ 14 ottobre, ore 10.00(Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo)
Mapa Teatro Storia, Allegria e la Politica del Montaggio di Giulia Palladini (Kunsthochschule Berlin-Weißensee)
L’intervento rifletterà su alcuni nodi della poetica e della politica del lavoro artistico di Mapa Teatro, piattaforma di artisti attiva a
Bogotà e fondata dai tre fratelli di origine svizzero-colombiana Elizabeth, Heidi e Rolf Abderhalden. A partire da una presentazione delle caratteristiche fondamentali del lavoro di Mapa Teatro, laboratorio artistico permanente attivo da trent’anni a livello internazionale, l’intervento si concentrerà in particolare sugli aspetti distintivi del processo creativo alla base dei loro numerosi progetti, che si muovono in un orizzonte radicalmente transdisciplinare, che comprende il teatro, così come il video e l’installazione. Come esempio della lunga durata e della complessità di tale processo creativo, osserveremo in particolare l’ultimo progetto realizzato
da Mapa Teatro: la trilogia Anatomia della Violenza in Colombia.
______________________________________________ 14 ottobre, ore 11.00 (Laboratorio Quazza, seminterrato di Palazzo Nuovo)
Famiglie danzanti: Virgilio Sieni a Torino di Maria Rita Fabris
A partire dalle condizioni politico-economiche che hanno reso possibile la creazione di «Altissima povertà» di Virgilio Sieni alla Galleria Grande della Reggia di Venaria grazie alla mediazione de La Piattaforma di Mariachiara Raviola, l’intervento andrà ad approfondire i principi sottesi alle dinamiche associative e d’impresa culturale proprie delle nuove pratiche di danza (ascolto, sostegno, cura, condivisione, bellezza, comunità), che permettono quel contatto umano, fisico e simbolico, che mentre crea una famiglia danzante fa intravedere una comunità utopica.
______________________________________________ (* Le attività proseguono negli orari sopraindicati)
Seminario Internazionale di Teatro (Torino, 10-14 ottobre 2016) IN ATELIER | DANS les ATELIERS
Processi creativi e dinamiche di relazione nelle “compagnie d’arte” | Processus de création et dynamiques de relation dans les “compagnies d’art”
Direzione scientifica e artistica: Eva Marinai (Università di Torino)
Comitato scientifico e promotore: Silvia Bottiroli (Università Bocconi Milano), Franca Bruera (Università di Torino), Giulia Filacanapa (Université Paris 8 Vincennes-Saint-Denis), Erica Magris (Université Paris 8 Vincennes-Saint-Denis), Eva Marinai (Università di Torino), Federica Mazzocchi (Università di Torino), Giulia Palladini (Kunsthochschule Berlin-Weißensee)
Organizzazione: Giulia Filacanapa, Eva Marinai, Giulia Randone
Il blog degli studenti di teatro del D@ms di torino