Un’intervista
Kerstin Avemo canta dei lieder schubertiani accompagnata dal pianista Alain Franco. “È solo un concerto? È solo un concerto…”, si domandano e rispondono gli spettatori. Ma ecco comparire un lago fiocamente increspato nella notte buia – il cigno cammina sul lieve ondeggiare, invoca la luna; poi, un lampo di vergogna! – e sprofonda nell’abisso.
Romeo Castellucci, Leone d’oro alla Biennale Teatro 2013 presenta, nelle serate del 30 e 31 ottobre presso il Festival delle Colline Torinesi 2021, Schwanengesang D 744. Colgo l’occasione per strappargli un’intervista, ma presto verifico che la mole di materiali online inibisce ogni mia domanda. Decido quindi di battere una strada alternativa.
Una costante, nelle operazioni teatrali di Romeo Castellucci, è l’interpretazione letterale. Pensiamo a quel «Je m’appelle Romeo Castellucci» subito aggredito da un branco di cani nell’Inferno della Divina Commedia (2008); oppure alla foresta che inghiotte i cantanti del Parsifal (2011); ma anche, quando ancora il suo nome si dissolveva in quello della Società Raffaello Sanzio, ne Le Favole di Esopo (1992), la cui messinscena prevedeva di portare duecento animali nel cuore di Cesena. Decido quindi di appoggiarmi alla lettera. Al nostro incontro porterò tre testi, testi che in qualche modo hanno a che fare con la sua vicenda artistica: Scritti di Roberto Bazlen; La violenza e il Sacro di René Girard; Un weekend postmoderno di Pier Vittorio Tondelli. Gli mostro i tre libri, sfoglio il quaderno di appunti e l’opuscolo del FCT, lui ride, credo dica qualcosa come “hai un po’ troppe cose…”
Inizia la registrazione.
Parliamo dello spettacolo di questa sera, Schwanengesang…
R. C. Sì, ecco… “Il canto del cigno” sappiamo tutti cosa vuol dire. La cosa straordinaria di questo autore – Schubert – è il suo attaccamento all’assenza, al principio di movimento della scomparsa, della mancanza. Questa per me è una cosa essenziale parlando del teatro: come uscire di scena, come non farsi vedere senza muovere un muscolo. E Schubert riesce a farlo con immensa commozione, che è un altro degli scopi del teatro. Trovo in questo autore una sintesi drammaturgica, direi quasi perfetta. Non c’è un autore così essenziale. C’è una persona che canta, un pianista, eppure riesce a toccarti dietro la pelle: rispecchia ciò che sei… questo è straordinario.
Lo scrive anche nel foglio di sala: “come fa [questa donna] a conoscere la mia intimità più a fondo di me stesso?”
R. C. Sì, sì, è uno specchio.
La sera di sabato assisto a Schwanengesang D 744 e leggo nei sopratitoli la traduzione: Solo chi conosce la nostalgia / sa quello ch’io soffro. Ricordo di averlo già letto da qualche parte… A casa ritrovo la citazione sfogliando gli scritti di Roberto Bazlen. Bazlen fu una figura determinante per la letteratura italiana del Novecento, diede notorietà a Svevo, portò in Italia Musil, Proust e Freud – eppure rimase come in ombra. L’impressione è che riuscì a dissolvere se stesso, a scomparire dentro la letteratura che amava – penso che Bazlen avrebbe potuto intendere questo canto del cigno. Il giorno seguente mostro la citazione a Castellucci.
R. C. (legge) X. parla della sua nostalgia. Io mi sento male. Solo chi conosce che cosa è la nostalgia sa che cosa io soffro – Ah, perfetto, questa è una citazione diretta! E’ assolutamente perfetto. Poi la nostalgia che cos’è? È la vita che non abbiamo mai vissuto. Abbiamo la nostalgia di qualcosa che non abbiamo mai esperito, non è la nostalgia di qualcosa che abbiamo fatto – la nostalgia di qualcosa che non faremo mai. Questo è molto bello.
Inoltre lei scrive che in qualche modo questa cantate tocca la sua “origine”. Per René Girard l’origine, in senso culturale, ha a che fare con l’assassinio. L’assassinio che come cesura prima dà inizio alla cultura umana. Il tema della violenza, e la transizione storica dalla pratica sacrificale al teatro è la zona di confine in cui spesso si pone il suo lavoro. Penso anche al modo in cui gli attori, nella loro fattualità, nel loro essere prima di tutto corpi, incarnano questo rapporto tra sacrificio, violenza e teatro, se vuole parlarci di questo…
R. C. Il rapporto con gli attori è innanzitutto asimmetrico, non è pedagogico. Ogni volta assume forme differenti. Io mi pongo sempre ai piedi della vita monumentale degli attori. Mi lascio guidare – certo, sulla base di certe idee. Per quanto riguarda la violenza e René Girard, l’attore è per definizione il capro macellato, e l’abbiamo visto anche ieri sera1, cioè, il fatto di esprimersi, parlare, farsi vedere… Questa è un’idea eucaristica che apparteneva anche ad Antonin Artaud – non nel senso ecclesiastico, bensì esistenziale: il fatto di doversi dare, doversi fare consumare. Lo sguardo dello spettatore è uno sguardo che consuma, che tocca. Poi certamente è toccato a sua volta ma questo accade solo se c’è la memoria del sacrificio, ma non è un sacrificio vero – il teatro nasce quando l’istituto del sacrificio entra in crisi, ma proprio per questo c’è la memoria di questo sacrificio.
La violenza inerisce quindi anche allo sguardo dello spettatore. Ricordo una frase che lei diceva, come “Guardare è colpevole…”, no, non è…
R. C. “Guardare non è più un atto innocente”, è la via negativa.
Ecco, il che mi sembra un restituire le critiche occasionalmente rivoltele riguardo alla violenza scenica, magari fine a se stessa…
R. C. La violenza in teatro è fine a se stessa, fa violenza a se stessa: il teatro è un laboratorio di violenza. I greci l’hanno inventato. Il teatro è violento perché scaccia la vera violenza. E’ per questo motivo che non ha nessun senso il sangue vero sulla scena o un gesto veramente violento – non ha senso. Il teatro così diventa un’altra cosa, un pessimo esempio di body art, ma non è teatro. Il teatro tratta il sangue finto. Proprio perché la violenza vera non è possibile – cionondimeno: in teatro tutto è violento, siamo scossi, se non c’è questo tipo di violenza non si dà teatro – una violenza trattata, ricostruita, non vera. Questo è essenziale. La violenza che si fa non è quella sui corpi in scena ma quella sempre riferita allo spettatore. Si dovrebbe dire: viene restituita un dose di violenza; rispetto al guardare, che è per sua natura violento. Noi andiamo a teatro per vedere, scegliamo di vedere. Nella povera vita quotidiana non è una scelta guardare: guardare ti rende complice spesso, proprio perché non è una scelta. Vedere un massacro o vedere una pubblicità, non c’è grande differenza – dunque ti rendi complice sia del massacro che della pubblicità – perché non scegli. Mentre il teatro è uno sguardo attivo, che getta: è una scelta. Tutto questo lo si attiva, diciamo così, attraverso la violenza. La violenza non è certo il sangue, nemmeno il sangue finto, la violenza è come diceva Artaud, “forsennare il supporto”, scuotere la casa, scuotere la struttura dello sguardo – come se nello sguardo ci fosse un terremoto –, allora ti rendi conto della violenza del guardare. Giacometti, un’artista come lui, si stupiva dello sguardo – non della cosa da vedere, ma dello sguardo: quando andava al cinema si voltava dall’altra parte per guardare gli spettatori. Trovo che sia geniale come punto di osservazione.
Uno dei primi noti spettatori della Societas Raffaello Sanzio fu Pier Vittorio Tondelli, in Un weekend postmoderno sono raccolti vari scritti saggistici, articoli di giornale e frammenti critici; sotto il titolo di Trip Savanico incontriamo la descrizione di Persia – Mondo 1 a 1, uno dei primi spettacoli del gruppo cesenate. Decido di mostrare anche questo scritto, e chiedere a Romeo Castellucci cosa rimanga di allora…
R. C. (legge) Alla galleria d’arte moderna, invece, ecco i già lodatissimi ragazzi della Societas Raffaello Sanzio – Eh!, lodatissimi mi sembra un po’… (ride) – esibirsi con Mondo – Persia 1-1, in un trip savanico pressoché allo stato puro: corpi felini e stupendamente sinuosi nella muscolatura, teste rasate e torsi davvero del belvedere, pelle zebrata sulle cosce e anfibi con ferri di cavallo ficcati nelle suole, che s’agitano, s’inseguono e s’accarezzano, in mezzo a interferenze elettroniche e walkie-talkie e zanzariere e mosche tze-tze…
Non deve leggerlo tutto, però immagino sia un ricordo…
R. C. Sì, infatti, vedi: cita Francesca Alinovi. Conosci Francesca Alinovi?
…No
R. C. Era una critica militante di arti visive di Bologna, fu assassinata in quegli anni. Quando Bologna era una città propulsiva, pregnante, lo era grazie a Francesca Alinovi, non grazie a Umberto Eco. Quando lei è morta, questa atmosfera, questa urgenza, è sparita. E lei aveva quest’idea, per prima, di mettere in contatto i diversi linguaggi: confluivano nella sua persona musica, fumetti, teatro. Era anche l’ideatrice della Settimana della Performance, questa manifestazione leggendaria in cui si vedevano cose estreme… E lei ebbe l’idea, quando ci conobbe, di mostrare il nostro teatro in un museo. Quindi eravamo alla GAM, grazie a Francesca Alinovi, e ci venne a vedere Tondelli, che io allora non conoscevo.
Leggendo queste righe come si rivede? Penso anche da un primo impatto “materiale”, come la differenza fra il caos di allora e il “minimalismo” di oggi.
R. C. Certo, era una cosa completamente diversa. Certo, eravamo… una forma… si cambia per fortuna! Era una forma di espressione barbarica, barbara. Un’estetica onnivora. Infatti lo spettacolo si chiamava Persia – Mondo 1 a 1, ovvero su come essere cani. Il cane è onnivoro, mangia molto, tutto – ma seleziona. Questo era il nostro atteggiamento: selvaggio e barbarico. Tondelli ha fatto una sintesi perfetta.
Oliviero Ponte di Pino spiega questo passaggio, dalla caoticità di allora all’evoluzione successiva del suo lavoro, come la necessità di fare pulizia dell’eredità culturale, teatrale, per trovare un’espressione libera dal peso del passato…
R. C. Si, è stato così. Dopo questa fase, diciamo così, selvaggia – Ragazzi selvaggi era un libro che tenevo in tasca come fosse un vangelo, il libro di Burroughs –, dopo questa fase c’è stata una fase di iconoclastia, molto filologicamente attrezzata: con riferimenti all’iconoclastia bizantina ma anche delle linee che convergevano verso l’iconoclastia di Pol Pot, non perché assumessimo Pol Pot del punto di vista ideologico, ci mancherebbe(!), ma era fortemente orientato verso questo desiderio di incendio, di bruciare la tradizione. Uno dei primi depositi della tradizione… anzi, direi: la tradizione per definizione è il linguaggio. Non c’è niente che fa la storia come il linguaggio. L’attacco era centrale e doveva essere portato sistematicamente al linguaggio. Questo è durato un po’ di anni. Dopo questa fase, diciamo così, di cenere, c’è stato un lavoro sul mito, che era come ripartire da zero: le fiabe, lo studio anche antropologico della fiaba, Propp, anche lo strutturalismo. Erano anni di studio, folle. La teoria per noi era l’architettura fondamentale. Quindi dalla fase iconoclasta si è passati alla fase mitica, con i grandi miti della Mesopotamia – La Discesa di Inanna (1989), Gilgamesh (1990) – e poi c’è stato questo affrontare a viso aperto la tradizione, quindi Amleto. Questo è stato il salto dentro la bocca del vulcano. Per fare una sintesi molto compressa…
La descrizione di Tondelli continuava così: «E anche qui, visto che i componenti del gruppo vengono da Cesena, l’etnia e le memorie tribali funzionano con ineccepibile ironia, non solo con le immagini dell’ippodromo del Savio, di galoppatoi e allevamenti, ma con dialoghi folli e surreali del tipo: “Vuoi imparare il mio mestiere?” “Non pensare di potermi dare prosciutti, mortadelle, salami, caciotte, cotechini […]”. Ma anche la tenerezza dello splendido pas de deux dialogico, con l’aggiunta del suffisso etnico romagnolo “z” dei due protagonisti: “Di’ zuova.” “Zuova.”»
In Theatron di Giulio Boato, Claudia Castellucci racconta che da ragazzo aveva scelto la scuola agraria, ma che sul finire del periodo scolastico decide di dedicarsi esclusivamente al teatro. Allora, mi domando: se il teatro, e prima ancora il sacro, nascono con la vita stanziale e quindi con la “società agricola”, per lei sussiste un rapporto strutturale o anche solo biografico fra la terra e il teatro?
R. C. Io penso che il teatro non ha niente a che fare con la campagna, niente a che fare con la natura. Il teatro ha molto a che fare con la città. Il teatro va fatto nei luoghi brutali, dove si vive male. Non perché sia una terapia, eh, ma perché lì trae il suo elemento. La bruttezza della vita è la linfa del teatro. In campagna non ha senso, dove c’è armonia non può esserci teatro. Il teatro non serve a far stare bene, il teatro pensa a se stesso e basta, quindi sfrutta il nostro essere fragili e bisognosi ma è come se fosse una forza tautologica, e basta a se stessa. Noi cambiamo, gli artisti cambiano, gli argomenti cambiano ma il teatro è sempre quello: il teatro è una struttura… non saprei se definirla culturale. La campagna… sì, io vengo da una famiglia contadina – come la maggior parte degli italiani, diceva Pasolini – ma non per questo ho una forma di nostalgia, di attaccamento alla terra. Certo, preferisco stare tra gli alberi anziché tra le macchine parcheggiate, ma mi rendo conto che in mezzo agli alberi non nasce il teatro.
Ora, io non so dire con certezza se in mezzo agli alberi nasca o non nasca il teatro, però, sull’acqua buia di un lago, a notte fonda, come nel punto cieco da cui tutto ha avuto origine, credo di sì. E, forse, la traccia che dal trip savanico di Persia-Mondo 1 a 1 porta a Schwanengesang D 744 può essere riassunta con uno degli appunti di Roberto Bazlen: «Semplicità conquista di complicati, complicazione conquista di semplici…»
1Quanto afferma Romeo Castellucci assume una notevole pregnanza per chi ha assistito allo spettacolo la sera di sabato 30 ottobre: durante uno dei lieder strazianti, un pasticcio tecnico evidente e ironico ha indotto una fugace risata nel pubblico, tale da deridere, apparentemente, la presenza tragica di Kerstin Avemo. L’imprevisto ha reso lo sviluppo successivo dello spettacolo incredibilmente “reale”, ma anche didascalico, poiché il pubblico aveva già espresso la propria innocente crudeltà.
Nicolas Toselli
SCHWANENGESANG D 744
Concezione e regia Romeo Castellucci Musiche Franz Schubert Interferenze Scott Gibbons Collaborazione artistica Silvia Costa Drammaturgia Christian Longchamp Con Kerstin Avemo (soprano) e Alain Franco (pianista) Produzione Socìetas Coproduzione Festival d’Avignon, Le Monnaie/De Munt (Bruxelles)