Niente di più attuale del testo di Hanoch Levin portato in scena da Andrèe Ruth Shammah, considerato negli anni della sua stesura “scomodo”, il quale affronta una crisi esistenziale tra le mura domestiche avuta dal protagonista Yona Popoch, interpretato da Carlo Cecchi. Una crisi, più di mezza età che coniugale, che porterà a riflessioni filosofiche e a considerazioni sulla vita e sulla morte, quasi preannunciata nelle battute iniziali dal dolore al petto di Yona che si manifesta più volte durante lo spettacolo.
Sipario aperto, letto matrimoniale ben in vista grazie al pavimento inclinato, si spengono le luci ed entra la coppia. Lui, beffardo e duro tanto da definire la moglie un“culo”, lei, Leviva (Fulvia Carotenuto), onesta, come spesso si definisce, e incredula alla reazione improvvisa del marito nel cuore della notte il quale, preso dai pensieri e, apparentemente, dal timore che la moglie lo tradisca, la butta giù dal letto insieme al materasso. Battute comiche si alternano a scene patetiche in cui viene messa a nudo la tristezza e la sofferenza dei personaggi, l’incapacità di comprendere a fondo questa loro vita e ti trovare una scappatoia. I personaggi, infatti, trascorrono più tempo a parlare, a lamentarsi e a insultarsi che ad agire. Leviva minaccia il suicidio ma tenterà sempre e solo di convincere il marito a restare e a invecchiare accanto a lei; Yona proverà ad andarsene di casa per rifarsi una nuova vita senza la moglie, ma nel momento decisivo ecco che sopraggiunge un loro amico, Gunkel (Massimo Loreto), un uomo solo, senza moglie, invidioso di loro. Sarà poi la solitudine di quest’ultimo e la sua infelicità a far cambiare idea a Yona, più che per amore verso la moglie per paura di morire solo. Gli atteggiamenti si invertono: Yona più remissivo, Leviva più audace. E’ lei ora a prendersi beffa del marito, servendosi dello stesso sarcasmo riservatole prima, chiedendo anche sostegno al pubblico, anime dell’aldilà che osservano la loro vita, tra cui si cela anche lo spirito della madre del suo compagno “che se la ride”. Rottura della quarta parete, dunque, così che il pubblico è costretto a vedere la finzione sotto una nuova luce e a guardare meno passivamente, forse un richiamo a Brecht, ben noto per rompere deliberatamente la quarta parete, per incoraggiare il suo pubblico a pensare in modo più critico ciò che stava guardando. Lo spazio del palcoscenico è dominato da Cecchi, quasi mai fermo, il quale trascina il pubblico nel suo sogno di libertà, ma è la voce di Fulvia Carotenuto a prevalere maggiormente, ad attirare l’attenzione del pubblico ed a riportarci con i piedi per terra. Intanto il tempo scorre. Il lavoro di vivere è un testo conflittuale, una commedia crudele e ironica, con battute pungenti. Niente è lasciato al caso come il rumore delle gocce d’acqua: durante l’arco dello spettacolo è possibile udire lo scarico del gabinetto che perde, goccia dopo goccia, come a scandire i secondi che passano, forse un altro modo per farci intuire che Yona ha i minuti contanti.