La migliore commedia è, forse, quella che riesce con i suoi toni leggeri e buffoneschi a scavare dentro i suoi soggetti, toccando argomenti ben più profondi di quanto si potrebbe pensare ad una prima occhiata superficiale. È la commedia che riesce ad inquadrare e raccontare una realtà in ogni sua sfaccettatura, spesso e volentieri mettendone a nudo gli aspetti più oscuri, mostrando i sentimenti complessi e amari che si celano dietro una risata. Nel nostro paese possiamo dire di vantare una tradizione secolare di questo tipo di tragica comicità, una tradizione che affonda le sue radici nel popolare, e che ha trovato accoglienza in tutto il mondo, proprio per l’universalità dei temi trattati.
Quello che Natalino Balasso ha fatto con il suo spettacolo Balasso fa Ruzante, in scena alle Fonderie Limone di Moncalieri dal 14 al 19 dicembre, sembra essere una naturale continuazione di questa tradizione. Come il titolo suggerisce (anzi, dice esplicitamente), Balasso riprende i personaggi e le situazioni create dall’autore cinquecentesco Angelo Beolco e le fa sue, re-inventandone i testi senza in alcun modo tradirne l’anima. Il grezzo Ruzante, il compare Menato e l’amante Gnua si esprimono quindi in quello che viene definito dal programma di sala un “neo-dialetto crapulone”, un linguaggio che per certi versi ricorda quello dei personaggi dell’Armata Brancaleone ma con tinte fortemente padovane, e fa sì che il pubblico si immerga nel mondo contadino del Beolco e s’illuda di sentir parlare dei veri popolani veneti del cinquecento, pur mantenendo una piena comprensibilità dall’inizio alla fine.
Balasso ricama perfettamente la sua personalità istrionica sul personaggio di Ruzante, senza tuttavia per questo oscurare i suoi comprimari, che in più di un momento rubano completamente la scena, dimostrandosi altrettanto azzeccati.
Il linguaggio, ovviamente, è solo parte della bravura con cui gli interpreti portano in vita i personaggi, e si sposa con estrema naturalezza alla gestualità, creando un effetto comico decisamente efficace, notevole ad esempio nei momenti in cui il compare Menato, ripensando alla moglie scappata con un pastore slavo, si lascia andare a violenti spasmi rabbiosi. La comicità traspare anche dagli oggetti di scena, dal modo in cui si decide di evocare una mucca, messa insieme da vari oggetti al centro dei quali primeggia una gigantesca mammella, o dal modo in cui un monopattino diventa una gondola. E dietro alla risata escono fuori le ingiustizie della vita, la gelosia che s’insidia nelle amicizie, l’ombra della guerra e la paura della fame che rendono le persone opportuniste, la sicurezza economica che viene preferita all’amore sincero. Dopo un’ora o poco più passata a far ridere il pubblico, ogni cosa viene ridimensionata con un finale amaro, che lascia ogni giudizio allo spettatore.
Ma sebbene lo spettacolo si concluda su questa nota di malinconia, la capacità istrionica di Balasso riesplode immediatamente al momento dei saluti: l’attore esce sul palco, dialogando apertamente con la platea, presentando uno ad uno i suoi collaboratori senza mancare di osservazioni brillanti ( “Pensate, così giovane e già riesce a distinguere i suoni” ha detto del tecnico audio la sera in cui ho assistito) e riuscendo persino a far ballare gran parte del pubblico nello spazio ristretto delle poltrone. Tutto considerato, il tentativo di riproporre ancora una volta la migliore tradizione comica del teatro italiano sembra essere ampiamente riuscito.
Edoardo Perna
di Natalino Balasso con Natalino Balasso, Andrea Collavino, Marta Cortellazzo Wiel regia Marta Dalla Via scene Roberto Di Fresco costumi Sonia Marianni luci Luca Dé Martini di Valle Aperta Teatro Stabile di Bolzano, ERT- Teatro Nazionale