Inverno, piccolo paese calabro: Peppino va a fare visita alla tomba della madre in un freddo giorno di neve. Si scusa per essere in ritardo, ma una delle tante comari del paese lo ha trattenuto con le solite chiacchiere. Si mette a pulire dolcemente l’immagine della vecchina che non c’è più, mentre le chiede come vanno le cose lassù in cielo. Ma è veramente azzurro come si vede dalla terra, o una volta saliti là sopra cambia colore? E Gesù Cristo e la Madonna, come sono in realtà? Ed è vero quello che si dice sulla famosa porta del Paradiso, dove una volta arrivati ci si trova davanti San Pietro con le sue chiavi e la lista degli ammessi? “Tu sì. Tu no. Tu aspetta un attimo”. Poi comincia a raccontarle di quello che succede in paese. Chiacchiera spensierato come si fa davanti a un amico che non si vede da tempo, chiacchiera e sorride di tutte quelle piccole cose che sono sempre le stesse. Sembra tranquillo e sereno, ma il suo racconto si fa sempre più incerto, sempre più scarno, come se qualcos’altro riempisse i suoi pensieri. Non dobbiamo aspettare molto. Scopriamo quasi subito cosa lo tormenta da tutta una vita, quel segreto che si porta dentro da sempre e che ora è pronto a confessare: è questa la vera ragione che lo ha portato a far visita alla madre, poterle finalmente dire ciò che non aveva avuto il coraggio di dirle quando era ancora in vita. Peppino è omosessuale, come dice lui “nu masculu ch’i piacciono i masculi”, “o masculu e fìammina” come diceva la mamma. Ma quella definizione non è mai piaciuta a Peppino. “Nu masculu ch’i piacciono i masculi” è un maschio a cui piacciono i maschi, ma sempre maschio rimane, di femmina non c’è proprio niente. Non gli piace nessuna delle tante parole che si utilizzano per definire chi è come lui, in particolare la parola diverso. “Diverso da chi?” si domanda. “Perché non siamo tutti diversi l’uno dall’altro?” Peppino rivela così a sua madre il grande peso che si porta dentro da sempre, fin da quando era solo un bambino e guardava incantato il ragazzo biondo suo vicino di ombrellone mentre giocava sulla spiaggia, d’estate, o quando ammirava di nascosto le gambe dei suoi compagni di scuola durante l’ora di educazione fisica. Non erano le ragazze o le maestre a fargli nascere della fantasie, ma i suoi compagni di scuola. Pensando a loro si toccava nei momenti di intimità, e poi si guardava allo specchio, disperato e pieno di vergogna, confessando a se stesso: “sono un ricchione”. Quella era la parola più gettonata dai suoi compaesani per definire gli omosessuali. All’epoca, quando era un ragazzino, ricorda Peppino, di omosessuale dichiarato ce n’era solo uno, e ogni volta che usciva per strada era sempre accompagnato dal solito coro che riecheggiava in tutto il paese: “Ricchiù! Ricchiù!”. A ogni incrocio di ogni via, per cinquecento metri e più, a ogni singolo incrocio il gruppo lo aspettava e intonava un “Ricchiù! Ricchiù!” come se fosse una specie di Rosario: per ogni grano, si recitava un “Ricchiù!”. Sono ricordi accompagnati da sorrisi amari quelli che Peppino condivide con la foto sorridente e silenziosa della madre, una madre che non aveva mai chiesto niente, non aveva mai accennato alla questione, ma che sapeva, che probabilmente aveva intuito tutto del figlio. E il figlio sapeva che la madre era a conoscenza della sua situazione. Quella donna non aveva mai fatto una domanda al riguardo, ma lo aveva silenziosamente rispettato per tutto il corso della sua vita. E non è una questione di istruzione, è rispetto, dice Peppino, perché la madre lo aveva rispettato e per farlo le era bastata la terza elementare. Per questo Peppino la ringrazia, per quel rispetto intimo e profondo che gli aveva sempre riservato, quella madre che durante un Natale, quando davanti alla tavola imbandita il figlio se ne stava in silenzio e non toccava cibo, si chiedeva chi era quel “cornuto” che lo riduceva così.
Tante sono le persone e i momenti che hanno fatto parte della sua vita e che ora vivono nei suoi ricordi, molti di questi collegati tra loro da un sottile filo rosso: la perdita di un amore. La perdita della madre, che vive proprio davanti ai nostri occhi. La perdita di Angelo, il suo primo grande amore, “Angelo di nome e di fatto” come ricorda Peppino, il primo ragazzo che gli aveva fatto pensare che due uomini potessero veramente stare insieme. Ma la verità, gli diceva Angelo, è che due uomini che stanno insieme sono e saranno sempre due ricchioni. La perdita di Alfredo, incontrato in gioventù nella fantastica Riccione. Alfredo che aveva amato intensamente e che aveva perso in un modo così doloroso e insensato da non sembrare quasi possibile, ucciso da una specie di spedizione punitiva contro chi, come loro, viveva un amore proibito, diverso. Un piccolo spiraglio di luce illumina la sua triste storia quando riceve una telefonata da parte della sorella di Alfredo, che lo invita a far visita a lei a alla sua famiglia a Treviso. Peppino viene accolto con calore dai famigliari dell’uomo che ha amato e perso, ma quando, tornato in Calabria, spedisce loro una lettera raccontando la storia d’amore che avevano condiviso, vede sparire anche quella famiglia che sembrava aver capito e accettato.
Il Peppino di Saverio La Ruina è un uomo semplice, modesto, molto gradevole e pacato. I suoi ricordi, frutto di una vita costellata di piccole e grandi battaglie private e non, si trasformano in storie leggere, ricche di una nostalgia delicata, la nostalgia delle cose belle che non ci sono più, la nostalgia di ciò che poteva essere e che non è stato. Le sue parole sono cariche di un peso importante che però percepiamo come lieve e delicato, perché sono parole che non colpiscono duramente, ma che accarezzano chi ascolta. Sono parole gentili ed eleganti, caratterizzate da un’inflessione dialettale che ci trasporta in una terra così bella e piena di contraddizioni, una terra del sud alla quale Peppino è molto affezionato ma che descrive con grande amarezza. Amara è anche la consapevolezza di quest’uomo, una consapevolezza che sfiora la rassegnazione. Arrivato a questo punto della sua vita, dice di non trovarsi poi così male a stare da solo. Qualche vicino pensa che sia single, altri che sia vedovo, alcuni dichiarano addirittura di aver visto sua moglie. Peppino sorride quando racconta di queste persone che costruiscono attorno alla sua figura ogni sorta di situazione possibile, spinti dall’irrefrenabile impulso di collocarlo in una qualche categoria umana. Se va bene a loro, allora va bene anche lui.
Un racconto commovente, a tratti molto ironico, spensierato e colorato, a tratti silenzioso, sofferto, fatto di violenze subite e taciute e di una profonda solitudine. Una racconto che finisce nel modo più dolce possibile: Peppino, seduto accanto alla tomba della madre, scrive su un vecchio scontrino trovato in tasca: “Svegliatemi in un mondo più gentile”. E mentre gioca con la neve con un sorriso quasi infantile, noi lo vediamo scivolare nel buio che cala in sala, e ci auguriamo la stessa cosa per quest’uomo che ci ha raccontato una vita intera, ma anche per noi.
Eleonora Monticone
Masculu e fìammina
di e con Saverio La Ruina
musiche originali Gianfranco De Franco
collaborazione alla regia Cecilia Foti
scene Cristina Ipsaro e Riccardo De Leo
disegno luci Dario De Luca e Mario Giordano
audio e luci Mario Giordano
organizzazione Settimio Pisano
Spettacolo realizzato in collaborazione con la Fondazione Piemonte dal Vivo
Tangram Teatro, MaldiPalco 2017