“Fondamentalmente io sono un pezzo di ghiaccio”, apre così lo spettacolo il personaggio di Ralph, interpretato da Filippo Dini. Il ghiaccio in questa pièce è ovunque: si viene avvolti da un’atmosfera gelida, immobile, già dall’ingresso in platea del pubblico, quando le luci di sala sono spente e si vede solo grazie a un’illuminazione di ghiaccio che arriva dalle luci di scena.
È uno spettacolo che si immerge coraggiosamente nel mondo dei sensi di colpa, del rimorso e del perdono: Si possono perdonare anche crimini inumani come la violenza e l’uccisione di bambine? Sono temi che coinvolgono in prima persona, in modi diversi, ognuno dei personaggi di Ghiaccio.
Vediamo protagonista di questa tragica e raggelante storia Ralph (Filippo Dini), uomo di mezza età, pedofilo che avvicina Rhona, una bimba di 10 anni, le parla a tratti in modo amichevole e a tratti scocciato per la scarsa predisposizione al dialogo della bambina, e poi la porta sul suo furgone, quindi in un capannone, dove verrà violentata, uccisa, sepolta e lì lasciata per vent’anni.
Vediamo quindi la madre della bambina, Nancy (Mariangela Granelli) a poco tempo dall’accaduto, poi a cinque anni di distanza, poi a venti: un tempo eterno, incredibilmente dilatato, che, proprio come il ghiaccio, congela i ricordi, i battiti del nostro cuore, la mancanza di una figlia scomparsa: per molto tempo la stanza di Rhona resta uguale, nessuno la può toccare. Dopo anni la madre Nancy crede fermamente nel successo che, prima o poi, avrà nella ricerca della figlia.
Infine, vediamo Agnetha, una psichiatra che conduce un’attenta analisi su Ralph, portando in pubblico lo studio del suo caso clinico: Serial Killer… Si può perdonarli?
Ecco, dunque, il tema del perdono. “La differenza tra un crimine frutto di malvagità e un crimine frutto di patologia è che nel primo caso il crimine è una colpa, nel secondo è un sintomo” dice la dottoressa Agnetha.
Così, da spettatori attivi, coinvolti, travolti dalla passione logorante della madre di Rhona, imprigionati dalle catene da carcerato che indossa Ralph, fiduciosi e un po’ confusi dall’indagine della dottoressa Agnetha, assistiamo ghiacciati a questo pungente dramma, immobili ai balbettii e ai tic nervosi di Ralph, alle urla di Nancy, agli attacchi di panico di Agnetha.
Ognuno cerca di sopravvivere nel dramma come può. Ogni spettatore in sala segue, impotente.
I micromovimenti patologici di Ralph, resi fisicamente con grande maestria da Dini (a cui ha lavorato nel corso delle repliche: questi dettagli fisici e nervosi del personaggio non erano presenti al debutto, ma sono arrivati man mano), ci portano già dall’inizio ad empatizzare distaccatamente, se é mai possibile, con un uomo che reca al suo interno un immenso vuoto, un passato di, a sua volta, violenze, incomprensioni, odio.
La tesi della dottoressa Agnetha vuole dimostrare che vi è un carattere patologico nel comportamento di Ralph, che i traumi che ha attraversato nel corso della sua infanzia hanno portato a un mancato sviluppo della sua corteccia cerebrale, organo che dovrebbe controllare gli istinti, l’impulsività.
Ralph sa chiaramente che sta commettendo dei crimini: “Uccidere le bambine è illegale, chiaramente!” dice. Tuttavia, qualcosa lo blocca dal provare il rimorso, quel “mostro che mangia qui, nel petto, e che fa malissimo” come viene definito nello spettacolo.
Immersi in una scenografia di fortissimo impatto visivo e concettuale, progettata da Maria Spazzi e realizzata con grande cura da Ermes Pancaldi, i personaggi si muovono dentro a tre enormi scatole costruite una dentro l’altra. Quelle tre scatole da cui Nancy estrae i resti ossei della figlia, a vent’anni di distanza dalla scomparsa, ancora ricoperti di terra, e li stringe a sé. Le scatole sono rivestite di cellofan, proprio come il cellofan che soffocò Rhona prima di essere sepolta da Ralph. Sepolta, sotto terra. Quella stessa terra di cui è colmo lo spazio scenico, sopra cui camminano i personaggi. L’interazione del cellofan con le luci, disegnate da Pasquale Mari, è geniale, soprattutto quando viene bagnato da una colata d’acqua che rappresenta la pioggia, che si riflette sulle spalle di Ralph, incatenato.
La voce attenta e familiare di Mariangela Granelli, che sembra riprendere dei tratti caratteristici della madre di Laura e Tom, quella speranza che portava con la stessa passione ne Lo zoo di vetro, suscita quasi le lacrime in sala. Proprio grazie Mariangela/Nancy e alla forza attoriale di Dini, Ghiaccio è forse uno dei più importanti spettacoli sul perdono che si possano vedere in teatro in questi decenni.
È possibile perdonare lo stupratore e assassino di propria figlia? Per molti anni è stato difficile, ma ora è possibile.
Qui, il ghiaccio inizia a fare ciò che succede quando lo si avvicina a una fonte di calore. Come l’amore, il perdono è un fuoco, e il fuoco scioglie il ghiaccio. Nancy incontra Ralph, gli fa vedere delle foto di Rhona da piccola con la famiglia, lo perdona, generando all’improvviso una luce incredibilmente potente nell’animo di chi assiste, in sala. Il ghiaccio è diventato acqua. Ralph inizia ad essere divorato dal mostro del rimorso, “qui, nel petto. Fa male, cazzo”.
Così come vediamo quasi fuoriuscire quel ghiaccio pungente dal petto di Ralph, Nancy e Agnetha fanno uscire da delle scatole sei strisce di bandierine tibetane, che ricordano il viaggio della sorella di Rhona mentre scappava dal dolore. Le bandierine vengono tese sopra la testa del pubblico, attraversando tutto il teatro Gobetti. Non sono presenti nel testo: è un’aggiunta di Dini regista, che vuole lasciare al pubblico ben più di una buona storia. In sala restano appese sopra le teste degli spettatori, come resta la consapevolezza degli orrori dell’essere umano.
Occorre essere più umani. Condividere le gioie, i dolori, essere vicini. Estremamente coerente è anche la scelta di portare a questo spettacolo l’accessibilità con schede di sala semplificate, audiodescrizioni introduttive, video in LIS e soprattitoli semplificati. Ghiaccio è un capolavoro che merita di essere fruito a 360 gradi, da tutti.
Con una straordinaria capacità di trasformare l’orrore in catarsi, questo spettacolo ci dice ben di più di quanto possiamo notare a prima vista sul momento storico in cui viviamo, un momento storico di orrori, di violenze, di raggelamento, di mancanza di calore e perdono.
di Matteo Chenna
di Bryony Lavery
traduzione Monica Capuani, Massimiliano Farau
con Filippo Dini, Mariangela Granelli, Lucia Mascino
regia Filippo Dini
scene Maria Spazzi
costumi Katarina Vukcevic
luci Pasquale Mari
musiche Aleph Viola
aiuto regia Carlo Orlando
Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale
In accordo con Arcadia & Ricono Ltd per gentile concessione di United Agents LLP