“UN OGGETTO DINAMICO E UN PÒ BIZZARRO“
Dal 13 al 15 ottobre, per il Festival delle Colline Torinesi, è andato in scena all’Off Topic, Queer Picture show. In scena Giovanni Anzaldo diretto da Irene Dionisio. Firma la drammaturgia, oltre alla regista, Francesca Puopolo. Dopo la prima, abbiamo colto l’occasione per intervistare Irene Dionisio.
Se si pensa al queer core si pensa alla rivendicazione di essere diversi, punto di partenza su cui si basa gran parte della produzione di registi di questo movimento. Ad esempio Bruce Labruce non manca di fare un post con festeggiamenti ogni volta che un suo film viene censurato. È un modo completamente diverso di intendere l’inclusione LGBTQ+. Quale pensi sia il futuro anche in termini teatrali e cinematografici della rappresentazione? C’è ancora bisogno dello shock?
Non credo che lo shock sia “il cuore della questione”. Penso che sia, più che altro, il fatto che in questo momento il decidere, attraverso un’opera teatrale, cinematografica legata proprio al mondo dell’arte contemporanea, rappresenti un modo per andare oltre dei codici. Sulla base di questo si può anche prevedere una “mancanza di consenso”. Questa è una delle dinamiche che a mio avviso è insita proprio della realtà LGBTQ+. Anche per me personalmente quando ci siamo interrogate con Francesca Puopolo, che firma insieme a me la drammaturgia, è venuto abbastanza naturale chiedermi implicitamente come volevamo raccontare questa storia. Ci siamo dette che doveva essere un oggetto dinamico ed anche un po’ bizzarro, e riuscire in qualche modo, a non essere etichettato. È stata naturale la commistione sorta da quello che volevamo dire, non ci siamo precluse strade o possibilità. Abbiamo deciso di permetterci, coerentemente con quello che volevamo dire, delle contaminazioni.
Ne parlavamo ieri, durante l’incontro al teatro Gobetti, anche per quanto riguarda l’uso dell’intelligenza artificiale che diviene incoscienza digitale. Allo stesso tempo visione e vox populi che cambia quello che accade in teatro e diviene un mostrare che cosa si pensa, funge da attivatore per il considerare il proprio essere, giudicante o meno, riguardo a qualcosa. Abbiamo pensato che, vista la complessità di quello che volevamo raccontare, non potevamo che avere una difficoltà nel modo di raccontarlo.
Quindi se mi chiedi se per me e importante lo shock, ti dico che per me è più importante ragionare sul fatto che siamo liberi e che quindi molto spesso quando si impongono dei codici è giusto conoscerli, comprenderli ed accettarli, in alcuni casi. Nel mondo artistico ha un valore lo staccarsi dal principio di realtà, se si capisce che si è qualcos’altro, allora ci si allontana dalla possibilità di rimanere imbrigliati. Credo che questo occupi una posizione centrale, più dello shock.
Se poi questo procuri shock, sta allo spettatore e al suo grado di desiderio, decidere di farsi, o meno, shoccare.
Tornando a Bruce LaBruce, ricordo la proiezione di The Misandrist alla Berlinale. Ricordo le reazioni assolutamente shoccate di fronte a un film che personalmente ho trovato geniale, per le tante sfumature inserite di pancia e per un attraversamento di generi continuo, incessante. Quello shock mi ha fatto tanto pensare ma io non sono stata scioccata, lui ha sempre detto di essere libero, questa libertà si estende anche allo spettatore ed alcune persone si sono scioccate.
Abbiamo visto Orlando in scena attraversare, come nel romanzo della Woolf, varie epoche e momenti storici, ci sono altre icone letterarie che hanno influenzato Queer Picture Show?
In realtà la letteratura aveva già germinato dentro il lavoro di Sally Potter. Da un certo punto di vista noi abbiamo ripreso la forza di un corpo Queer che adesso tutti osannano. Questo corpo, nell’immaginario comune, è diventato alla moda come proprio quello di di Tilda Swinton, che all’epoca invece era qualcosa di assolutamente mai visto. Il corpo della Swinton, forse non era ancora stato compreso nella sua forza. Giustamente, Giovanni Anzaldo ha un approccio diverso. Abbiamo desiderato ripercorrere quel personaggio con il suo excursus lineare, a livello storico e anche dal punto di vista filologico e cronologico, restituendolo attraverso un certo tipo di fisicità mascolina. Questo ci ha permesso, secondo noi, di non andare di nuovo verso una fisicità come quella della Swinton, cioè andare a replicare quello che abbiamo già visto, ma ci ha consentito di fare un esperimento. Conoscendo l’attore Giovanni Anzaldo, le sue peculiarità, la sua forza, la sua voglia di mettersi in gioco rispetto al progetto, anche a livello di movimento sulla scena, abbiamo valutato che intraprendere questa strada sarebbe stata un ottima scommessa.
Rispetto alla tua domanda: sicuramente quello che viene ripreso dalla letteratura è il desiderio di riprendere gli scritti che, secondo me, hanno molto a che fare con la realtà di genere della Woolf. Non solo, questo lascia un ampio spazio di indagine nei confronti di quella che è la commistione dei generi fatta dalla Potter. Trovo che questi due elementi siano incastrati benissimo nel lavoro, in quello che è stato il cucire insieme momenti storici differenti.
Quindi è stato un po’ come assorbire dal serbatoio emotivo di quei due lavori e portarlo in una direzione altra grazie alla nostra riscrittura. La scrittura è stata una parte molto lunga perché il processo è stato molto pensato ed ha avuto anche tanti momenti di rifinitura, molti dei quali avvenuti in scena durante le prove. Tanti i tagli anche dovuti al desiderio di essere più lineari nel raccontare. La letteratura è stata di grande spunto, ma poi lo stile, devo dire, si è cristallizzato. Con il processo a due mani, con Francesca, abbiamo trovato un modo per approcciarci alla scrittura in maniera diretta e chiara.
Quello di Giovanni Anzaldo è sempre stato pensato come un monologo, o c’è stata una fase della scrittura in cui si era pensato ad un’interpretazione che fosse più corale?
È sempre stato pensato come un monologo. Avevamo pensato proprio di avere in scena un personaggio che forse camaleontico, che vivesse in diverse vesti e che fornisse, attraverso queste diverse vesti, un diverso squarcio di realtà. Naturalmente, tutto questo, attraverso una fisicità che fosse diretta, riconoscibile. Siamo proprio partiti dal narratore unico che, ovviamente, racconta attraverso la realtà la propria corporalità. Abbiamo scelto di fare avvenire questo, attraverso quelle che nel linguaggio cinematografico vengono definite delle vere e proprie soggettive. Attraverso queste, noi percorriamo la percezione, che si ha del e soprattutto sul corpo, da Stonewall fino al codice Hays.
Quali sono stati le fasi principali e iniziali che hanno portato a questo percorso all’interno della cinematografia sia da parte tua che da parte dell’attore Giovanni Anzaldo?
Il lavoro è stato questo: dopo una quinta stesura della drammaturgia, siamo andati in prova per quasi un mese, ed in quel mese con Giovanni abbiamo imbastito, quadro per quadro, quelli che erano i movimenti. Questo abbiamo cercato di farlo emergere attraverso delle celebri scene. La citazione di uno dei momenti più drammatici recitati da Tom Hanks in Philadelphia, brano dove si tratta la fine di un percorso di malattia come quello dell’AIDS, fino ad arrivare a Priscilla. Questi due momenti a livello di corporalità e fisicità e raccontano qualcosa di molto più ampio, attraversano anche un momento specifico a livello sociale Il cantare di Tom Hanks, come il balletto di Priscilla nel deserto, sono dei momenti che non solo ricordiamo a livello cinematografico, ma sono degli spazi che ci hanno permesso degli atti di liberazione.
Il cinema è una forma di rappresentazione e auto-rappresentazione ma anche di catarsi. Come regista cinematografica mi interessava tantissimo questo aspetto, Il cinema è quello che ho sempre fatto, perché è sia politico che sociale. Il New Queer cinema è tutto questo. È molto avanti rispetto all’uso dei generi, rappresenta una libertà gioiosa, la sensazione di come le persone si siano sentite rispettate.
Priscilla ad esempio ha liberato un’intera generazione e non solo una generazione della realtà LGBTQ.
Scoprire, nello studio nel percorso, che questo avveniva in un determinato momento è stato ovviamente ancora più potente
Tornando alla questione di Giovanni, abbiamo proprio deciso di usare per ogni momento storico e sociale una pellicola che rispecchiasse quel momento. Ovviamente gli spunti per il monologo arrivavano anche da altre pellicole che venivano comunque citate, A partire dalle pellicole scelte per essere proiettate, andavamo a lavorare sulla gestualità che doveva essere iconica. Da quello abbiamo imbastito tutto il lavoro. Passato questo mese nel quale abbiamo lavorato proprio a questo, abbiamo costruito tutta la parte tecnica, video e audio che è stata poi la parte pensata anche in precedenza. Una settima l’abbiamo dedicata unicamente a quest’ultima parte. Finito questo mese e mezzo, abbiamo fatto le prove per il debutto che purtroppo è stato sospeso per ben tre volte a causa del covid. Lo spettacolo era pronto dal 2019. Durante le prime riaperture ho deciso di aspettare invece che far uscire il lavoro nell’estate 2020, perché ho pensato che sarebbe stato sacrificato. Devo dirmi fortunata, oltre che molto felice, che sia stato presentato all’interno del Festival delle Colline Torinesi che per me è uno dei Festival che più amo.
Il lavoro con Giovanni è quindi durato mesi. Nonostante fossimo stati fermi per due anni lo spettacolo in realtà da quando abbiamo ripreso è stato pronto in due giorni.
Si può notare come anche nella scelta di pellicole usate in scena ci sia un dislivello con la rappresentazione lesbica. Voleva essere una denuncia contro un’industria ancora estremamente fallocentrica?
Nella sezione in cui si parte da Helmut Berger e arriva a Marlene Dietrich si voleva raccontare proprio questa dinamica, tant’è vero che il lesbismo viene sempre affiancato in qualche modo o alla cattiveria o all’uccisione. Insomma ci sono una serie di dinamiche che vengono riportate da quel testo che non è stato più affrontato andando avanti nel tempo. Nel senso che, secondo me, c’è stato un superamento della questione con l’ultima fase che è quella di un certo tipo di cinematografia queer francese. Nello spettacolo viene anche citato Le Garcon Sauvage di Mandico o ancora Un couteau dans le coeur di Gonzales.
Questo aspetto non è stato del tutto assimilato, tant’è vero che anche al festival Lovers ogni anno si vede una rappresentazione di cinematografia lesbica che spesso è il 10% rispetto all’intera produzione omosessuale e quindi decisamente più fallocentrica.
Nella scelta della filmografia, per il nostro lavoro, infatti questa cosa non è del tutto presente. A riguardo di ciò, è stata nostra intenzione inserire tale riflessione nella scrittura. Questo attraverso il punto di vista mio e di Francesca, in quanto donne in primis, che abbiamo pensato potesse essere rispecchiato anche dal lavoro di drammaturgia fatto per la parte di Stonewall.
Quindi, secondo noi, in quest’ultima fase, quella anche più liberatoria, abbiamo cercato di tenere il focus su questo, anche se non bisogna pensare che la lotta sia finita perché il rischio è quello di cadere dentro un capitale che ti accetta perché sei un consumatore forte oltre che una potenziale merce. E se la realtà LGBTQIA+, a livello internazionale, continua a subire discriminazioni e violazioni dei diritti, questa discriminazione ovviamente non c’è dal punto di vista del consumo. In più, ogni volta che c’è un movimento retrogrado nella storia le prime persone che iniziano a perdere i propri diritti sono donne uomini neri, la realtà LGBTQIA+ e, come stiamo vedendo, tutto ciò che è intersezionalità poi viene soffocato.
Sempre attuale è il tema dell’intersezionalità teorizzata Kimberlé Crenshaw, c’è bisogno di una maggiore stratificazione delle minoranze a livello di rappresentazione?
Credo che sia una questione di immaginari. Fino a quando ci sarà un immaginario di riferimento etero patriarcale e il punto di vista altro, rimane mainstream, ovvero che non si è mai imposto come qualcosa di livello più rilevante, allora resteremo ancorati a quella situazione. Adesso ci troviamo in quella fase dove si dice : “questo immaginario si deve imporre”. Ovviamente trovo l’imposizione, da un certo punto di vista funzionale alle dinamiche convulse di politically correct, dall’altra parte ne dobbiamo vedere i lati positivi. Questa imposizione, ad un certo punto, nell’immaginario, probabilmente entrerà radicandosi. Naturalmente se non si va dall’altra parte, ovvero ad alimentare una cancel culture. Lì poi si va ad alimentare un terreno che diventa nocivo per quelle che sono le lotte culturali fatte negli anni. Ma quella imposizione che diventerà negli anni immaginario , ci porterà alla nascita di un altro movimento storico, ad un’altra dinamica che noi non possiamo prevedere. Quando si parla della Schwa, personalmente non riesco ad utilizzarla sempre. Molto spesso la utilizzo, adoperandola per i saluti iniziali. Per me è una questione di civiltà, io cerco di utilizzarla. Dall’altra parte so che il mio modus operandi, che è anche dettato da un habitus, non l’ha sempre utilizzata e quindi, adesso, proprio perché è un atto di civiltà, la voglio usare. Quello spazio in cui questo non avviene con naturalezza, non ci deve fare paura. Dobbiamo, con calma cercare di far capire che, non solo, è un atto di civiltà ma anche un atto di impegno. Deve essere uno sforzo per includere un moto d’animo, e non qualcosa che deve avvenire naturalmente. In alcuni casi questa naturalezza c’è in altri no, la mia visione è che non dobbiamo avere paura di questo luogo di dibattito. Personalmente ho vissuto questa situazione quando sono diventata direttrice artistica del Lovers film festival, come etero. Sono stata attaccata e mi sarei potuta irrigidire ma no l’ho fatto, ho capito quella diffidenza. Il posizionarsi e capire dove lo si fa, ti rende consapevole che ad un certo punto arriveranno delle critiche. Tutto questo deve essere visto come un elemento, come un luogo di dibattito. Nel momento in cui è finito il mio mandato al Lovers e scoperta qual’ era la mia posizione in relazione della nuova direttrice del Lovers, sono stata contentissima che fosse una donna trans. La direzione di Vladimir Luxuria rappresenta un’ulteriore passaggio sociale e politico di quello che era stato il festival. Noi non siamo solo individui, incarniamo delle comunità, dei movimenti storici. Siamo una realtà molto più ampia. Solo se non ci irrigidiamo, anzi se ci mostriamo dinamici nel considerare le diversità, allora penso che lì potremmo fare dei passi in avanti. È ovvio che tutto questo avviene solo in un rapporto di scambio, di comunicazione. Naturalmente dobbiamo stare attenti alle polarizzazioni che molto spesso arrivano dal luogo delle polarizzazioni per eccellenza qual è lo scambio digitale. Le polarizzazioni alimentano lo scontro, sono insite in un discorso politico fascista. Ogni volta che noi creiamo delle visioni manichee, noi abbiamo una prospettiva fascista. Se invece ci sforziamo ad avere delle visioni plurali, dinamiche, è lì che creiamo un’avanzamento soprattutto a livello comunitario e di cittadinanza. Non è facile mettere da parte la propria individualità però siamo una comunità, composta da altre piccole comunità che si muovono in maniera dinamica. La storia ci ha insegnato che la reciprocità di quello che avviene dipende da determinate questioni e quindi sapere come ci poniamo rispetto a determinate cose è fondamentale.
Andando a indagare in quelle che sono le citazioni presenti nel lavoro si scorge un brano tratto dal film Teorema di Pier Paolo Pasolini. Qual è la motivazione che ha spinto a questa citazione? Vuole essere uno sguardo sulla critica politica che si fa della società o un motivo per indagare le dinamiche di scontro che si attivano attraverso la sua visione della sessualità e dell’omosessualità?
La citazione di Teorema avviene proprio perché nel momento in cui decidiamo di raccontare il periodo del ’68 e soprattutto quello che era il contrasto tra il tema del desiderio dirompente e il tema di una società borghese ancora perbenista, non possiamo prescindere dall’inserire la riflessione di Pasolini. Il volto di Terence Stamp è lo sguardo del desiderio che travolge e distrugge famiglie e prospettive di vita, fino a quel momento delineate. Ciò, nel nostro lavoro, ci serve per entrare e mettere in discussione quelle dinamiche familiari. La famiglia molto spesso è elemento di chiusura luogo, di rassicurazione per ovviare a quella sensazione di horror vacui da cui tutti i personaggi di Teorema saranno assaliti improvvisamente. Per citare Aristotele La cellula infelice della società è la famiglia.
Pasolini rappresenta lo scandalo di questa società contemporanea. La sua corporeità, il viverla in quella maniera estremamente vitalistica, liberatoria, di divertimento, tutto questo e molto altro, erano l’essere di Pasolini. A noi interessava riportare in luce questo spingersi fuori la norma, il desiderio di essere libero nel parlare, nell’agire.
Da studiosa che ha letto Pasolini, che ha visto la sua filmografia, mi sono accorta di quanto noi siamo indirizzati verso una cristallizzazione delle figure. Protendiamo verso una semplificazione bozzettistica che ci rende incapaci di andare oltre.
La dinamicità di Pasolini di cui ci hai appena parlato, sembra essere molto presente nella gestualità, nella mimica, nei movimenti dell’attore, ma anche all’interno dello spazio scenico proiettato e nello stesso tempo proiettante. In che misura questo vuole innescare una riflessione che non parta solo dalle immagini proiettate, ma che trovi nel corpo in scena un motivo per cui indagare?
L’attore è molto vivo, si muove all’interno di uno spazio, per così dire imposto, in maniera dinamica, quasi liberatoria. Come avete potuto vedere lo spazio è circoscritto e si impone sulla corporeità come delle norme. Queste norme non riescono a controllare il continuo fuoriuscire dalle norme stesse dunque dallo spazio che funge da contenitore. L’idea che questa sorta di cubo funga da doppio gioco, attraverso il dialogo tra il pubblico e l’intelligenza artificiale, è un ulteriore modo per farci capire che quel cubo restrittivo lo creiamo noi. L’uso del cinema ci è venuto in contro per farci capire la soggettività del personaggio, le citazioni dei film diventano scenografia, parola, testo perché vengono utilizzate come base narrativa. Il cinema diventa una forma di alienazione. Andare oltre il corpo, incontrare realtà altre.
Sarebbe interessante capire come siete arrivati a concepire il rapporto consapevole tra voce dell’attore e voce dell’intelligenza artificiale. E di come questo rapporto crei a sua volta una triangolazione comunicativa e di scambio con il pubblico.
Il rapporto che abbiamo pensato è dettato da alcune domande che in determinati momenti ci siamo posti. Ci sembrava interessante creare un’interazione, per coinvolgere il pubblico il più possibile. Resta la consapevolezza che la partecipazione del pubblico nello stesso tempo è capire e giudicare. L’interazione è stato un modo per cercare di fare uscire il personaggio dal proprio cubo ma anche per cercare di far emergere da una situazione di neutralità lo spettatore. Metterlo davanti ad una decisione. Questo per noi è stato molto interessante.
Un’ultima domanda. La partecipazione è stata quella aspettata?
Si, anche di più di quella preventivata. Abbiamo notato che l’interesse delle persone ad essere interpellate è stato tanto. È stato divertente scoprire gli sguardi che si sono venuti a creare tra gli spettatori in sala, il loro guardarsi mentre si prendeva posizione. Essere interpellati dall’intelligenza artificiale è un modo per, pian piano, accorgersi che la voce, il doppio gioco siamo noi. Noi siamo nella posizione di poter creare dei dispositivi, ma possiamo anche distruggerli. Questo, inizialmente, doveva essere il messaggio conclusivo. Abbiamo poi deciso di andare verso la creazione di un momento di festa ed è quello che c’è stato alla fine.
Chiara Papera Ungaretti
Michele Pecorino