Parlare di se stessi
Attore e regista, Valerio Binasco è uno dei maestri del teatro contemporaneo italiano. Spesso porta in scena testi già nel loro significato più profondo attuali, ma riesce a volte a donargli delle tinte ancora più presenti, che fanno sembrare Amleto “quello della porta accanto”. Il suo doppio lavoro lo stimola a parlare molto con gli attori, facendoli diventare registi dei loro personaggi. Alla base di tutto, ed è anche quello che cerca di trasmettere agli attori, sono una forte emozione ed empatia, che gli permettono di studiare il personaggio partendo dalla domanda “come si sente?” per poi andare nelle parti più oscure del proprio essere. Per lui un attore che resiste alle emozioni è un cattivo attore. L’importante è non scadere in quella che definisce la pratica della “pornografia del dolore”. Non crede di avere la passione per il teatro, ma di essere un appassionato di questa “strana arte” che gli permette di fare il teatro.
“Il teatro è sempre rinato con la società che cambiava continuamente. L’unico modo che ha avuto questa bestia teatrale per poter resistere così tenacemente è che ha saputo cambiare e uno dei cambiamenti più interessanti, per me, è che è diventato un luogo dove le persone vanno a vedere la vita delle persone e si commuovono. Sì, il cinema lo sa fare meglio per tutta una serie di ragioni, ma gli manca una cosa che il teatro condivide solo con lo sport: accade. Il cinema è già accaduto. L’arte dell’attimo presente è il Teatro.”
Valerio Binasco
Valerio Binasco è un artista oggi molto conosciuto. Ma come sono stati i tuoi inizi?
Sono tanti i progetti che mi hanno bocciato in passato: bussavo alle porte, inviavo fax (c’erano i fax all’epoca) e cercavo di farmi dare ascolto, ma nessuno me lo dava. È stato un caso che sia accaduto. Penso che esista una sorta di sfera divisa in 4 parti. Le prime due sono vocazione e talento. Sarebbe perfetto se la quantità di talento fosse uguale a quella della vocazione. Ma a volte si ha poco talento e tanta vocazione, e allora hai qualche chance. Se hai tanto talento e poca vocazione diventa difficile. Ma questo non basta, bisogna avere carattere, che ti permetta di fare la cosa giusta al momento giusto, e poi fortuna. Cosa significa? Ti faccio un esempio. Mentre facevo le prove a casa di Carlo Cecchi per Finale di partita, suona il campanello. Lui mi aveva chiesto di fingere che non ci fosse e dalla finestra parlo con Spiro Scimone e Francesco Sframeli. Avevano scritto un testo che volevano fargli leggere e, da buon empatico, li invito a salire. Carlo si convince e finita la lettura di Nunzio e fatta qualche telefonata dice che avrebbero debuttato all’imminente Festival di Taormina. È un fatto di fortuna! Vado avanti. Il terzo atto Carlo non lo poteva montare. Lo fece provare a me. È stata la prima volta che facevo il regista. Avevo tanto talento, tanta vocazione, carattere e molto culo. Quindi, bisogna tentare tanto, incazzarsi poco e sapere che facciamo parte di questa strana sfera.
Fino al 30 ottobre vai in scena al Teatro Gobetti con Dulan La Sposa perché la scelta di questo testo?
Sono anche ragioni di ordine pratico. Negli anni ho insistito molto sul ri-incontro con i classici e ho pensato che servisse fare un testo contemporaneo. Oltre al fatto che i teatri italiani sono fortemente consigliati da parte del Ministero della cultura di fare opere di drammaturgia contemporanea e di autore italiano vivente. Abbiamo pensato di scegliere un testo con temi attuali come il razzismo, il femminicidio, l’integrazione. Temi più stimolanti per me, anche perché trovo che la drammaturgia italiana sia molto indulgente sulla forma della scrittura e sulle idee sul teatro, meno sulla storia da raccontare. Questa mi è sembrata una commedia scritta in modo molto semplice, ma con forti temi sociali e psicologici.
Il tuo ruolo nello spettacolo è quello di un uomo abietto, malato. Un uomo che dice di amare due donne e forse lo dimostra solo avendo il fetish per i loro piedi, poiché poi le maltratta e nonostante questo, loro continuano a volerlo vedere e avere come un marito. Dici che il teatro è l’arte dell’attimo presente e che l’attore in scena sta parlando di se stesso, facendo diventare il personaggio una metafora di quella parte. In questo personaggio qual è la parte di te che sta parlando?
La parte di me che parla è l’amore malato. Sono stato qualche volta oggetto e qualche altra volta soggetto di un eccesso di trasporto per qualcuno e ho coltivato delle fantasie sessuali molto punitive e violente. Mi sono lasciato andare dando spazio al Maschio ferito dentro di me, che nella mia vita non ha mai preso la parola. Non c’è mai stato neanche un amore che passasse attraverso la sessualità, ma sempre una sessualità che passava attraverso l’amore… il percorso inverso forse non me lo sono mai concesso, ma c’è una parte dentro di me che ha voglia di violenza, di brutalità, di impunità e di possesso e a quello ho dato voce.
Abbiamo parlato di autori. Gli ultimi tuoi spettacoli sono testi di Eschilo e Shakespeare, con un linguaggio totalmente contemporaneo, e in questa stagione del Teatro Stabile porterai anche Pirandello. Qual è il tuo rapporto con gli autori?
Mi pongo esattamente come un ladro affamato si pone nei confronti di un supermercato. Se questo autore ha una storia che mi sollecita delle immagini, nelle quali voglio entrare, me la prendo e la interpreto io. A volte ci sono degli studi critici che ti permettono di scoprire che dentro un autore ci sia altro. Raramente mi hanno stupito, perché il mio è un rapporto di nervi e non mi serve che qualcuno mi spieghi cosa ci sia. Invece, Auden nelle Lezioni Shakespeariane mi ha stimolato delle immagini fisiche, non intellettuali. Mi ha fatto vedere l’umanità di cui Shakespeare si occupa.
Non c’è il rischio di una interpretazione che snaturi l’autore?
Non c’è un’etica di rispetto dell’autore. L’importante è non fare una cosa orrenda. Puoi portare in scena un autore e lavorare insieme a lui. Non sarà lui, ma hai fatto una cosa emozionante. Il problema non è sporcare il linguaggio di un autore, ma fare una cosa orrenda. È l’unica linea da non superare con gli autori. Non possono sentirsi i più forti.
In quest’epoca, il teatro è in una profonda crisi tra finanziamenti che faticano ad arrivare, tempi di prova sempre più brevi e in platea sempre più teste bianche. Secondo te, cosa si potrebbe fare per riportare il teatro alla sua grandezza sotto tutti i punti di vita? Come lo vedi il teatro del futuro?
Sono pienamente immerso nel teatro del presente e non sono capace di staccarmi da quell’evento che mi fa stare la sera insieme a della gente che ha ancora bisogno del teatro. Bisogna fidarsi del teatro e lasciare che faccia tutto lui. Ci penserà lui ad inglobare degli elementi che nascono nella crisi che lo sta uccidendo, facendoli diventare parte della sua vitalità. Se fossi un legislatore erogherei più soldi e darei molti meno vincoli produttivi e gestionali. Ma non sono un visionario. Penso che dobbiamo affidarci e sperare che prima o poi arrivi qualcuno del Ministero che renda molto più facile la vita dei teatri stabili e delle compagnie private. Averci trasformati in aziende produttive rende la nostra vita davvero difficile.
Federica Mangano