Maqam è una parola araba che ha molteplici significati. Tutti rimandano ad uno stato di transitorietà, ad un momento di passaggio, flusso che permane costantemente sul confine del possibile accadimento. Michele Di Stefano gioca su questo stato di tensione per portare lo spettatore in un luogo che sembra essere fuori dal tempo, un altrove in cui si viene lentamente calati attraverso una suggestiva partitura musicale, composta dai suoni elettronici orchestrati dal vivo da Lorenzo Bianchi Hoesch, e dal canto di Amir ElSaffar. Il movimento ipnotico dei danzatori e i giochi di luce e ombre fanno il resto.
Il penultimo appuntamento della stagione 2021 del TorinoDanza Festival vede in scena il gruppo mk guidato da Di Stefano, Leone d’argento per l’innovazione nella danza alla Biennale di Venezia nel 2014, in dialogo con il trombettista statunitense di origini irachene Amir ElSaffar, musicista innovativo che porta nel jazz elementi della cultura musicale maqam, oltre alle partiture elettroniche di Bianchi Hoesch, stretto collaboratore del gruppo ormai da anni.
Maqam, ovvero “luogo, posizione, stazione, scala e soprattutto il sistema di organizzazione melodica della musica araba tradizionale”, secondo le parole del coreografo. Sicuramente un aspetto interessante di questa tecnica di improvvisazione è che un maqam non ha uno schema di battute stabilito e periodicamente ricorrente, né un metro immutabile. Dunque è la componente ritmico-temporale quella improvvisata, che ElSaffar costruisce in relazione con l’ambiente sonoro e con i movimenti dei danzatori in scena, e le variazioni di toni e livelli sembrano essere sostenuti anche dal disegno luci di Giulia Broggi e Cosimo Maggini.
Il buio ad inizio spettacolo è già spazio denso. Il fumo – forse nebbia, forse sabbia – costituisce il primo elemento che porta lo spettatore in una terra indefinita, che a tratti ci pare di riconoscere, ma che subito sembra sfuggire nuovamente nel flusso della materia in movimento. Il colore rosso proiettato intensamente sul fondale illumina il corpo scuro del danzatore che apre la prima scena, e che portando le mani vicino al volto sembra lanciare un lento e grido muto. La musica dà l’avvio al viaggio in questa nebulosa oscura che inghiotte e sputa corpi. Il ritmo del maqam tesse abilmente una tela invisibile nella quale i danzatori vengono catturati e poi liberati. La forza di gravità sembra venir meno quando il corpo è attraversato da un flusso puro, un movimento perpetuo che, a tratti, pare persino scivolare sul pavimento, anziché spostarsi attraverso l’ausilio dei piedi. In questo perenne stato di caducità appaiono tanto i singoli, di cui spesso si percepisce solo una parte di corpo, che il gruppo, in un crescendo nel quale si coglie un intreccio di corpi che si toccano, o meglio si tengono, nel senso di afferrare: prendono le misure uno dell’altro, proiettano nello spazio la parte di corpo appena toccata, la estendono, le danno densità. Corpi e suoni si mantengono in una posizione di sospensione, che è anche resistenza. Incorporare e dare luce a quelle forme non conosciute, a quei frammenti di carne, per tentare di rimettere insieme se stessi, per trovare la traccia di sé.
In questi settanta minuti lo spettatore ha la possibilità di vivere, quasi, un’esperienza mistica. Alcuni elementi possono essere, per qualcuno, rimandi a luoghi ancor oggi dilaniati dai conflitti militari, alla polvere che si alza dopo lo scoppio di una bomba, a corpi non integri, a pale di aerei che si alzano in volo. Ma il ritmo e il canto maqam si insinua più in profondità, o meglio, si eleva più in alto, e chi osserva si sente partecipe di questa trans-izione. Lo spettatore viene rapito da un mantra di corpi e suoni, che al termine lascia in uno stato di stabilità, di centratura, e i danzatori in scena trovano una strategia – insieme – per essere, per rialzarsi.
Forse l’intenzione di Di Stefano non è tanto quella di raccontare o di informare su qualcosa, quanto quella di esplorare a più voci uno spazio fisico e sonoro fatto di una – sempre – nuova relazione, e allo spettatore resta un tempo per accogliere ed addentrarsi in questo continuo fluire della verità, che la danza stessa è. Quella danza che, in questo caso con l’aiuto del canto, “scioglie il crampo della vita”.
Valentina Bosio
Ideazione: Michele Di Stefano e Lorenzo Bianchi Hoesch
Danzatori: Biagio Caravano, Francesco Saverio Cavaliere, Andrea Dionisi, Sebastiano Geronimo, Luciano Ariel Lanza, Laura Scarpini, Francesca Linnea Ugolini
Composizione e musica elettronica: Lorenzo Bianchi Hoesch
Canto, tromba e santur: Amir ElSaffar
Coreografia: Michele Di Stefano
Disegno luci: Giulia Broggi e Cosimo Maggini
Produzione: mk/KLm 21-22
Coprodotto nell’ambito della rete RING da: Festival Aperto – Fondazione I Teatri Reggio Emilia, Bolzano Danza – Fondazione Haydn, FOG Triennale Milano Performing Arts, Torinodanza Festival / Teatro Stabile di Torino, Teatro Nazionale, Triennale di Milano
Partner associato: Lavanderia a Vapore / Fondazione Piemonte dal Vivo
In collaborazione con: Teatro di Roma – Teatro Nazionale
Con il sostegno del: MIC – Ministero della Cultura