Dopo Alexis. Una tragedia greca (2010), rilettura dell’Antigone alla luce della crisi greca, Motus, Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, torna a confrontarsi con una grande opera del teatro antico: Tutto Brucia “pone la questione fortemente politica di quali siano i corpi degni di lutto”, a partire da Le troiane di Euripide.
Qui tutto è polvere, e acqua; l’erosione del tempo, la violenza delle onde, metalli e fuochi della guerra hanno polverizzato una città dell’Asia. La scena è cosparsa di cenere, sullo sfondo una membrana nera come un mare verticale vomita forme di vita, sciacalli e bestie marine s’aggirano fra le rovine degli abissi a dilaniare gli annegati; forse sulla terraferma, a smembrare i corpi carbonizzati. Sulla spiaggia di cenere le donne superstiti attendono il verdetto dei vincitori. Cosa faranno di loro gli stranieri? Le imbarcheranno sulle navi e poi verso l’Europa, saranno il bottino di guerra. Allora gridano e imprecano contro il destino che le ha fatte prima regine, poi schiave in terra straniera – “a fare le puttane[…] a pulire il culo ai vecchi”.
Occorre fare una precisazione.
Nonostante il proliferare di studi e ricerche più o meno accademiche, persiste una cattiva abitudine nelle narrazioni che la nostra società produce sulla propria storia: adottiamo categorie proprie dell’età moderna per interpretare gli eventi del passato più lontano, quale, per esempio, l’antichità. Questa approssimazione, divulgata per mezzo di film, documentari, serie tv, romanzi eccetera, induce noi tutti a leggere il mondo in termini “sovrastorici” e condanna un’intera società, con i suoi individui, al fatalismo. Mark Fisher descrive il sentimento che ne consegue come realismo capitalista, riassumibile nell’adagio “è più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo” – è alla radice di questa percezione collettiva che si sviluppano le trame distopiche che affollano i cataloghi delle piattaforme streaming. Leggere il passato con le lenti del presente naturalizza e quindi legittima le condizioni in cui viviamo, quando riesce a dimostrare che, “dopo tutto, in passato non era poi così diverso…”
Dunque, bisogna mantenere un punto fermo: noi non siamo i greci di Euripide e i greci di Euripide non sono noi. Solo alla luce della differenza radicale che passa tra queste due civiltà, assume un senso l’adattamento compiuto da Motus oggi, e, prima, da J. P. Sartre, la cui opera Le Troiane. Adattamento da Euripide fa da sfondo drammaturgico a Tutto Brucia.
“navi, belle navi,
avete ormeggiato nelle nostre baie
e uomini di acciaio sono scesi dai vostri ponti
dieci anni fa”
Dopo dieci anni all’assalto di Troia per riconquistare Elena, le navi prendono il largo. La memoria della ritirata Usa dall’Afghanistan è ancora troppo viva per non sentire nella parole di Silvia Calderoni il dolore afghano, il terrorismo, le retoriche occidentali, e giù a ritroso fino alla colonna di fumo delle Twin Towers. Venti anni di guerra hanno dilaniato l’Afghanistan, e questa volta i greci dell’occasione hanno battuto ritirata: ma quali reliquie hanno caricato sulle loro navi? Sul finire della Guerra Fredda per dieci anni l’Unione Sovietica ha combattuto contro la resistenza afghana; per il fronte USA la guerra doveva essere l’occasione per dare ai russi il loro Vietnam, vennero quindi addestrati, armati e finanziati gruppi di fondamentalisti in funzione antisovietica. Le conseguenze sono a tutti note; tra le altre, l’attentato alle Torri Gemelle, cui seguì la “guerra al terrore” con relativa invasione dell’Afghanistan da parte dei precedenti alleati statunitensi. Spingimi tu tra le braccia di Agamennone / fa che mi porti verso Argo / là il nostro letto nuziale / sarà il suo letto di morte – preannuncia Cassandra alla madre Ecuba.
La lista delle associazioni potrebbe moltiplicarsi. Anzi, si moltiplica.
In vista della realizzazione di Tutto Brucia, Motus apre una call volta a riunire un gruppo di venti artisti in residenza presso Mondaino. Chiedono di inscenare “in solitudine una trasformazione radicale del tuo corpo” di provare a “diventare altro da te, con oggetti, vestiti, maquillage, effetti speciali”. In residenza conducono una ricerca condivisa volta a raccogliere elementi che confluiranno nell’opera. Il gruppo vuole raccontare, per mezzo della tragedia euripidea, l’agonia del colonialismo che si riverbera fino a noi, sotto forma di flussi migratori, frontiere militarizzate, clandestinità e violenze di ogni genere fino alla morte nelle acque mediterranee – prima culla di civiltà, oggi cimitero. Ecuba è dunque una donna africana, forse del Mali, forse nigeriana, e attende sulla costa libica: ha vissuto il dramma della guerra, della violenza di deportazione, ha passato mesi nei centri di detenzione libici finanziati dall’Unione Europea. Mentre aspetta non sa se i suoi traghettatori la scorteranno al di là del mare, non sa cosa il diritto italiano, i CPR, la polizia, le aziende che guadagneranno sul suo lavoro irregolare faranno della sua e della vita delle sue compagne.
Tutto è polvere, dunque.
La polvere del deserto afghano, la polvere spalata per giorni tra i detriti del World Trade Center, la polvere sollevata dai furgoni obsoleti in viaggio nel deserto, carichi di uomini sotto il sole cocente. Tutto è acqua, l’acqua salata che avvolge e s’infiltra nei corpi abbandonati sul fondo del mare, l’acqua nera solcata dalle imbarcazioni nella notte, l’acqua del mare verticale che a fondo scena ci restituisce le mutanti forme di vita che abitano Tutto Brucia. Se la polvere è quella parte di scenografia depositata sul palco o avvolta in sacchi neri che come conquiste deludenti vengono squarciati, l’acqua è l’elemento delle due performers che la soffiano, la calpestano e la disegnano in tracce sempre da riscrivere. Silvia Calderoni e Stefania Tansini attraversano i personaggi della tragedia come un corso d’acqua scorre sui rilievi rocciosi: non prendono mai sembianza definitiva dell’una o dell’altra protagonista, parlano voci che non hanno fonti sonore, l’atmosfera è pulviscolare, rarefatta. R.Y.F (Francesca Morello) nella sua postazione laterale, canta un lamento corale e immutabile, partecipa agli accadimenti ma sempre in disparte: una presenza fissa già all’opera per tramandare nel canto collettivo le vicende ancora private delle protagoniste. Forse è proprio lei, con la trama sonora costante che produce, la roccia su cui scorrono come acqua Ecuba, Cassandra, Elena, Andromaca.
Tra le critiche reperibili online si può leggere “lo spettacolo sembra non riuscire a crescere sul piano del dinamismo, dando la sensazione di restare bloccato su alcuni assunti che dai primi minuti ne accompagnano l’evoluzione fino alla fine”. E’ difficile immaginare quale dinamismo possa esserci in un paesaggio desertico devastato dalla guerra; piuttosto, forse, il fatto suggerisce un’inaspettata aderenza all’opera di riferimento: Le troiane si distingue infatti tra le tragedie antiche proprio per la sua staticità. E’ forse questa inazione che permette allo spettatore di dare alla scena le sue ombre?
La compagnia che fa del movimento un carattere identitario, ci porta in una scena immobile, un tempo sospeso dove ogni piccolo e attraente avvenimento, dopo i primi attimi di vita, si disperde in pulviscoli e non lascia traccia. Persino una strada tracciata come un percorso salvifico sulla cenere non è una strada percorribile, e passo dopo passo viene cancellata. Ma è proprio questo vuoto scenico e drammaturgico a fare del palco un campo di emergenza, un piano che può essere abitato dai fantasmi del nostro presente. E’ perciò che nel celebrare i morti, coprirne i resti con una bandiera nera a brandelli, prima sventolata orgogliosamente al vento, possiamo incontrare un altro drammatico ma epifanico ventennale, Genova 2001. «Non solo gli uomini, anche gli dèi stuprano». Silvia (Ecuba?) pronuncia queste parole, prima di annunciare la trasformazione di sé e delle sue compagne in roccia e acqua e onde e aria… o forse dopo? Non ricordo, gli avvenimenti si confondo, si confondono perché queste sono le parole di tutti, e nessun personaggio può farsene carico da solo. Anche gli dèi stuprano. Un amico all’uscita del teatro mi dà la sua interpretazione dell’affermazione – che quando vado a cercare sul testo di Sartre non trovo – e, a ritroso, vediamo il G8, L’Afghanistan, il Vietnam, la Grecia del 2014, i centri per il rimpatrio, l’11 settembre cileno, le strade di Firenze degli operai GKN, un sacco di gente in qualunque posto, sì, perché, mi spiega, gli dèi, cosa sono gli dèi oggi? E’ quello che si chiama “sistema”: quella rete di istituzioni, organizzazioni economiche e accordi geopolitici che imbrigliano e reprimono la vita di miliardi di persone per gli interessi di una piccola parte, quell’insieme di strutture che perpetuano un ordine che per molti è solo un violento disordine.
Sotto questa luce, lo scarso dinamismo, l’incompiutezza delle “tra(n)sformazioni” che il lavoro prometteva, appaiono di segno positivo. «Una delle ultime domande che abbiamo fatto a Nikos è stata: ma noi, come artisti, come possiamo porci davanti a tutto questo? Lui sorridendo ci ha risposto che l’arte non basta, non basta, non basta; che bisogna fare qualcosa di più». Così raccontava Silvia Calderoni in Alexis, quando si domandavano “come trasformare l’indignazione in azione?”. Nessuna risposta spettacolare, perché non è questo il luogo preposto; piuttosto il lavoro di Motus sembra parlare la voce di una comunità, e sembra anche riunire intorno a sé una comunità di pubblico, eterogenea, forse un po’ scomposta e a tratti effimera; ma ciò che conta è che nella scena vivano le paure, le gioie e il coraggio di più generazioni che, sotto le vesti di Cassandra, come pure sotto forma di roccia, acqua o fuoco, torneranno a tormentare il presente dei greci di ogni tempo e nazione.
Nicolas Toselli
ideazione e regia Daniela Nicolò e Enrico Casagrande
con Silvia Calderoni, Stefania Tansini e R.Y.F. (Francesca Morello) alle canzoni e musiche live
testi delle lyrics Ilenia Caleo e R.Y.F. (Francesca Morello)
ricerca drammaturgica Ilenia Caleo
cura dei testi e sottotitoli Daniela Nicolò
traduzioni Marta Lovato
direzione tecnica e luci Simona Gallo
ambienti sonori Demetrio Cecchitelli
design del suono live Enrico Casagrande
fonica Martina Ciavatta
assistenza tecnica Francesco Zanuccoli
props e sculture sceniche _vvxxii
video e grafica Vladimir Bertozzi
produzione Elisa Bartolucci con Francesca Raimondi
organizzazione e logistica Shaila Chenet
promozione e comunicazione Marta Lovato con Francesca Lombardi
ufficio stampa comunicattive.it
distribuzione internazionale Lisa Gilardino
una produzione Motus e Teatro di Roma – Teatro Nazionale con Kunstencentrum Vooruit vzw (BE)
progetto di residenza condiviso da L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale – Centro di Residenza Emilia-Romagna e Santarcangelo dei Teatri
in collaborazione con AMAT e Comune di Fabriano nell’ambito di “MarcheinVita. Lo spettacolo dal vivo per la rinascita dal sisma” progetto di Mibact e Regione Marche coordinato da Consorzio Marche Spettacolo
con il sostegno di MiC, Regione Emilia-Romagna
si ringraziano HĒI black fashion, Gruppo IVAS