SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE – VALERIO BINASCO

Con un grande rito preparato con dedizione, all’insegna dell’imponenza del teatro, Valerio Binasco torna a bussare, dopo due anni, quasi inevitabilmente, alla porta di Shakespeare. Come sempre, le produzioni di Binasco si presentano al pubblico con grande maestosità, come una gigantesca macchina che gira da sola, spinta da un demone che si diverte a giocare con attori e storie.

Nelle prove del Sogno di una notte di mezza estate questo demone sembra essere lo stesso regista, severo e attento, sempre pronto a controllare l’energia che ci si scambia mentre si recita una parte. Un grande rigore fa parte del lavoro di Binasco, lo si vede chiaramente assistendo alla costruzione delle scene insieme agli attori: la stessa scena ripetuta più e più volte finché la tensione non è quella necessaria, finché due giovani attori come Giordana Faggiano e Fabrizio Costella, nei panni di Ermia e Lisandro, non diventano come due veri terroristi armati d’amore contro il mondo dei padri.

La severità nei lavori del regista ha sempre una ragione, non è mai gratuita. È necessario che ogni attore padroneggi al massimo l’energia condivisa con i compagni sulla scena, come quando si impara a memoria una parte: “La chiave è insistere, lavorarci a fondo; è dimenticarsi delle battute, per poter entrare in scena e ricominciare da zero”, sottolinea Binasco. In scena, tuttavia, la presenza di un demone che regna severamente sugli attori si sente, quasi si può percepire nel personaggio di Oberon, interpretato, appunto, dallo stesso Valerio. È come se gli attori fossero talvolta in soggezione, forse per una stretta di polso troppo salda da parte del direttore dell’orchestra Oberon-Binasco.

Ma la severità ha un parallelo anche nel tema su cui questo spettacolo ci propone di riflettere, che è l’amore. L’amore è severo. L’amore carnale, l’amore maledetto, quello in grado di sconvolgere la nostra mente da un attimo all’altro, facendoci perdere il controllo. Non quello di Romeo e Giulietta, puro, per cui vale la pena morire. No, quest’amore non perdona, e controlla i personaggi come burattini. Una domanda molto chiaramente si pongono gli attori per lavorare a questo testo, parlando all’amore in prima persona: “Chi sei? Che cosa vuoi? Perché ti comporti così?”. L’amore diventa quasi una bomba da disinnescare, da capire, da studiare, che però poi esplode comunque.

L’amore è qui quella bestia di cui Binasco parlava ne Il piacere dell’onestà, portato in scena durante il lockdown. “Non siamo soli, siamo noi e La Bestia”, diceva Baldovino, da lui interpretato nel dramma Pirandelliano. Binasco dichiarava la tristezza come la sua Bestia, il filo rosso che lega il suo lavoro in teatro negli ultimi anni. Qui la Bestia è l’amore, che ci usa a suo piacimento come “una lucertola nelle mani di un bambino, e chi si salva è molto fortunato.”

Ma ovviamente, essendo Sogno di una notte di mezza estate, in fondo, una commedia, seppur con dei tratti da tragedia, l’amore non è soltanto la Bestia, ma anche l’amore per l’arte, un’arte semplice, elementare, genuina, come la passione degli operai per il teatro. Coloro che nel testo originale di Shakespeare sono gli artigiani qui diventano operai, come per rendere ancor più essenziale il contesto in cui si svolge la preparazione di Priamo e Tisbe. Perfettamente riuscito è l’intreccio tra la comicità leggera della compagnia dilettante di operai e la tragicità della Bestia dell’amore, che trascina il pubblico in un vero e proprio sogno.

E un sogno è proprio ciò che sembra vivere tornando a teatro dopo mesi di lunga lontananza, dove si entra quasi un po’ storditi ormai, e il Teatro Stabile di Torino con Sogno di una notte di mezza estate riesce bene a porsi come baluardo dell’unità di fronte a un bisogno primitivo dell’essere umano: fare teatro. Binasco amò definirsi, durante il lockdown, come i musicisti che suonano sul Titanic mentre la nave sta affondando, e che affondano con essa. È l’amore gratuito per l’arte, una passione da cui non si può fuggire, come il succo versato negli occhi di Lisandro da Puck, come l’amore per la recitazione degli operai.

Una cosa sembra mancare in questo spettacolo. Confrontando i lavori di Valerio Binasco negli ultimi due anni si avverte una necessità di urlare al mondo usando il microfono più potente la propria umanità, i propri limiti, le proprie paure. Si potrebbe dire che l’apice di questo percorso sia stato raggiunto con l’Amleto alle Fonderie Limone nel 2019, recitato da Gabriele Portoghese, che vedeva Binasco solo come regista, non come attore. Spettacolo estremamente sincero. Una montagna incredibile da scalare, ma terribilmente purificatrice, catartica. Nel Sogno di una notte di mezza estate la catarsi sembra venir meno, se non durante il canto a cappella di tutti gli attori per la chiusura del quinto atto.

Infine, si può dire che nel Sogno si dia molta importanza al pubblico, a ciò che esiste al di fuori della scena, alla vita reale. Gli operai spesso fanno richiamo ai loro nomi reali rompendo la cosiddetta quarta parete: “Si potrebbe dire che sono Bottom, ma volendo anche Michele di Mauro”, oppure “Snug, anche chiamato Franco Ravera”. O ancora, il monologo di Elena contro Demetrio che non riesce a vedere la sua bellezza, completamente recitato al pubblico, guardando negli occhi gli spettatori in sala. Questo potrebbe spiegare ciò che Binasco diceva mentre portava in scena Le Sedie di Ionesco, a maggio di quest’anno, sottolineando l’importanza del pubblico, l’umiltà che si deve avere nell’accoglierlo e nel renderlo partecipe di ciò che succede in scena. E nel canto finale del Sogno occorre quasi ringraziarlo, così come accadeva nel finale de Le sedie, dove lo stesso Michele di Mauro, insieme a Francesca Fracassi, porgeva un enorme “grazie” al pubblico in sala per essere venuto. Con il pubblico in sala la missione degli attori finisce, non è più neanche necessario parlare (forse per questo che il finale del Sogno non è parlato, ma cantato), così come ne Le sedie Binasco affermava che non servivano parole per descrivere il senso dell’amore, il senso della vita.

Matteo Chenna

di William Shakespeare
regia e adattamento Valerio Binasco
con (in ordine alfabetico): Davide Antenucci, Valerio Binasco, Fabrizio Costella, Michele Di Mauro, Giordana Faggiano, Lorenzo Frediani, Olivia Manescalchi, Daniele Marmi, Nicola Pannelli, Cristina Parku, Greta Petronillo, Franco Ravera, Dalila Reas, Francesco Russo, Letizia Russo, Michele Schiano di Cola, Valentina Spaletta Tavella
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Alessio Rosati
musiche Paolo Spaccamonti
consulenza vocale Carlo Pavese
assistente regia Giulia Odetto
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale

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