Da venerdì 20 a domenica 22 maggio ha avuto luogo presso il Teatro Salomone di Cherasco (CN) la prima edizione del festival Lumaca 3.0, tre giorni di spettacolo e dibattito dedicati alla drammaturgia giovanile contemporanea, organizzato dal collettivo teatrale ControRealtà in collaborazione con la compagnia Il Teatro Delle Dieci.
Il festival vuole promuovere le giovani esperienze teatrali e aprire un dialogo su questa produzione che, come sappiamo, riesce a farsi strada nel mondo dello spettacolo dal vivo con molta difficoltà. In particolare, a Cherasco si vuole riflettere sui temi che affollano la drammaturgia under 30 perché “parlano di cose importanti”, “parlano di noi!”, ribadiscono gli organizzatori. Come panoramica sulle scritture giovanili, infatti, il festival centra il bersaglio: ospita compagnie variegate sia per quanto riguarda le tematiche che la formazione dei gruppi, fino alle scuole di provenienza: si apre la sera di venerdì con Il buio non è tenero della compagnia Il turno di notte, sabato vanno in scena Operazione Miro con Maperò e Venire al Mondo di Ensemble Teatro, chiudono l’iniziativa Sciaboletta di Alessandro Blasioli e Gummy di Camilla Bassetti, regia di Emily Tartamelli.
Oltre lo spettacolo, il festival cerca di aprirsi, di necessità virtù, al pubblico della città di Cherasco e zone limitrofe, con dibattiti pomeridiani in cui gli artisti possano condividere le fasi della loro ricerca, gli argomenti di loro interesse, le condizioni in cui esercitano il lavoro e, soprattutto, i desideri e le aspettative future in quanto artisti. Il problema si riscontra perlopiù qui, com’è ovvio, nel pubblico, in quanto permane la difficoltà di coinvolgere un numero consistente di ascoltatori nel pomeriggio e di spettatori nelle serate. Ma il problema è alla radice, perché la scelta di una città come Cherasco è dovuta alla difficoltà di inserirsi nella realtà già satura dello spettacolo torinese, dove artisti e organizzatori vivono la stessa difficoltà a operare, per ragioni che ognuno nella sua esperienza ha incontrato e che vanno dalle più semplici, un’offerta sproporzionata rispetto la domanda, fino alla scelta ripetuta dell’usato garantito operata dalle reti di produzione e distribuzione che temono di rischiare con nuove e più incerte realtà; in mezzo, una generale scarsa solidarietà tra gli operatori di quest’ambito. Il problema è ben profondo e per nulla relegato alle scelte dei singoli, il nodo da sciogliere così intricato al punto che ogni semplificazione finirebbe per essere impropria.
Ma è proprio su questo punto che le occasioni di dibattito, se non incontrano la curiosità dei potenziali spettatori, possono essere validi momenti di scambio tra artisti e organizzatori per individuare bisogni comuni, punti di vista condivisibili ed eventuali soluzioni. L’entusiasmo con cui i giovani artisti producono le loro creazioni e l’infaticabile lavoro dei nuovi organizzatori sono strumenti più che sufficienti per potersi attrezzare in modo autonomo, immaginare insieme delle forme di produzione e distribuzione diverse rispetto ai modelli diffusi e possono condurre a immaginare motivi ulteriori nella collaborazione che non il semplice proposito di far incontrare la domanda all’offerta. È su questo elemento organizzativo, sull’assenza di una visione d’insieme, di ragioni ulteriori al semplice distribuire spettacolo, che l’operazione risulta ancora acerba.
In sede di dibattito è frequente che emerga, soprattutto negli ultimi anni, la necessità degli artisti di essere riconosciuti in quanto lavoratori, al pari delle altre professioni. La questione è relegata perlopiù alla legge e, di conseguenza, alla garanzia di un reddito (che comunque dovrebbe essere esigibile pure per chi non lavora); eppure, un primo passo per riconoscersi come professionisti, potrebbe essere di natura artistica, ovvero saper portare un discorso stilistico e di ricerca che sappia inserirsi nella tradizione o contro la tradizione, condividere con i colleghi i motivi alla radice della propria pratica registica e attoriale, i gusti estetici e le istanze che stanno alla base del lavoro. Anche così l’occasione di dibattito può diventare uno strumento di crescita in comune tra artisti e organizzatori, per inserirsi, passo a passo, nella storia del teatro, e dunque farsi riconoscere come legittimi eredi. Ma anche qui il nodo è intricato e non basteranno poche battute a scioglierlo. Due spettacoli ospitati all’iniziativa possono però mostrarci alcune sfaccettature del problema, perché è la loro drammaturgia, questo il focus di Lumaca 3.0, a sottolineare due diverse condizioni critiche e un valido approccio alla messinscena su cui vale la pena soffermarsi.
Maperò, andato in scena sabato pomeriggio, è l’opera di e con Luca Catarinella, Martina Michelini e Bruno Orlando, che sotto il nome di Operazione Miro realizzano una drammaturgia a sei mani. Vediamo tre amici condividere lo stesso spazio multiforme: una sala prove, un salotto e un balconcino dove stendere al sole Se questo è un uomo e uno straccio d’Infinito; nell’ininterrotto dialogo li ascoltiamo condividere uno stesso spazio mentale, le stesse inquietudini e gli stessi desideri opachi, perché coperti da veli e veli di opportunismo; ciò che li unisce, infatti, è uno stesso spirito di adattamento che prende la forma di religione: “ipocrisia, sia fatta la tua volontà”, così pregano. L’adattabilità della scena, realizzata con due bancali, uno stendino e poco più, è la stessa comodità che ci viene dall’ipocrisia: poter modellare le proprie e altrui debolezze senza mai dover cambiare; ma, fuori dai moralismi, è anche un’attitudine necessaria per muoversi nel mondo quando la realtà si presenta piena di ostacoli, come può esserlo per una giovane compagnia: come pagare e poi trasportare una vera scenografia nei teatri di provincia? I tre aprono la porta sulle storture personali e di generazione, riescono a intrecciarvi le proprie aspirazioni in un discorso sul teatro, il tutto stando sulla soglia fra personaggio e performer: scoprendosi, svelano una specchio che riflette l’immagine del pubblico, e in questa immagine leggiamo l’assurdo di un gruppo che non ha ragioni per stare insieme, l’assenza di una reale condivisione, un dialogo muto. Maperò risulta un lavoro organico perché problematizza l’urgenza di esprimersi senza darla per scontata, il che è forse quanto più importante, e coraggioso.
Sciaboletta, la fuga del re di e con Alessandro Biasoli condivide con il gruppo Operazione Miro la stessa ambizione a fare del teatro un gesto unico che parte dalla scena, un’urgenza. In modo diverso però, perché Biasoli racconta una storia che apparentemente non ci riguarda – la fuga del re Vittorio Emanuele III da Roma verso Brindisi – collocata in un tempo lontano, con personaggi stereotipi e medaglie al valore, eppure, il presente emerge nella capacità del performer di abitare una scena popolata da decine di personaggi e incarnarli tutti, in un monologo-fiume interrotto solo dagli stati riflessivi del Vittorino, il re che non raggiunge il metro e sessanta. La maestria dell’attore lascia stupiti al punto da parere un esercizio di stile, e la domanda sorge spontanea: perché raccontare la fuga del re? Forse perché questo re ha un vizio che ci fa ridere: nei momenti di difficoltà si addormenta; è così, dice, che è scivolato incolume lungo il ventennio fascista. Allora anche questo Vittorino sa essere uno specchio e ben profondo: l’immagine di noi spettatori che, forti della nostra narcolessia, attendiamo da chissà quanti decenni che le cose migliorino.