L’essenzialità è una condizione nel teatro sempre difficile da maneggiare, ma è proprio ciò che Claudia Castellucci fa, alla sua quinta presenza al estival, insieme alla compagnia Mòra. In Sahara riduce il teatro al grado zero, in scena ci sono solo tre elementi: corpo, luce e suono.
La scena iniziale delinea già l’atmosfera che accompagnerà tutto lo spettacolo: la platea e il palco sono immersi nel buio e nel silenzio quando la luce di una torcia inizia ad illuminare un attore sullo sfondo. Non appena il palco diventa più visibile, si nota la presenza di sei attori in uno spazio completamente vuoto, i loro vestiti sono rovinati, hanno colori tenui e di tonalità di marrone. Questi sono i colori protagonisti dello spettacolo: sembra di trovarsi in un deserto, intorno a loro non c’è nulla, la luce è di un colore caldo e le immagini non sono del tutto nitide, c’è del fumo che rende l’ambiente “opaco”, come se fossero immersi nella polvere o nella sabbia.
Libano, Repubblica Democratica del Congo, Bosnia, Grecia. Quattro performer, quattro lingue, quattro nazionalità, unite da un passato (e spesso un presente) di guerra civile, di massacri tra vicini, di case e intere famiglie bombardate e distrutte. E proprio di questa sofferenza parla Thebes: A Global Civil War di Pantelis Flatsousis, presentato al Teatro Astra all’interno del Festival delle Colline Torinesi 2024/25.
La scena è vuota e piena allo stesso tempo: ad abitarla non sono solo i corpi dei quattro attori e i loro racconti, ma soprattutto chi non c’è più, cancellato così radicalmente dalla guerra da lasciare come unica traccia di sé i propri abiti. I vestiti, che coprono ogni centimetro del pavimento, ci ricordano che in questo caso anche sopravvivere e avere la possibilità di sedersi davanti ad una telecamera e raccontare (e raccontarsi) è un privilegio. La recitazione oscilla come un pendolo tra l’incertezza della reminiscenza della sofferenza, in cui il performer mantiene sì la sua individualità, ma si fa mediatore dell’esperienza secolare di conflitti sanguinolenti e fratricidi, e la perfetta dizione di attori professionisti alle prese con un classico della cultura teatrale occidentale. I sette a Tebe si svolge lungo tutta la narrazione come un fil rouge storico, ma soprattutto profondamente umano, con lo scopo di sottolineare come questi argomenti non escano mai veramente dalla sfera dell’attualità.
Questo quartetto di lingue, estranee all’orecchio dello spettatore, lo costringe ad abbandonare la comoda posizione passiva sulle poltrone imbottite del teatro e a mettersi in gioco, riflettendo così in parallelo lo sforzo di testimoniare, di raccontare l’orrore che viene fatto dagli attori.
Il costante dialogo tra scena, video live e film (così profondo da concludere la spettacolo con la proiezione dei titoli di coda) contribuisce a rendere più coinvolgente la narrazione, eliminando la distanza tra attori e spettatori attraverso il primo piano sul volto e sullo sguardo dei performer, superando i limiti naturali del teatro stesso. La sensazione che rimane sulla pelle dello spettatore una volta conclusosi lo spettacolo è di essersi intromesso di nascosto dietro le quinte delle riprese di un documentario, di aver potuto vedere ciò che si cela oltre l’inquadratura.
Lo spettacolo ovviamente non si propone di esaurire un argomento così vasto come la guerra civile, ma nonostante ciò, dice molto più di tanti altri spettacoli che pretendono di informare ed educare sugli stessi argomenti. Thebes – A Global Civil War non scade mai nel banale, nel moralismo spicciolo che ripete massime vuote e ovvie; allo spettatore non viene concesso di scrollarsi di dosso lo sguardo e le parole dei quattro performer con un applauso. Davanti a una narrazione di questo calibro non c’è catarsi che tenga.
Questo spettacolo è testamento del vero potere del teatro e del senso della sua sopravvivenza nel mondo contemporaneo: non il rudere di un’epoca passata da adorare come un’icona e da conservare in una teca in qualche museo, ma la necessità radicata nelle caverne più profonde dell’Io umano di comunicare, di raccontare e di stabilire un rapporto fisico, visivo e mentale con un altro essere umano in carne ed ossa.
Barbara Turinetto
Uno spettacolo di Pantelis Flatsousis & the ensemble / Spectrum
Regia: Pantelis Flatsousis
Drammaturgia: Panagiota Konstantinakou
Interpreti: Vedrana Bozinovic, Racha Baroud, Albertine Itela, George Paterakis
Scene e costumi: Constantinos Zamanis
Musiche originali: Henri Kergomard
Video: Constantine Nisidis
Disegno sonoro: Christina Thanasoula
Assistente alla drammaturgia: Ioanna Lioutsia
Consulente scientifico: Manos Avgerides
Assistenti alla regia: Athena Bakoyianni, Anna Karamanidou
Manager di produzione: Rena Andreadaki, Zoi Mouschi
Produzione: Athens Epidaurus Festival
Con il patrocinio di Consolato Generale della Repubblica Ellenica in Torino
Euripides Laskaridis mette in scena uno spettacolo giocato sulle contraddizioni e nel contempo produce un effetto disarmonico, a tratti consapevolmente, ma che fa uscire il pubblico dal teatro con molti interrogativi. Un esplosivo inizio ci accompagna in un’atmosfera burlesca, un lupo mannaro rivela la sua ferocia ma lo fa mostrando una poetica sensibile e commovente. I personaggi grotteschi ricordano creature che hanno attraversato la nostra infanzia, qualcosa di sopravvissuto al passato e che nel presente ritornano con sottile ironia. Lapis Lazuli è uno spettacolo dalla forte dualità e ci fa interrogare su chi sono i veri mostri, i crudeli, gli assassini… Il titolo prende spunto da una pietra dal colore blu, lapislazuli, che deriva dal latino e dall’arabo e che viene ripreso dal greco bizantino,il suo colore blu dovuto ad un’alta concentrazione di lazurite al quale vengono attribuiti svariati significati e proprietà spirituali. Tra il terreno e il celeste i performer si muovono con un linguaggio fatto di suoni vocali e di spari, si disperano si interrogano e si dimenano. Ed è ciò che più colpisce appunto di tutto lo spettacolo, la maestria degli interpreti che giocano in un teatro fatto di variazioni e contraddizioni. Uno spettacolo coinvolgente, misterioso, sognante e inquietante. Le maschere ti osservano sotto intrecci di luci e si avvia un viaggio che attraversa scambi di visioni, giochi di potere e crudeltà ampliate da voci dispotiche ed esaltate: chi è il vero cattivo? Quando arriva, il silenzio si fa denso e violento e lascia per un momento quell’ilarità iniziale. Un volto mascherato che si lascia intravedere a tratti e ci evoca una trappola, un varco che gli uomini non riescono ad affrontare, intrappolati dalle maschere della società. Il canto del lupo rivestito di ricchi diamanti esalta il potere della ricchezza e il rito sacrificale del maialino è compiuto.
Alessandra Lai
Ideato e diretto da Euripides Laskaridis Musiche originali di Giorgos Poulios Consulente alla drammaturgia Alexandros Mistriotis Scenografia di Sotiris Melanos Luci di Stefanos Droussiotis Effetti sonori di Yorgos Stenos Costumi di Christos Delidimos e Alegia Papageorgiou Oggetti di scena di Konstantinos Chaldaios OSMOSIS coordinamento e comunicazione produzione Onassis Stegi con il supporto di Fondation d’entreprise Hermès coproduzioneThéâtre de la Ville, Théâtre de Liège, Espoo Theatre Finland, Teatros del Canal, Teatro della Pergola Firenze, Festival Aperto / Fondazione I Teatri Reggio Emilia, the Big Pulse Dance Alliance festivals: Julidans, Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, One Dance Festival cofinanziato dal Creative Europe Programme of the European Union con il supporto di Megaron – the Athens Concert Hall con il supporto del Ministero della Cultura Greco grazie a Onassis AiR Fellowship un ringraziamento speciale Dimitris Papaioannou & Tina Papanikolaou
Anche quando sveste i panni del personaggio, Valerio Binasco sale in scena con quella naturalezza, nel senso di autenticità e profondità in cui la intende Carlo Cecchi, che dice la realtà (sempre secondo la sua accezione di gioco reale) del suo teatro. Il corpo scenico – concreto e nervoso – è, in un modo quasi sensuale (il teatro è un fatto anche “erotico”), attratto dal palcoscenico, dal luogo fisico in cui sta agendo. La sua presenza concitata, vibrante e dinamica, incarna quel tipo di teatro – che non incontro di frequente – molto poco concettuale (nel senso di priorità data all’elaborazione intellettuale) e capace, invece, di verità: ciò che Binasco fa sulla scena viene fuori come liberazione di quella «bestia teatrale» che abita la sua anima. Come qualcosa di visceralmente sentito.
“Ah! I have kissed thy mouth, Jokanaan, I have kissed thy mouth. There was a bitter taste on thy lips. Was it the taste of blood?… But perchance it is the taste of love….”
La compagnia madalena reversa torna al Festival delle Colline dopo il suo precedente lavoro Manfred del 2022.
No, non c’è nessun errore, il nome della compagnia è proprio in minuscolo, il motivo lo svelerò dopo; madalena reversa è un progetto artistico, creato da Maria Alterno e Richard Pareschi nel 2016, che fonde performing, visual arts e danza multimediale.
Dopo il teatro, la musica, l’opera e il cinema non poteva mancare la Salomè sotto aspetto rappresentativo di transmedia wave. Qui viene coreografata e interpretata da una bravissima Gloria Dorliguzzo.
Veniamo accolti da una nebbia che accompagna tutto lo spettacolo come un respiro sospeso nell’aria. Appare uno schermo che interagisce con noi, mostrandoci una frase dell’opera di Oscar Wilde: “Non ci sono Dèi adesso. Ho passato notti, cercandoli dappertutto. Non li ho trovati, Li ho chiamati, Non sono apparsi. Penso che siano morti.” Silenzio, poi a lenti e agognati passi, accompagnata da una musica tetra, entra Salomè.
La musica o per meglio dire i suoni che pervadono la performance la fanno sentire un essere antropizzato dal malessere percepito come una condizione di fragilità umana. Le luci stroboscopiche e psichedeliche dialogano e danzano con la musica, s’intervallano alla forza del suono emettendo spasmi e sputando scie chimiche voltaiche.
Ha un significato profondo questa Salomè sia come drammaturgia musicale che come drammaturgia della danza, essendo l’opera teatrale già di per sé un dramma scritto nel periodo post-romantico di fine Ottocento.
Siamo attratti da una performance fisica di danza non-danza, da un’interpretazione coreografica che, prendendo spunto dalle ultime pagine del testo, traduce le parole in movimenti coreutici, formando una drammaturgia del movimento all’interno di un discorso concentrato sulle azioni del solo corpo.
Il timing dei gesti di Salomè ci trasporta in un mondo onirico, tetro, illuminato solo da fievoli luci giallastre, rossastre, bluastre. I passi sono sintonizzati con le tonalità della musica e appaiono appesantiti da una forma epilettica che parte dai piedi fino ad arrivare allo stomaco. L’interpretazione del corpo e del movimento rimandano all’ansia del vivere contemporaneo.
Avvolta in una felpa nera, bermuda neri e stivaletti neri, questa Salomè non ci fa quasi mai vedere il viso, lo nasconde, come quando inarca il busto verso l’alto fino a farsi “tagliare” la testa e rimanere sospesa per pochi secondi: pura azione emozionante che sintetizza l’intera performance.
Ed eccolo il profeta, rappresentato come “Monolite Jokanaan”, causa di desiderio e di morte per Salomè. Egli urla, grida, maledice tutti emettendo suoni che irrompono nella sala come lampi diegetici. Salomè è attratta da lui ma viene respinta e qui inizia il climax tra di loro; tra una cambio stroboscopico e l’altro lei indossa una specie di museruola formata da una mezza protesi inferiore a mandibola argentata. Ed eccola danzare attorno ad lui, inteso come oggetto del desiderio. Lo vuole tutto per sé, si arriva ad un amplesso con lei che si butta ai suoi piedi, divarica le gambe, si spoglia dalla felpa per rimanere in una t-shirt grigio topo, luci e suoni la trasportano impazzendo tra loro e poi…poi buio di nuovo fino al momento dell’inizio della forza tragica. Una sorta di “danza dei sette veli” psicotica che culmina con la dura forza nell’uccisione di lui.
Posseduta e dilaniata dai sensi di colpa, Salomè irrompe con una mazza da baseball mentre sul finale una luce bianca accecante punta dritto sul pubblico.
Si arriva alla forza degli ultimi gesti, prima della catastrofe, ovvero avvicinarsi al “Monolite Jokanaan” per spogliarlo con ferocia dei veli e portarseli addosso come un senso di liberazione dagli atti impuri. Salomè si arrotola nella grande veste nera che avvolgeva lui. Sa che anche lei morirà e per questo vuole possederlo anche quando diventeranno un tutt’uno.
Lo schermo si riaccende, facendoci leggere che non esistono dèi e che tutto viene percepito dall’ invisibilità della forma.
BREVE INTERVISTA a Richard Pareschi
L.R: “perché madalena reversa e perché in corsivo?”
R.P: “semplice, perché viene confuso con un nome e cognome che esiste già quindi abbiamo pensato di scriverlo in corsivo, altro motivo viene riferito durante il Seicento alla Madalena in Estasi, proprio alla posizione del capo cioè reversa, ed era un’opera del Caravaggio che è stata ritrovata nel 2014 da Mina Gregorio, una delle più importante esperte sulle opere di Caravaggio nonché storica dell’arte italiana. Quindi il nome della nostra compagnia si lega alla percezione dell’estasi come nostra ricerca, legata alle teoria della filosofia contemporanea tedesca su una nuova visione di estetica, e tutta la nostra ricerca si basa sulla percezione, un oggetto che esce fuori da sé stesso oltre la sua reale funzione.”
L.R: “correggimi se sbaglio, ma il vostro Jokanaan lo rappresentate come un monolite, ispirandovi a “2001 a Space Odyssey” o sbaglio ?”
R.P: “beh, rappresenta il concetto di sacro, d’invisibile; è vero rappresenta il monolite da 2001, come invisibile che non si può toccare come il sacro è, nella religione ebraica il velo (Kippà) dietro il “paroakeet” del tempio viene rubato da Erode. In tutta l’opera di Wilde tutti si chiedono che fine a fatto il velo, alla fine Erode ammette che è stato lui a rubarlo e quindi Salomè in qualche modo cerca sempre di toccare l’invisibile.”
L.R: “il metodo grotowskiano c’è nella performance di Gloria Dorliguzzo, o no?”
R.P: “no, cioè sotto il nostro punto di vista, dialogando con lei prima d’iniziare questo percorso, non siamo partiti da Grotowski, anche se dai nostri studi accademici c’è un allineamento ma è esterno. Dopodiché la struttura coreografica dei movimenti è proprio di Gloria, noi abbiamo tracciato un percorso anche con il nostro compositore delle musiche originale Donato Di Trapani, abbiamo elaborato una drammaturgia musicale come punto di partenza dei nostri lavori che poi diventa veramente un monolite, un punto intoccabile e Gloria su questo ha voluto fare una ricerca di qualità dei movimenti, dopo di che come coreografa della pièce… quindi ti dico un ni da parte nostra, mentre per lei, non avendo una formazione teatrale accademica tradizionale, non ci ha fatto sapere se conosce questo metodo grotowskiano, ma chi lo sa, forse…”
Luigi Rinaldi
Dall’opera di Oscar Wilde
ideazione e regia Maria Alterno e Richard Pareschi
composizione coreografica e interpretazione Gloria Dorliguzzo
musiche originali Donato Di Trapani
disegno luci Andrea Sanson
direzione tecnica e fonica Francesco Vitaliti
mandibola Plastikart Studio di Zimmermann & Amoroso
progetto grafico Federico Lupo
produzione madalena reversa in collaborazione con Motus VAGUE coproduzione FOG Triennale Milano Performing Arts, TPE – Festival delle Colline Torinesi
con il sostegno di C.U.R.A. – Centro Umbro Residenze Artistiche / ZUT!, Anagoor
Appena entri nella sala, una scena piena di abiti sparsi sul pavimento cattura l’attenzione; sembra quasi una rappresentazione del caos e della disorganizzazione, oppure un simbolo di identità perdute e dimenticate. Questa immagine è un’introduzione a un viaggio emotivo e interiore che ci apprestiamo a vivere con lo spettacolo. Senza una sola parola di dialogo, la scena con gli abiti sparsi crea un’atmosfera di confusione e domande senza risposta. La prima domanda è: cosa vogliono dirci questi vestiti?
Qualcuno inizia a parlare, ma in una lingua sconosciuta. Gli spettatori guardano curiosi intorno, ma non capiscono chi stia parlando. All’improvviso, una voce in arabo risuona nell’aria, e qualcuno tra il pubblico scende le scale. Poi, un’altra persona inizia a parlare in una lingua che potrebbe essere il greco, seguita da qualcuno che parla in francese. Quattro persone, ognuna proveniente dal pubblico, si dirigono verso il palco.
Questi quattro attori portano ciascuna una storia diversa: una dalla Bosnia, una dal Congo, una dal Libano e un’altra dalla Grecia. Tutti con lingue ed esperienze diverse si riuniscono sul palco. Questa combinazione multiculturale e multilingue, come simbolo della diversità e pluralità dell’umanità, crea un’atmosfera affascinante e complessa che coinvolge immediatamente lo spettatore. Rapidamente, ognuno di loro inizia a pronunciare nomi e anni di nascita, uno dopo l’altro e senza interruzioni, come se in ogni istante stessero riportando alla memoria qualcuno o rivelando un’identità. Uno spazio pieno di nomi e date che continua per qualche minuto, mentre una musica inquietante costruisce una tensione palpabile e un’atmosfera di attesa. La scena si riempie di nebbia e una luce illumina una grande scritta: Thebes: A Global Civil War.
Tutto si ferma in quell’istante; come se il tempo si fosse bloccato per un momento, ed è l’inizio…
Lo spettacolo sfrutta abilmente la tecnologia e riesce a creare un’armonia perfetta tra teatro e cinema. Questa scelta intelligente dà vita a una struttura semplice ma potente, che evita complicazioni inutili e, nella sua semplicità, risulta estremamente efficace.
Ogni personaggio sulla scena racconta la storia della propria vita, mentre contemporaneamente vengono proiettate sullo schermo immagini di tipo documentaristico. Queste immagini sembrano far sentire lo spettatore come se stesse guardando un documentario con la presenza diretta del narratore. Inoltre, l’uso della videocamera sulla scena aggiunge un altro strato all’esperienza dello spettatore. La videocamera ha più funzioni: prima di tutto, trasmette un primo piano di ogni personaggio, insieme ai sottotitoli e alle immagini documentaristiche, sullo schermo, facendo sì che lo spettatore si concentri attentamente sul display, dovendo seguire anche i sottotitoli. La seconda funzione della videocamera è creare un senso di maggiore vicinanza ai personaggi, proprio come un primo piano cinematografico che aiuta a stabilire una connessione emotiva con il pubblico. Alla fine, l’uso della telecamera crea una sensazione come se fossimo dietro le quinte di un documentario in fase di realizzazione; questa scelta intelligente unisce ancora una volta semplicità e creatività, dando vita a un’atmosfera vivace e unica. Tuttavia, il tutto non sempre funziona perfettamente; in alcuni momenti, la telecamera non è riuscita a catturare correttamente l’immagine dell’attore o le proiezioni sullo schermo non sono sincronizzate con la scena. Queste dissonanze hanno ridotto in qualche momento l’impatto dello spettacolo compromettendo in parte l’uniformità dell’esecuzione.
Gli attori ci parlano di guerre che stanno ancora avvenendo; guerre che non solo hanno influenzato il passato, ma che continuano a segnare il presente. Questa parte dello spettacolo sottolinea in particolare l’importanza della documentazione e della memoria, poiché finché esisterà l’umanità, esisteranno anche le guerre. Documentare significa raccontare le storie delle persone che sono vittime della guerra; coloro che, in un batter d’occhio, hanno perso la casa e la patria, lasciati a vagare tra la violenza e la disperazione.
Questo spettacolo, attraverso la documentazione, mantiene vive le storie di queste persone, offrendo agli spettatori l’opportunità di confrontarsi con le crude realtà che accadono in tutto il mondo. La presenza diretta e manifesta dona una voce agli individui colpiti dalla guerra, e forse questa voce può, anche solo per un momento, attirare l’attenzione degli spettatori sulle vite distrutte dall’ombra della guerra.
All’interno dello spettacolo l’elemento musicale cattura l’attenzione sin dal primo istante; una musica che rapidamente richiama alla mia mente le opere di Eleni Karaindrou. Le melodie danno vita a un’atmosfera emotiva e profonda, simile a quella sensazione di malinconia e riflessione che avevo sperimentato nelle musiche di Karaindrou. Temi musicali che non solo potenziano il carico emotivo dello spettacolo, ma creano anche una connessione immediata tra il pubblico e la storia, perfettamente in sintonia con l’atmosfera del momento.
Lo spettacolo si avvia alla conclusione con le parole di Antigone: “Io, una donna, scaverò la tua tomba. Io, una donna, spargerò la terra su di te. Nessuna legge potrà fermarmi”.
Gli abiti sparsi sulla scena sono di coloro che non possono più essere con noi, non più alle feste né ai compleanni.
Roozbeh Ranjbarian
Uno spettacolo di Pantelis Flatsousis & the ensemble / Spectrum
Regia Pantelis Flatsousis
Drammaturgia Panagiota Konstantinakou
Interpreti Vedrana Bozinovic, Racha Baroud, Albertine Itela, George Paterakis
scene e costumi Constantinos Zamanis
Musiche originali Kergomard
Video Constantine Nisidis
Disegno sonore Christina Thanasoula
Assistente alla drammaturgiaIoanna Lioutsia
Consulente scientifico Manos Avgerides
Assistenti alla regiaAthena Bakoyianni, Anna Karamanidou
Manager di produzione Rena Andreadaki, Zoi Mouschi
L’individualità è per definizione il complesso degli elementi di caratteristica ed esclusiva pertinenza del singolo. Attualmente, cosa ci pone come individui all’interno della collettività? Una tematica complessa, che ci viene mostrata nell’elaborazione dell’installazione performativa Senza Titolo di Romeo Castellucci all’interno della Fondazione Merz. La sala che ospita l’azione è completamente bianca, per non concedere distrazioni allo spettatore, ed è presente un fumo che rende austero il luogo. Al centro della sala è collocata una sbarra d’oro sospesa, che viene colpita dai capelli dei diversi performer, generando così un suono. Appena si entra l’azione è già iniziata, probabilmente mai finita, perché l’azione non prevede una conclusione ma una ciclicità e un continuo sostituirsi di persone che compiono il medesimo gesto. Sono le prime impressioni a rendere la sala un luogo dal tempo altro.
Nel momento in cui vige sempre più la cultura del disimpegno e del disfacimento intellettuale, la compagnia del Sotterraneo al teatro Astra mette in scena Il fuoco era la cura dove l’elogio dell’Arte in tutte le sue forme s’impossessa dello spazio scenico; dalla recitazione al ballo, dal cinema al teatro, con la letteratura come punto di riferimento alto. Come afferma il filosofo Ferraris, la verità non esiste se non viene registrata. Quando ogni impronta di sapere e di civiltà viene data alle fiamme l’umanità diventa vulnerabile all’affermazione di regimi autoritari. Questo, secondo il capitano Beatty (Radu Murarasu), per un principio di uguaglianza fra individui che libera dal peso di un pensiero complesso, in un futuro distopico che stimola l’immaginazione dello spettatore.
Il 20 ed il 21 settembre, alle Fonderie Limone per il Torinodanza Festival 2024, è andato in scena lo spettacolo di Marco da Silva Ferreira, Carcaça, una prima nazionale che si impone nel panorama teatro danza come rivelazione della stagione internazionale. Una vera e propria performance nata dalla commistione di diverse arti tra cui: l’arte visiva, la coreografia luci, l’utilizzo della voce e l’uso del corpo, esso stesso veicolo del cambiamento.
Settantacinque minuti di incessante energia: la musica tribale ha il sapore dei legami delle origini, quei legami profondamente instaurati con la propria terra, con la propria carne e con piccoli o grandi atti di sopravvivenza. Un ballerino, mutilato da un braccio, danza, con una protesi, in assoli che restituiscono all’immaginario dello spettatore sentimenti di forza, di volontà, di ribellione, di libertà e di sacrificio. Le coreografie di gruppo appaiono talvolta armonicamente dissonanti restituendo il significato stesso della rivolta: rumore, sovversione e unione. I costumi, ricchi di colori e sfumature, accentuano la bellezza della diversità, toni freddi e caldi, cromature e neri scurissimi, una varietà che sposa perfettamente l’anima eversiva dello show.
Cantiga sem maneras
“Unirci per fare un altro passo
De nos unirmos p’ra dar mais um passo
Combattiamo e ripuliamo
Vamos lutar e sanear
Saremo responsabili
Vamos ser nós a comandar
Con questa lotta per un nuovo mondo
Com esta luta por um mundo novo
E gli operai davanti a guidare
E os operários à frente a guiar
E ci sono così tante persone da combattere
E há tanta gente p’ra lutar
Per la democrazia popolare
P’la democracia popular…”
Due voci maschili, possenti ed intense cantano con sorpresa del pubblico: “Cantiga sem maneras”, un canto politico, del gruppo portoghese Vozes na Luta (GAC), per scelta non tradotto in lingua italiana dal coreografo. Il fervore latino originario e le vigorose vibrazioni di questo spettacolo traspaiono in ogni sua parte, dando al pubblico la possibilità di cogliere, facilmente, ogni sua tonalità. Gli spettatori accolgono infatti il ribollente sangue di Carcaça con fermento ed emozione. La narrazione della visione collettiva che Marco da Silva Ferreira possiede, raggiunge lo spettatore forte e chiaro: “l’unione fa la forza”. Il dolore in questo show resta presente ma flebile, prende la forma di un tappeto bianco steso sul palcoscenico, un tappeto impressionato dal calore del corpo dei ballerini che una volta alzatisi, lasciano un’orma indelebile, quella del loro corpo, un’ombra come in un negativo, come un attimo bloccato per sempre in una fotografia. I corpi dei performers sono ormai immobili, come cadaveri, la cui anima continua a danzare sulle note del dolore, un’intensa emozione che fa da sfondo al sentimento di giustizia. Il tappeto bianco diviene un telo che improvvisamente si innalza sul palcoscenico, la coreografia di luci di ogni tono lascia spazio al buio, poi, i ballerini, uno dopo l’altro, impressionano il telo nuovamente, questa volta con una luce, una piccola torcia. Compare piano piano, con la palpabile fatica dei performer un messaggio: “Tutti i muri cadono”. Quel tessuto dal colore puro diventa un muro, quello di Berlino chissà o forse un muro etico e morale o addirittura una barriera che impedisce alle persone di fuggire in cerca di una vita migliore. Il telo cade, una commemorazione forse, per tutti i muri già caduti ed un augurio, per tutti i muri che ci sono e che, prima o poi, cadranno.
“Ballate, voi esseri umani pieni di energia, prendete la vostra forza dalla terra stessa, che dai vostri piedi, come radici, possa raggiungere la mente e portarvi finalmente ad abbattere ogni muro. Noi esseri umani, tutti diversi per ricchezza e non per condanna, dovremmo imparare ad amarci, ad essere un’unica squadra, tanto grande da coprire un intero pianeta. Che il sangue che ribolle in ognuno di noi, possa essere lo stesso di chi l’ha perso lottando per la nostra libertà, noi che nel progresso vediamo l’amore prima dell’odio”. Queste parole, mie e mie soltanto, sono frutto della mia coscienza, scossa ancora dalla potente arte dell’accadere che questa volta, agisce sotto il nome di:Carcaça.
Rossella Cutaia
coreografia e direzione artistica Marco da Silva Ferreira assistenza artistica Catarina Miranda interpreti André Speedy, Fábio Krayze, Leo Ramos, Marc Oliveras Casas, Marco Da Silva Ferreira, Maria Antunes, Max Makowski, Mélanie Ferreira, Nelson Teunis, Nala Revlon tecnico del suono João Monteiro design delle luci Cárin Geada direzione tecnica Luísa Osório musica João Pais Filipe (percussionista) e Luís Pestana (musica elettronica) costumi Aleksandar Protic scenografia Emanuel Santos p.ulso | Big Pulse Dance Alliance con Il sostegno del Programma Creative Europe dell’Unione Europea
Il blog degli studenti di teatro del D@ms di torino