Scritto da Rainer Werner Fassbinder nel 1975 nel corso di un unico viaggio aereo (così si dice, almeno), I rifiuti, la città e la morte suscitò scalpore a causa dei pesanti temi trattati, e venne quasi immediatamente censurato, cosicché la prima messa in scena tedesca del testo è avvenuta soltanto nel 2009, a trentaquattro anni dalla sua stesura e a ventisette dalla morte del suo autore.
In occasione della 27eisma edizione del Festival delle Colline torinesi, il regista Giovanni Ortoleva lo ha fatto rivivere sul palcoscenico del teatro Astra, il 18 ottobre 2022.
Si comincia con una didascalia: “Sulla luna, giacché è inabitabile quanto la terra, anzi, per meglio dire, quanto le città”.
La superficie lunare, in questo caso, è quella di Francoforte nella Germania divisa del secondo dopoguerra, un paese che fatica a fare i conti col suo recente passato e a costruirsi un futuro. In un ambiente degradato composto da prostitute, criminali e opportunisti, seguiamo le sventure di Roma B., una delle tante donne che tenta di sopravvivere un giorno dopo l’altro vendendo sé stessa a uomini indifferenti, oltretutto con poco successo. La sua fortuna sembra svoltare quando a lei si interessa il Ricco Ebreo, un imprenditore che ha fatto fortuna con la speculazione edilizia, che la prende con sé e la ricopre di denaro, anche se il cambiamento è solo apparente.
È un’umanità becera quella descritta da Fassbinder, una specie animale il cui linguaggio è quello del sesso, della violenza e del denaro, immersa in un mondo spregevole che rende spregevoli le persone che vogliono sopravvivergli. È la Germania vittima di sé stessa, deformata dalla guerra, venduta alla speculazione, una rovina che cerca di ricostruirsi, portandosi addosso lo strascico della distruzione che si fa cicatrice visibile su ogni personaggio. Tutto questo è incarnato nel Ricco Ebreo, che solo con questo nome viene identificato per tutta la durata dello spettacolo, e che sembra dimostrare una penosa consapevolezza del suo ruolo: “In questa città io compro vecchie case, le faccio demolire, ne costruisco di nuove e le vendo a buon prezzo. La città mi protegge, lo deve fare” dice alla protagonista, durante un momento di vulnerabilità. “Certo, nessuno apprezza particolarmente quello che stanno autorizzando, ma l’idea non è stata mia, c’era già prima che io arrivassi. Non me ne deve importare nulla se i bambini piangono, se i vecchi, se i malati soffrono. Non me ne deve importare nulla”. È solo una delle facce della medaglia, quella ricca, benestante, a cui la guerra e la persecuzione sembrano quasi aver giovato nel grande schema delle cose (una delle principali cause di censura del testo furono le accuse di antisemitismo proprio in riferimento a questo personaggio). L’altra faccia è Roma B., la prostituta dei bassifondi. Ma la sostanza è la stessa per entrambi. Con estrema freddezza, Fassbinder ci mostra la sua visione del mondo.
Nella sua messa in scena, Ortoleva sembra voler far proprio un approccio estremamente stilizzato, forse per meglio trasporre l’alienazione che la “luna” proietta sui suoi abitanti. Al centro del palco, senza quinte di sorta, è piazzato un rialzo a forma di croce, un simbolo contraddittorio, con forti connotazioni religiose (risaltate anche da un canone che viene intonato all’inizio della rappresentazione), ma che funge anche da passerella dove i personaggi sfilano e mettono in atto le azioni più discutibili. La contraddizione scorre in ogni fibra del dramma, nei personaggi del Ricco Ebreo e di Roma B., ma anche in quello di Franz B., fidanzato pappone della protagonista che, a suo dire, la picchia perché la ama, e che presto si scopre essere omosessuale; scorre soprattutto nel personaggio del signor Muller, padre di Roma, che si esibisce come travestito in un night club ma che, in un dialogo con la figlia, rivela il suo passato di carnefice nazista (“Non stavo a curarmi dei singoli individui che uccidevo. Non sono un individualista. Sono un tecnocrate”) e aspetta con pazienza un imminente ritorno del fascismo. Se il Ricco Ebreo rappresenta il futuro della Germania, il signor Muller ne rappresenta il passato, ed entrambi guardando all’altro con una forte vena di disprezzo.
Anche le azioni in scena sono marcate dalle contraddizioni. In un angolo del palco, davanti ad un microfono, il Piccolo Principe, assistente del Ricco Ebreo, funge anche da narratore, leggendo ad alta voce le didascalie, annunciando personaggi e cambi di scena. Ma le azioni che descrive talvolta non avvengono come segnate sulla pagina. Laddove la didascalia indica una carezza o un bacio appassionato, ecco che i personaggi fissano lo sguardo a terra ed escono senza dire una parola, quasi come fossero consci della loro natura e si rifiutassero di deviare da essa, ma anche come se la loro natura gli creasse imbarazzo. E come a voler sottolineare la molteplice natura di ogni individuo, Ortoleva fa interpretare diversi personaggi agli stessi attori, spesso e volentieri nella stessa scena, creando fin da subito dei botta e risposta in forma di monologhi che lasciano un effetto straniante sugli spettatori. Lo straniamento sembra essere il modo più efficace per mettere in scena un testo simile, un modo forse anche utile a schermare almeno un poco gli spettatori dalla bieca realtà che si sta rappresentando.
Sembra essere tutto un vicolo cieco senza via di fuga. Alla domanda “Come si immagina il futuro dell’umanità?” Fassbinder rispose: “Il passato non esiste, nemmeno il presente, quindi nemmeno il futuro”.
Secondo Ortoleva, però, nel lavoro di Fassbinder si può intravedere, sotto tutto il pessimismo, un vago barlume di speranza, che non arriva mai ad esprimersi pienamente ma si avverte in lontananza: il desiderio ingenuo di un mondo migliore, il desiderio di trovare qualcosa di bello nel marciume.
In un intenso monologo prima di abbandonarsi al desiderio di morte, Roma B. grida a Dio il suo dolore: “E se cantassi canzoni che si oppongono all’abisso, sarei una donnaccia che divora il cervello di scimmie vive. E se non lo faccio, lascio che loro divorino me. Bisogna essere come gli altri pretendono, altrimenti si è completamente persi, andati senza speranza. Io non voglio più vivere questa vita, Dio”
Nell’inabitabile superficie lunare che è la città, l’indifferenza sembra l’unico modo di andare avanti, per non farsi scalfire dal dolore.
“La città diventa ogni giorno più grande. E gli uomini che la abitano sempre più piccoli”.
Edoardo Perna
di Rainer Werrner Fassbinder
traduzione Roberto Menin
regia Giovanni Ortoleva
scene e costumi Marta Solari
realizzazione costumi Daniela De Blasio
sarte Rossana Cavallo, Rocio Orihuela
movimenti di scena Leda Kreider
musica Pietro Guarracino
disegno Luci Andrea Torazza
fonica Massimo Calcagno
costruzioni Giovanni Coppola
assistente alla regia Gabriele Anzaldi
assistente volontaria Federica Balletto
Produzione Fondazione Luzzati Teatro della Tosse
coproduzione Theaterdiscounter
in collaborazione con Barletti /Waas e ITZ – Berlin
si ringrazia Goethe Institut Genua
con Marco Cacciola, Andrea Delfino, Paolo Musio, Nika Perrone, Camilla Semino Favro, Edoardo Sorgente, Werner Waas