Radio Clandestina è ospite del Teatro Stabile di Torino e, dopo più di vent’anni dal debutto, va in scena dal 25 al 30 gennaio al Teatro Gobetti il monologo che ha lanciato la carriera di Ascanio Celestini.
Cala il buio in sala, Celestini entra in una scena spoglia: ci sono quattro diverse lampade appese e attorcigliate ad un riquadro in ferro, una sedia di legno rossa al centro. Siamo al buio, il suo volto è parzialmente illuminato dalla luce fioca di una lampadina, e le ombre che si dipanano in forme anomale sul volto dell’attore ci fanno tornare ai racconti dell’orrore dei bambini, in cerchio, nelle sere d’estate. Anche questo potrebbe essere un racconto dell’orrore; o meglio, sarebbe più facile per noi se lo fosse.
Che cosa è successo il 24 marzo 1944?
Qualcosa che potremmo spiegare in un minuto. Oppure in un’ora, o, forse, in più di un settimana.
Ben presto siamo in strada, e una donna chiede – come ogni giorno – di leggerle i cartelli fosforescenti affissi alle pareti: “Monolocale di 35m quadrati, angolo cottura, chiamare ore pasti”. Questo spazio è troppo piccolo, dice la signora, una donna bassetta, che molto cortesemente ringrazia il suo traduttore di geroglifici: ma no, non fa per lei. La signora, che è una donna bassetta davvero, declina – come ogni giorno – la proposta d’affitto, e a noi tutta la situazione fa sorridere fin dall’inizio; eppure l’ironia cade sul fatto che, per una scusa o per un’altra – la cataratta un giorno, gli occhiali dimenticati un altro – il fatto sorprendente sembri essere che esista ancora una persona analfabeta al giorno d’oggi, un evento talmente raro che potrebbe assolutamente far parte di una collezione da museo. Un museo americano, magari, dato che spesso gli americani viaggiano in Italia alla scoperta di rarità antiche, di pezzi unici, da collezione appunto. In un museo del genere la bassetta vivrebbe in una teca di vetro, altro che 35m quadrati di monolocale con angolo cottura. Una volta, invece – nell’Italia delle Grandi Guerre, ad esempio – sì che la povera gente non sapeva leggere né scrivere, ma non c’era da ridere, e per questo chiedevano il favore ad altri, di farlo al posto loro; persone che puntualmente venivano istituite di un ruolo, diventando un vero e proprio punto di riferimento, come il nonno Giulio, ad esempio. Lavorava nel cinema, il nonno Giulio. Lavorava al Cinema Iris di Roma, e in verità staccava biglietti, puliva per terra, montava le pellicole; però era un punto di riferimento per il quartiere. È lui, infatti, che ha letto a tanti altri compaesani il bando del 24 marzo del ’44, quello che annunciava la morte di 32 militi nazisti a causa di un vile attentato, che sarebbe stato vendicato con la morte di 10 “comunisti-badogliani” per ogni tedesco ucciso nell’imboscata. È qui che inizia sul serio il nostro viaggio nella storia. Un viaggio che passa per le strade di una città che si trasforma per adeguarsi al prestigioso titolo di capitale: i quartieri vengono smembrati, spostati, ricostruiti o risanati; ci sono lavoratori, studenti, militari, gruppi di resistenza, mogli, madri, figli; poi c’è il Vaticano, e i meravigliosi monumenti romani. L’impressione è quella di vivere un’esperienza cinematografica: Celestini prende un po’ i tratti di nonno Giulio e con le parole disegna panoramiche, carrellate, primi piani; come un cicerone ci conduce lungo le strade e i quartieri di Roma; ci presenta donne e uomini che in pochi frammenti danno forma e colore alla città di un passato molto recente; magari colti nella quotidianità di chi sta rivendicando una pagnotta di pane più grande, o la riduzione dell’orario di lavoro, o di chi è sfrattato dalla palazzina in cui vive per ordine del Duce, intento a edificare una grande via centrale dove sfileranno gli imponenti cortei militari del regime fascista prima, e che poi, coincidenza vuole, verranno attraversate nelle parate del nuovo stato democratico, compresa la Festa della Repubblica.
Poi c’è la memoria – o meglio – la voglia di ricordare. Ma ricordare nel senso pieno, quel desiderio di mantenere vivo un discorso che non si è concluso e archiviato. Perché la memoria collettiva, che va a costituire il portato dell’identità sociale e culturale di un popolo, non è composta di eventi che si possono catalogare e, una volta riconosciuti e analizzati, conservarli eternamente in un’immagine immutabile; gli eventi, per continuare a vivere nel ricordo e contribuire alla storia di domani, hanno bisogno di essere affrontati, discussi, se necessario, a ogni nuova svolta.
Con la volontà, dunque, di ritornare a quel giorno, chiediamo e rispondiamo ad alta voce: cos’è successo veramente quel 23 marzo del ’44?
Trecentotrentacinque civili italiani – tra cui ebrei, cristiani, romani della Sardegna, del Piemonte, romani di Trastevere, insomma, 335 italiani – vengono uccisi e “sepolti” in una cava sulla via Ardeatina dai nazisti, l’ordine arrivato dall’alto, in risposta alla morte dovuta all’attacco di Via Rasella, del giorno precedente, ad una colonna tedesca di polizia da parte dei Gruppi d’Azione Patriottica. Però, questa è una storia strana, una storia in cui qualcosa non quadra come dovrebbe, un evento che spesso è stato raccontato in modo alquanto confuso – a partire dalla prima volta in assoluto in cui “il mondo è stato informato”: quando l’alfabetizzato nonno Giulio legge per i suoi concittadini il bando affisso dagli occupanti sui muri della città, recita un curioso paradosso: verranno giustiziati 320 civili, 10 per ogni tedesco morto nell’attacco partigiano – l’ordine è già stato eseguito. Come un gioco di specchi deformanti, il giorno seguente l’informazione viene riportata ne L’Osservatorio romano, che fin dal titolo distribuisce le parti: annuncia le vittime della rappresaglia nazista come vittime sacrificali in mancanza dei veri colpevoli, gli autori dell’attentato del 23. Il mondo viene quindi informato immediatamente su un punto: i terroristi sono i partigiani in guerra contro gli occupanti tedeschi e i fascisti autoctoni, i partigiani sono dunque colpevoli di aver condannato alla morte 320 compatrioti innocenti. L’ordine è già stato eseguito è il titolo del libro di Alessandro Portelli da cui ha preso le mosse Ascanio Celestini per la scrittura di Radio Clandestina. La riflessione va a chi e come si comunica una storia. Le parole hanno un peso, anche nella memoria.
Proprio di memoria tratta una risoluzione del Parlamento Europeo del 2019 che ha destato non poche polemiche, ben presto sommerse da altre e fresche polemiche. Molto brevemente: alla luce dei valori europei, condivisi e riconosciuti dai paesi membri, s’invitano gli stessi a promuovere una memoria storica atta a denunciare egualmente tanto i crimini nazisti quanto quelli comunisti, o di altri totalitarismi. Sottolinea inoltre che “la Seconda guerra mondiale […] è iniziata come conseguenza immediata del famigerato trattato di non aggressione nazi-sovietico del 23 agosto 1939, noto anche come patto Molotov-Ribbentrop”. Su due elementi è importante concentrarsi: l’equiparazione ufficiale del regime comunista e nazista, più o meno esplicita nel testo, è una novità storica. Basti pensare che in Italia non è reato costituire un partito comunista, mentre lo è, almeno formalmente, un partito esplicitamente nazi-fascista. Secondo elemento: il testo, consultabile qui, usa apparentemente come sinonimi i concetti di comunismo e stalinismo. Ebbene, basti dire che il comunismo fu ed è un movimento politico, a prescindere dai nomi che prende di volta in volta a prestito, che contribuì sostanzialmente ad affermare i diritti dei lavoratori, la costituzione dei sindacati, le parità di genere, i diritti civili quali l’aborto e il divorzio, e, notoriamente, dichiarò illegittima la proprietà privata. Lo stalinismo è una diramazione, una singolare mutazione storica di un movimento che ha preso e prende tutt’oggi milioni di vie ben diverse. Ma qualcosa o qualcuno esige equivalenze, vuole definire degli estremi per certificare il giusto mezzo. Ultimamente, nelle giunte comunali del nostro paese la denuncia dei crimini “comunisti” sembra essere all’ordine del giorno: vengono intestate o rinominate vie, monumenti e piazze a vittime od eroi sempre dibattuti. Oppure i lavori storici vengono condotti sulla gogna mediatica, come nel caso dello studioso torinese Eric Gobetti che nel 2020 venne travolto di accuse contrarie alla sua pubblicazione E allora le foibe?. Queste vicende che paiono polemiche dalla vita di un giorno, contribuiscono negli anni a costruire dei confini, definire dei programmi scolastici, rivedere i manuali di storia, escludere o includere obiettivi e discorsi dalla vita pubblica. Ma su quali basi, a partire da quali principi e per quali scopi?
Celestini non racconta solo la guerra del 39-45, piuttosto costruisce una trama atta a legare le vicende di ieri ai problemi di oggi, i campi di battaglia di allora ai terreni di scontro di oggi. E un campo di battaglia di oggi, come di allora, è quello della storia. Le informazioni più o meno inquinate possono essere particelle di storia, ed è forse per questo che in seguito alle leggi razziali del ’38, agli ebrei non era permesso avere nessun tipo di mezzo di comunicazione o informazione – “neanche un piccione viaggiatore”.
Partecipare ad uno spettacolo come Radio Clandestina, al di là del tema specifico dell’eccidio alle Fosse Ardeatine, ci ricorda quanto sia di vitale importanza non retrocedere neanche di un centimetro dal poter provare a dire la verità, e dirla con franchezza e lucidità, conservando, al contempo, una estrema umanità; caratteristiche, queste, dei lavori di Ascanio Celestini, che in scena si fa sapiente attore-narratore, ammaliando letteralmente il pubblico con i suoi racconti, e, parola dopo parola, immergendosi nel flusso delle storie conducendolo per mano e sedendosi accanto a lui.
Fantasma in carne e ossa della storia
In logge circoli accademie caffè,
Dove decorazioni di dèi, dee e stagioni
Personificazioni di virtù
Vittorie città stati confessioni insistono
Dagli stucchi, se ti descrivo è per consegnarti
Al silenzio della mia memoria:
“Sono sacro a Gnatio di Erèadi
Che in battaglia perse la vita…”
Parla il luogo o il monumento
Non già il poeta, tanto meno l’amante, eppure
Un groviglio di scudieri mi si schiude dinanzi
Su un fianco lasciato nudo dai cespugli
Coi chiodi infissi nel cielo
Per dare spazio a questo marmo sulla terra.
RAMMENDI IN COTONE ARANCIONE
da Guerra, Franco Buffoni, 2005
Valentina Bosio
Nicolas Toselli
Spettacolo di Ascanio Celestini
A partire da L’ordine è già stato eseguito di Alessandro Portelli
Suono Andrea Pesce
Con un brano di Matteo D’Agostino
Voce di Pierpaolo Pasolini
Organizzazione Sara Severoni
Produzione Fabbrica
Distribuzione Mismaonda