Ieri sera, 1 giugno 2018, alla serata di apertura del Festival delle colline torinesi è andato in scena al Teatro Astra di Torino la trilogia sull’identità di Liv Ferracchiati/ The Baby Walk in collaborazione con Lovers Film Festival.
La trilogia è strutturata in tre capitoli, non legati da un filo narrativo ma uniti tra loro dal tema dell’identità di genere: “Peter Pan guarda sotto le gonne”, “Stabat Mater”, “Un eschimese in Amazzonia”.
The Baby Walk sono: Liv Ferracchiati (regista/autore, a volte, anche in scena), Greta Cappelletti (dramaturg/autrice, a volte, anche in scena), Laura Dondi (costumista/danzatrice), Linda Caridi (attrice), Chiara Leoncini (attrice), Alice Raffaelli (attrice/danzatrice), Lucia Menegazzo (scenografa), Giacomo Marettelli Priorelli (light designer/attore), Andrea Campanella (videomaker).
Capitolo 1 “Peter Pan guarda sotto le gonne” durata 70’
Sul palco c’è il nostro Peter Pan: una bambina bionda di 11 anni e mezzo (Alice Raffaeli) che si dimena con un vestito rosa che non vuole mettere, non se lo sente addosso ma la madre insiste. Pertanto Peter è costretto ad andare con il vestito al parco a giocare a pallone, la sua passione, e viene presa in giro da Wendy (Linda Caridi) una ragazzina mora di 13 anni di cui si innamora. Ed è grazie all’amicizia con Wendy e la chiacchierata con la fata Tinker Bell(Chiara Leoncini) la fata che esiste, che Peter piano piano acquisisce la consapevolezza della sua identità. E’ un bambino in un corpo di una bambina. Comincia a ribellarsi ,infatti, e non indosserà mai più il vestito rosa.”Peter non è esattamente una femmina ma precisamente un maschio”. Peter comincia, come se si guardasse allo specchio, una danza con sua ombra (Luciano Ariel Lanza) la guarda, la tocca. E’così che dovrebbe essere il suo corpo da grande, un ventenne con le braccia muscolose, le spalle grandi e i capelli corti. Ma Peter sa che non andrà in questo modo, ed è per questo che non vuole crescere; vuole restare così come è, non vuole che il suo corpo si modifichi, non vuole che i suoi fianchi si allarghino, che le crescano delle protuberanze morbide sul petto. I genitori, che non agiscono mai direttamente ma sono presenti solo come voci, esultano all’arrivo delle mestruazioni alla loro bambina che è finalmente diventata un signorina, mentre per Peter questo è solo il segno indelebile di un corpo che è sempre meno sotto il suo controllo. La madre è molto apprensiva ,quasi soffocante, vorrebbe evitare ciò che ha intuito ma che non vuole accettare; il padre si esprime solo attraverso definizioni da vocabolario e sembra non capire cosa sta succedendo alla sua bambina. Sostanzialmente Peter è solo con tutte le sue paure. Peter, incarna tutti quegli adolescenti transgender che si trovano totalmente soli a gestire il disagio di avere un corpo che non rispecchia la percezione di sé, un corpo che avrebbe dovuto essere diverso.“Tu non sei un bambino vero Peter e io non sono la tua Wendy” riecheggia la voce interiore.
Capitolo 2 “Stabat Mater” durata 85’
Viene raccontata la vicenda di un ragazzo di 27 anni, scrittore; vive al maschile ma ha le sembianze di una ragazza. La sua storia viene analizzata in seduta con una psicoanalista (Chiara Leoncini) ripercorrendo in flashback la storia d’amore con la sua compagna(Linda Caridi) da cui attualmente si sente sempre più distante. Un elemento centrale considerato in terapia è la sua incapacità a buttarsi: ha paura e si sente sempre in stato di inferiorità, il che è strettamente connesso a un legame edipico irrisolto con la madre. La madre, rappresentata come un volto in uno schermo, che non ha ancora metabolizzato l’identità di suo figlio, lo chiama insistentemente e il figlio risponde in qualunque momento non potendo avere in questo modo la propria intimità. Di fatto non sanno cosa dirsi, è un parlare di nulla. La mamma vuole controllare che il figlio abbia mangiato perché se ha mangiato allora vuol dire che va tutto bene, che sua figlia sta bene. La tematica del cibo attraversa tutta la trilogia, cibo come vita contrapposto alla morte. Per tutta la durata dello spettacolo si ha la sensazione di essere nella sua testa dove momenti di quotidianità si fondono a momenti di pura invenzione. Ciò è reso da una drammaturgia con un ritmo serrato in cui il linguaggio quotidiano si alterna ad un linguaggio con forti connotati emotivi; il linguaggio dell’inconscio.
Capitolo 3 “Un eschimese in Amazzonia” durata 65’
Quest’ultimo capitolo della trilogia dalla durata di 65 minuti tratta del difficile rapporto della persona transgender (l’eschimese) e la società (il coro). Al centro c’è l’eschimese con un cappuccio, come per proteggersi, e un microfono in mano, intorno a lui si muove il coro, lo segue, lo accerchia. Il coro,composto da 4 attori (Greta Cappelletti, Laura Donfi, Giacomo Marettelli Priorelli, Alice Raffaelli), parla quasi sempre all’unisono con una lingua ritmata, molto spesso con accompagnamento musicale che lo rende ipnotico e pervasivo, a tratti soffocante e che si riflette in una gestualità scandita, ripetitiva. Sottopone l’eschimese ad un fuoco di fila continuo di domande ma non è realmente interessato ad ascoltare le risposte. Infatti hanno già le risposte fatte di stereotipi e luoghi comuni. Il monologo dell’eschimese, che si rifà al format della stand up comedy, è improvvisato e coinvolge il pubblico utilizzando l’ironia e la comicità per affrontare l’attualità politica ed esperienze di vita quotidiana. Oliver Hutton, l’eroe dell’infanzia diventa il simbolo del ”non arrendersi ”; infatti nonostante fosse sempre ferito alla spalla era sempre in campo e vinceva. Alla fine i fari accecano il pubblico, effetto che contribuisce a mantenere lo stato di confusione e spaesamento in cui lo spettatore è coinvolto per tutta la durata dello spettacolo, poi cala il buio e l’eschimese calcia il pallone. Il pallone apre e chiude la trilogia, un pallone che rappresenta il diverso ma allo stesso tempo la libertà.
Come è emerso dalle interviste fatte al pubblico dal progetto “nuovi sguardi”, gli spettacoli sono piaciuti molto e la tematica della ricerca dell’identità e del conseguente disagio interiore è arrivato dritto al pubblico che si è sentito coinvolto ed emotivamente mosso.” Un turbamento emotivo”: così uno spettatore l’ha definito.
Carola Fasana