La storia del popolo ebraico è una storia in viaggio, una diaspora che dalle origini continua fino ai giorni nostri. Migrazione e dannazione, conducono il popolo ebraico in tutto il mondo; la dispersione come loro condanna, esilio trasformato in forza, che si trasforma in un agglomerato ammassato di cadaveri nei ghetti, nei treni, nei lager nazisti. Morte, e di nuovo dispersione. Cenere. Una storia intrisa di religione, l’attesa di un Salvatore, di un Messia, ma anche il dubbio dell’esistenza di Dio, durante il supplizio delle violenze ai loro danni, il dubbio dell’essere il popolo eletto.
Salomone Ovadia (detto Moni) torna a Torino il 14 gennaio 2020 al teatro Fonderie Limone, dopo venticinque anni dal suo spettacolo di successo Oylem Goylem, sempre nelle vesti del suo alter ego, Simkha Rabinovich, con la inseparabile carovana errante di musicanti klezmer. Moni Ovadia è originario dell’Europa dell’est, in Bulgaria, da una famiglia di ascendenza ebraica sefardita, ma impiantata in ambiente di cultura Yiddish e mitteleuropea. Ciò influenzerà molto il suo lavoro e le sue opere, volte a rielaborare la cultura degli Ebrei dell’Europa dell’Est.
Con il suo nuovo spettacolo, Dio ride “Nish Koshe”, che in yiddish significa “così così”, cioè la condizione umana secondo Moni Ovadia, ritorna per continuare la narrazione del quel popolo esiliato, sospeso tra cielo e terra, per indagarne la vertiginosa spiritualità. Moni Ovadia/ Simkha è tornato perché c’è gente che costruisce muri, orribili, muri che si trasformano in prigioni a cielo aperto come succede a Gaza. È contrario alla politica nazionalista della sua terra e per questo non ci può e non ci vuole tornare e solo in questi giorni è potuto tornare a Torino, a causa di una politica nostrana a lui avversa. “A chi sentiva il desiderio di ascoltare, Simkha raccontava storie di una gente esiliata, ne cantava le canzoni, canti tristi e allegri, luttuosi e nostalgici, di quel popolo che illuminò e diede gloria alla diaspora”. Questo cantastorie, forse uno degli ultimi cantastorie, fa la sua entrata al buio accompagnato dai suoi musicanti che suonano, tutti in fila indiana con in testa un lumino. Sopraggiunto il silenzio, si sistemano alla loro postazione intorno alla sedia dove Simkha è pronto a raccontarci nuove avventure in cui si è imbattuto nel suo vagabondare. Tra riflessioni serie su Dio e l’ebraicità, sul senso del sabato come giorno di riposo, e letture di libri di filosofi come Levinas e poeti del ghetto di Varsavia, passando per barzellette e storielle, emerge tutto l’umorismo ebraico, yiddish. Tutti i suoi racconti però non perdono la musicalità del suo popolo, perché tra una battuta e l’altra risuonano potenti i canti e la musica klezmer.
La riflessione sul sabato, giorno sacro e di riposa per gli ebrei, pone l’accento sul bisogno di fermarsi dalla routine quotidiana e dedicarsi solo alla famiglia, a stare insieme, a giocare insieme, stare a tavola, fare domande ai genitori, anche fare sesso con la propria moglie (Samkha si può fare solo sesso prolungato, la sveltina non è per il sabato). Il sabato non è proibizione, ma ritrovare la voglia di stare insieme, ritornare e tendere alla condizione più pura per l’essere umano. Dovremmo trarre un esempio da ciò, in un periodo in cui questi legami e affetti vengono meno, si corre per fare tutto e si pensa all’interesse privato, fagocitati dalla routine settimanale, in società sempre più liquida.
Il dio di Samkha e un Dio che ride, spesso, fa battute, truffaldino, ma che sa riconoscere il suo superamento da parte degli uomini e la lealtà del patto stipulato con loro. L’ebraismo pone sullo stesso piano Dio e l’uomo sulla terra, che hanno stretto un patto e quindi hanno stesso la stessa importanza. Nelle sue riflessione e storie, Samkha si interroga e pone l’accento su dove sia Dio, spesso assente per un popolo che ha subito le peggiori violenze, un Dio che guarda. Questa ricerca di Dio, è parte integrande dell’identità di un popolo che è alla ricerca di una giusta dimora.
Lo spettacolo di Moni Ovadia ti strappa la risata, anche abbondante, ma poi ti guida verso una riflessione più consapevole e si è ammaliati dal suo canto dalla cultura di un popolo spesso raccontato male. Uno spettacolo necessario oltre che per avvicinarci a quel popolo, anche per ricordarci che dobbiamo ridere e cantare, che abbiamo bisogno di un cantastorie che ci narra qualcosa, vero o falso che sia, l’importante è lo stare insieme. Allora seguiamo anche noi quei musicanti nel loro errare senza metà, con la consapevolezza che ci saranno storie da raccontare e che se Dio ride, lo possiamo fare anche noi.
Emanuele Biganzoli
Di e con Moni Ovadia
con le musiche dal vivo della Moni Ovadia Stage Orchestra: Maurizio Dehò, Luca Garlaschelli, Albert Florian Mihai, Paolo Rocca, Marian Serban
Regia Moni Ovadia
Luci Cesare Agoni, Sergio Martinelli
Scene, costumi ed elaborazione immagini Elisa Savi
Progetto audio Mauro Pagiaro
CTB – Centro Teatrale Bresciano / Corvino Produzioni