Da Middleton a Donnellan: la brigata dei vendic-attori, tra voyeurismo maniacale e gusto splatter

Io desidero intendere da voi,/ Alessandro fratel, compar mio Bagno,/ s’in corte è ricordanza più di noi;/ se più il signor me accusa; se compagno/ per me si lieva e dice la cagione/ per che, partendo gli altri, io qui rimagno;/ o, tutti dotti ne la adulazione/ (l’arte che più tra noi si studia e cole),/ l’aiutate a biasmarme oltra ragione. (Ludovico Ariosto, Satira I, vv. 1-9)


di Matteo Tamborrino

Thomas Middleton (1580 – 1627), litografia

Lunghe pagine critiche sono state vergate, nel corso del tempo, a proposito delle arcinote (e quanto mai fraintese) revenge plays di stampo senecano, costruite – almeno per ciò che riguarda l’ambiente rinascimentale inglese – sul modello della Spanish Tragedy di Thomas Kyd. La Tragedia del vendicatore, emblematico esempio di questo filone drammaturgico, come risulta chiaramente fin dal titolo (d’estrema eloquenza), è di vent’anni più tarda: Thomas Middleton la fece infatti rappresentare nel 1606, pubblicandola in volume l’anno successivo, per i tipi di George Eld.

L’autore, contemporaneo di Shakespeare e tradizionalmente inscritto – a fianco dei più anziani Lily, Greene, Peele e Marlowe – nel côté degli University Wits, fu uno dei maggiori rappresentanti dell’inquieto spirito giacomiano, in un’Inghilterra post-aurea che si avviava a rapide falcate verso la censura (e chiusura) teatrale. Middleton, irregolare nel temperamento e nella produzione (compose infatti poemi di soggetto biblico, satire immonde, liriche, masques e – naturalmente – drammi), era attivo sulle scene da ormai qualche tempo quando, nel 1606, preparato dall’esperienza con gli Admiral’s Men e dalle diatribe contro Jonson e Chapman, diede vita al suo primo vero “vendramma”. Nello stesso giro di anni peraltro – questa almeno è la versione di Franco Marenco – l’astro nascente della drammaturgia londinese avrebbe coadiuvato il Bardo, deciso a catturare i gusti del nuovo pubblico dei teatri privati, nella stesura del Timone d’Atene.

Il regista inglese Declan Donnellan, nato a Manchester e cresciuto a Ealing

Troppo spesso trascurato nelle “storie” del teatro, o al più citato en passant fra i rappresentanti della city comedy, Thomas Middleton torna prepotentemente alla ribalta grazie all’audace e materica regìa di Declan Donnellan.

Proviamo perciò a offrire uno sguardo, per quanto sintetico e gravemente parziale, sulla messinscena. La trama dell’opera – anticamente attribuita al soldato-poeta Cyril Tourneur e generosamente ricostruita sul sito del Piccolo Teatro di Milano – è assai involuta: vengono infatti stipati, in un unico pastone d’alta tensione drammatica, i più consueti congegni dell’ars teatrale cinque e seicentesca, dal travestismo all’inganno, dall’equivoco alla messa alla prova, dai beffardi “a parte” all’inesorabile débâcle finale. L’effetto che ne risulta non ha tuttavia nulla di stucchevole o di forzatamente mescidato: davvero encomiabile, dunque, il lavoro del maestro d’oltremanica, acclamato frequentatore dei classici, inglesi e non solo (tanto Shakespeare nella sua carriera, ma anche Thackeray, Cechov, Dickens, Corneille, Racine, Calderon, e un altro Middleton, quello di The Changeling, nel 2006).

Vindice e Ippolito; sullo sfondo “La Venere di Urbino” di Tiziano © Masiar Pasquali

Per la prima volta a capo di un progetto italofono, il regista offre al pubblico uno spettacolo così ricco di stimoli da non potersi esaurire nella sola etichetta di noir. “Intrighi, corruzione, lussuria, narcisismo e brama di potere in una corte del Seicento spaventosamente contemporanea”, recita il programma di sala. Gli attori, dal protagonista Vindice a quelli più marginali, sanno tutti, indistintamente, ipnotizzare la platea, catturandola con rara attitudine mesmerica. Spiacevolmente compressi in particine troppo esigue per loro, i bravi attori Marco Brinzi e Beatrice Vecchione.  Degno di nota anche il giovane Alessandro Bandini/Junior, che si dimena sul palco come un’anguilla dall’inizio alla (sua prematura) fine. Ma sul cast torneremo. L’opera, nel complesso, è un bestiario altamente simbolico (pensiamo già soltanto ai nomi parlanti scelti dall’autore per i suoi personaggi) – una monitory image, direbbero Gilbert e Gubar – che segnala continuamente allo spettatore l’attualità stringente di ciò che si sta osservando. Che il Duca stupratore e assassino (a cui regala il proprio macchiettistico sembiante Massimiliano Speziani) non differisca troppo dal politico-magnaccia di turno è dato evidente. E a cementare questi legami tra ieri e oggi, tra corte italiana e Montecitorio, anche le scelte scenografiche curate da Nick Ormerod: nel dittico dei duchi di Montefeltro, nel bel faccione di Ariosto, nella Venere di Urbino proiettati alle spalle degli attori e visibili ogniqualvolta si “squarci” la parete che separa il proscenio dal retropalco, rivivono infatti – con estetismo un po’ naïf – le effigi di un passato che non ha mai davvero smesso di essere tale.

Il cast sulle note di “Ahi ahi ahi” © Masiar Pasquali

La scritta V-E-N-D-E-T-T-A, che campeggia per qualche istante, a caratteri cubitali, sulla tela verticale di assi color amaranto, più che produrre l’effetto straniante dei cartelli brechtiani, sembra strizzare l’occhio al bombardamento di slogan tipico della televisione. Si può infatti rilevare all’interno dell’allestimento una pregevole contaminazione del mezzo teatrale con i linguaggi della serialità (qualcosa di simile già nel Sindaco gomorresco di Martone) e con i flash cromatici e luministici del Reality di Matteo Garrone. L’eleganza dei costumi è ottenuta mediante l’adozione di cinquanta sfumature di giacche e cravatte nere, alle quali fa da contraltare l’abito verde opaco e il capello rosso della Duchessa & Gratiana (doubling perfetto di Pia Lanciotti, che seduce il pubblico ora – nella sequenza in cui viene adulata dal figlio Vindice, disguised as Piato – ostentando una vocetta che cede simpaticamente il passo al birignao, ora invece – nei momenti più gravi – sprofondando nel  registro drammatico secondo i dettami dell’Accademia). Parimente interessante la giocosa metamorfosi di Castiza (messa in atto per indurre la madre a ravvedersi), personaggio interpretato da Marta Malvestiti, giovane attrice che, se inizialmente risulta piuttosto monocorde nel tipo fisso della buona verginella, si riscatta poi evolvendo in un carattere e in una posa più decisi e sinceri.

Supervacuo, il Duca e Ambizioso © Masiar Pasquali

Nel mondo del Vendicatore non c’è scampo per nessuno: la danza macabra intonata da Raffaella Misiti (sulle note di “Ahi ahi ahi”) spinge ciascuno verso l’annientamento. In questa solfatara che emana sbuffi pestilenziali di Padrino e Little Italy, le madri sono ben pronte a vendere la castità delle proprie figlie e così i fratelli non esitano a uccidersi l’un con l’altro. Un tourbillon di iniquità all’interno del quale riescono a ritagliarsi un proprio spazio d’azione l’erede al trono Lussurioso, alias Ivan Alovisio (una delle figure meglio riuscite di tutta la composizione: un nevrotico coronato) e i parenti serpenti Ambizioso e Supervacuo, i suoi fratellastri di palco David Meden e Christian Di Filippo, così cinici e immorali da indurre simpatia. Qualche goccia di amore in più scorre nelle vene dei fratelli Ippolito e Vindice, che si danno manforte nell’edipico round contro la madre. Raffaele Esposito – che si presta, all’occorrenza, ai siparietti grotteschi allestiti dal fratello, come l’inganno dello sposa-scheletro – è l’ombra razionale del comprimario, la spalla senza la quale Cabra non potrebbe esistere: non c’è un attore senza l’altro.

Fausto Cabra è il protagonista Vindice (qui sotto le mentite spoglie di Piato) © Masiar Pasquali

E se tutto questo contagio, tutto questo marciume etico, non fosse altro che una deformazione prodotta dalla mente del vendicatore? È lecito supporlo. Il Vindice di Fausto Cabra è infatti un ragazzotto sfrontato, paranoico, auto-referenziato, maniacale e morboso e noi spettatori seguiamo gran parte degli eventi attraverso il suo sguardo. Il peccato originale consisteva nella morte della promessa sposa Gloriana, violentata e avvelenata dal Duca poco prima delle nozze. L’antefatto traumatico potrebbe aver indotto in lui un processo di deterioramento, spingendolo su un sentiero a senso unico di perdita di sé. Senza voler tentare una psicanalisi da quattro soldi (di un essere peraltro che non è neppure reale, ma pura invenzione drammatica), fermiamoci al piano del visibile e dell’udibile: le sue risatine allucinate, l’atteggiamento scattoso del corpo e del volto, la foia che il personaggio sembra trasudare, sono positive symptoms di una condizione, se non schizofrenica, quanto meno paranoide. In questo consisterebbe la grande (post)modernità di Middleton/Donnellan, e non tanto – o comunque non solo – nelle ardite scelte tematiche, che spaziano dalla necrofilia alla denuncia  sociale del potere e dei costumi “cortigiani” (questioni, queste, che comunque torneranno nei lavori successivi dell’autore seicentesco: La ragazza ruggente, Il bambino scambiato, Donne, attente alle donne).

La Duchessa; sullo sfondo il “Doppio ritratto dei duchi di Urbino” di Piero della Francesca © Masiar Pasquali

Quanto a Vindice, egli ammorba e inquina la realtà con le sue delusions, le sue convinzioni magari non del tutto fasulle, ma di certo esasperate. Ogni evento è interpretato a priori come vòlto contro di sé. Se Amleto non aveva che domande, Vindice dispone soltanto di risposte. Risposte sempre e comunque negative. Nel suo tentativo di farsi purificatore, egli innesca piuttosto una spirale cospirativa, che peggiora ulteriormente lo stato delle cose, portando ad una sequela di morti (più o meno meritate). I personaggi cadono, come le pedine del domino. La realtà, nel dramma, non può mai essere colta nella sua essenza, perché i filtri che si interpongono fra il nostro sguardo ed essa sono plurimi e quasi insormontabili: i mascheramenti, le bugie, i raggiri. Simbolo tangibile di questa pratica di sovrapposizione, che impedisce di pervenire ad una qualche verità, è l’uso insistito della videocamera in scena, strumento voyeuristico per eccellenza che moltiplica e disperde i punti di vista, sospendendo qualsiasi visione univoca sul reale. Arriviamo perfino a scagionare la Duchessa, che se la spassa a targhe alterne con il giovane bastardo. Tutto sembra già scritto nella mente del personaggio: i segni che egli coglie nel cosmo e nel comportamento umano si accordano al proprio malizioso disegno preconcetto. D’altronde, anche i reality-show meglio riusciti – che, si sa, di reale hanno ben poco – si affidano sempre ad un buon copione.

Ad una sola realtà, nuda e cruda, ci è permesso avvicinarci: quella rivoltante e macabra dell’assassinio del Duca (anch’essa puntualmente filmata), il cui cadavere continuerà poi a sostare in scena anche in seguito. Un valzer con la morte, dunque, che ha l’inquietante sentore delle tele gioiosamente sataniche di Bosch. Una punizione meritata, quella inflitta al malfattore, che si trasfigura in pratica pubblica di macellazione. La scena è forte, a tratti perfino splatter: riesce ancora a ripugnare il pubblico, ma ne desta altresì l’atavica attrazione per il sangue.

La prova d’attore di Cabra meriterebbe l’Ubu.

Si esce da teatro un po’ più pronti all’apocalisse, a quel momento di autocombustione in cui il nostro mondo – fatto di molte falsità (o post-verità che dir si voglia) e privo di salvifici Fortebracci – scivolerà nel baratro per riplasmarsi a vita nuova.


LA TRAGEDIA DEL VENDICATORE
di Thomas Middleton
drammaturgia e regia Declan Donnellan
versione italiana Stefano Massini
scene e costumi Nick Ormerod
luci Judith Greenwood, Claudio De Pace
musiche originali Gianluca Misiti
con Ivan Alovisio, Alessandro Bandini, Marco Brinzi, Fausto Cabra, Martin Ilunga Chishimba, Christian Di Filippo, Raffaele Esposito, Ruggero Franceschini, Pia Lanciotti, Errico Liguori, Marta Malvestiti, David Meden, Massimiliano Speziani, Beatrice Vecchione
regista assistente Francesco Bianchi
collaboratore movimenti di scena Alessio Romano
coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa | ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione

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