Può la parola farsi vita? Con certezza rispondo negativamente a questa domanda: nell’eterna lotta con la vita la parola scritta perde. La sua salvezza è tornare alla fonte, alla vita, alla carne. È questo che cerco che e che trovo nel teatro che più mi segna.
Accompagnato da queste riflessioni vado un pomeriggio, nello studio del mio docente di Storia del teatro con l’intenzione di farmi indicare le strade più interessanti da seguire in questa forma d’arte così antica, eppure per me ventenne pressoché inesplorata.
Quando il professore segnala alla mia attenzione la compagnia del Teatro delle Albe non sapevo che di lì a un mese, avrei preso parte a un piccolo ma intensissimo pezzo di strada di un viaggio che dura da quasi quarant’anni.
È infatti il 1983 l’anno di nascita del Teatro delle Albe. Una storia che ha inizio da un incontro e da un amore, quello di Marco Martinelli e Ermanna Montanari che decidono (follemente o forse come Marco e Ermanna preferirebbero asininamente) a vent’anni di vivere assieme e vivere di teatro, che proprio nell’incontro si dà nella sua essenza: attore e spettatore s’incontrano.
L’asino è il simbolo della compagnia, simbolo di genuinità, di perseveranza e d’incoscienza, quella necessaria, quando a vent’anni decidi da semplice amatore e amante di fare teatro.
A distanza di trentasei la natura asinina è ancora viva e traspare in Marco che parla agli studenti del DAMS di Torino. Abbiamo capito che fare teatro voleva dire errare, inteso nel duplice senso di “sbagliare” e “camminare”, dice mentre Ermanna preferisce stare a osservarci in silenzio per conoscerci, più delle parole sono eloquenti i suoi occhi che a un primo sguardo si direbbero orientali; ha un vestito con delle geometrie blu e gialle che s’incontrano, ma non combaciano e ai piedi gli stivali a forma di zampe caprine come un fauno.
Ermanna Montanari parlerà a lungo e di questioni profonde, spirituali; ha solo bisogno di tempo. Le sue parole riempiono il silenzio lasciato da Marco che deve dirigersi al Sermig, dove dall’11 Marzo conduce la Non-scuola, iniziativa portata avanti con grandissimo successo in Italia e nel mondo dal teatro delle Albe.
L’incontro del 13 Marzo a Palazzo Nuovo è infatti solo uno dei numerosi appuntamenti che hanno visto coinvolta la compagnia emiliana. La settimana torinese del Teatro delle Albe, che ha avuto inizio l’11 Marzo e si concluderà domenica 17, è stata promossa dal TPE in occasione dello spettacolo Va pensiero in scena al teatro Astra da giovedì a domenica.
È infatti Graziella Martinotti (un fiume in piena) del TPE ad accogliermi lunedì pomeriggio al Sermig per il primo dei cinque incontri della Non-scuola. Ma cos’è di preciso la Non-scuola? Prendete la scuola, togliete i banchi e gli insegnanti, mettete dentro degli adolescenti, meglio se delle periferie, quelli che ancora hanno dentro la vita non addomesticata. Aggiungete i classici della letteratura, (nel nostro caso Majakovskij, ma l’esperimento è riuscito anche con Aristofane) testo vivo, non quello in decomposizione nella penna degli accademici: il risultano è esplosivo. Per due pomeriggi ho visto accadere il miracolo della parola che ritorna al corpo, alla Lingua Madre, come dice Ermanna, quando è uscita dal silenzio. Il corpo strumento che suona, con voce e gesto e risuona nel cerchio-coro: il teatro allo stadio primordiale.
A fare da corifeo prima è Marco. Si parte da un’ottava di Matteo Maria Boiardo che lui intona e il coro ripete, poi l’ottava viene smembrata, cambia il ritmo, il tono, il volume, s’innestano nuove parole di dialetti e lingue diverse.
A turno ognuno fa da corifeo: a risuonare nel coro e nel corpo è il proprio nome perché nella Non-scuola letteratura ed esistenze personali sono intessute strettamente. Questo breve racconto non può restituire la forza di quello che accade in questi giorni tra le mura del Sermig, ma per fortuna domenica 17 le porte della Non – scuola sono aperte e i versi di Majakovskij e di Boiardo suoneranno per tutti.
È con grandissima trepidazione quindi che attendo la sera di giovedì per vedere la compagnia Teatro delle Albe sul palco.
Va pensiero, in perfetta linea con la poetica della compagnia che fin dall’inizio coniuga impegno etico con cura estetica, è un romanzo teatrale.
La storia, ispirata a vicende realmente accadute a Bresciello, comune emiliano, è quella di Vincenzo Benedetti (nella realtà Donato Ungaro) interpretato da Alessandro Argnani, vigile Urbano con la passione del giornalismo, che si ritrova licenziato per aver scritto di affari sporchi che avvenivano nell’Emilia durante primi anni 2000. Lo spettacolo sfata così in modo spietato il mito di un’Emilia rossa e trasparente.
La drammaturgia è ben oleata e trova nel luogo comune e nel linguaggio semplice il modo per raccontare meglio le zone d’ombra. Così in quasi tre ore siamo trascinati da una narrazione che non cala mai di intensità e che anzi si ricarica in un contrappunto di azione e narrazione.
Il personaggio di punta è la Zarina, il sindaco, interpretata da una grandissima Ermanna Montanari, che entra in scena al buio, con poca luce, scossa dai conati di vomito. Raccontare e impersonare il male è veramente difficile: Montanari ci riesce alla perfezione, regalandoci un personaggio pieno di ombre e contraddizioni. figlia di un padre stalinista integerrimo, la zarina, cinica acida, autoritaria, da un lato vorrebbe rappresentare l’eredità comunista, dall’altro non esita a prestare il fianco al malaffare. Per tutto lo spettacolo sentiamo la sua natura velenosa attraverso una voce ora acuta, ora profonda.
A lei è affidato a metà spettacolo uno dei momenti più emozionanti di Va pensiero: un monologo, in cui c’interroga, a noi pubblico, sulla tentazione di fare il male. A seguire ogni passo della Zarina, c’è Licia (Laura Radaelli) la segretaria, sempre pronta a sopportare i capricci della Zarina, pur di godere di una semplice serenità.
Poi abbiamo il vigile urbano Benedetti (Alessandro Argnani), dalla voce limpida, un Candido volteriano, che non ha paura della verità e nel raccontarla la sua voce suona chiara e tenera, come dovrebbe essere il bene. Benedetti si è trasferito da Milano a Bresciello per crescere il figlio in un paese dal clima più pulito ma si ritrova a respirare un’aria inquinata dalla ‘ndrangheta e a perdere il lavoro perché la parola ha un caro prezzo.
Tra la galleria di personaggi abbiamo i gelatai (Salvatore Caruso e Tonia Garante) fuggiti da Napoli per non pagare il pizzo che invece si ritrovano a dover pagare in Emilia; Olmo Tassoni (Gianni Parmiani) contadino, amico di infanzia della Zarina, convinto che il solo male che attanaglia la città siano le nutrie «questa terra ha una lunga tradizione di accoglienza, non scherziamo», dice; frase rivelatrice a un orecchio attento: infatti non si fa fatica a leggere le nutrie come una metafora dei migranti; nella sua lotta alle nutrie è accompagnato da Omero (Fagio), il cacciatore di nutrie.
Abbiamo poi un ventaglio di personaggi corrotti: Antonio Dragone, imprenditore ‘ndraghetista (Ernesto Orrigo), Stefania Sacchi, consulente finanziaria (Mirella Mastronardi), Sandro Baravelli imprenditore quasi onesto (Alessandro Renda), Edgardo Siroli, ufficio stampa del comune (Roberto Magnani) e non ultimo il Dottore (Luca Pagliano) che cerca di dissuadere Benedetti dal denunciare, perché a denunciare ci si rimette la pelle. Il lato visivo dello spettacolo come in tutti i lavori del Teatro delle Albe, è stato curato da Ermanna Montanari. La scenografia è essenziale, stilizzata a tratti metafisica, lo spettacolo procede a quadri e ogni luogo è indicato da una scritta chiara e semplice
Quando la narrazione è ferma, i personaggi diventano narratori e si rivolgono al pubblico, il ritmo della storia è scandito da due cori che si rispecchiano: uno quello degli attori, dai toni più scuri che dice il male, l’altro onnipresente dietro una tenda trasparente, il coro che intona arie verdiane (diretto da Stefano Nanni), a dirci che una rinascita è sempre possibile. È uno spettacolo amaro, duro, in cui non vengono risparmiati i riferimenti alla mafia, ma che ci assicura che la verità alla fine riesce sempre a brillare… all’invito finale del coro a unirci al canto di Va pensiero non posso trattenere le lacrime. Durante gli applausi Marco Martinelli accompagna in scena il vero Donato Ungaro, che dopo un processo vinto ha avuto un indennizzo degli stipendi persi e il comune di Brescello sciolto per Mafia.
Me ne torno a casa pensando che bisognerebbe seguire il sentiero del teatro delle Albe nel fare arte: andare in profondità avendo uno sguardo sempre sul mondo, perché talvolta la Bellezza torna a combaciare con la Giustizia, e pensando che ancora questo viaggio non è finito mi addormento nell’attesa di sentire i versi di Majakovskij. Mi addormento felice.
Giuseppe Rabita