Per la ventisettesima edizione del Festival Delle Colline Torinesi, la sala Off Topic ha ospitato venerdì 19 e sabato 20 ottobre, Diario di un dolore, scritto, diretto e interpretato dal premio Ubu Francesco Alberici, accompagnato dall’attrice Astrid Casali e con la partecipazione di Ettore Iurilli per la scrittura ed Enrico Baraldi per la regia.
Lo spunto è l’omonimo libro di Lewis, che parla di un lutto dell’autore e di come analizzare il proprio dolore, ed è suddiviso in quaderni, che vengono enumerati davanti agli spettatori. Interessante sapere che il nome originale del libro è A Grief Observed (Un dolore osservato) ed è proprio quello che accade in scena: si esplora il prisma del dolore passando dall’ipocondria ai mali fisici, alla depressione, fino alla perdita di una persona cara, il padre di Astrid. Tutti dolori che vengono legittimati indistintamente.
Il termine “teatro” indica la presenza di un attore, cioè qualcuno che finge di essere qualcun altro (il personaggio) e di un pubblico che guarda l’attore agire davanti a sé in un dato spazio. In Diario di un dolore manca il personaggio e lo si può notare da subito, quando Alberici afferma di avere sempre dei problemi con gli inizi.
“La parte più importante di un testo è l’inizio. Perché all’inizio tu dai le coordinate al pubblico per leggere tutto quello che hai da dire. […] Forse l’inizio è solo un modo per cominciare da qualche parte e poi dire tutto quello che hai da dire.”
Alcune parti della storia sono inventate, prese spunto da testi letterari come Davanti al dolore degli altri di Susan Sontag, Vite che non sono la mia di Emmanuel Carrère e L’invenzione della solitudine di Paul Auster, che hanno suggerito e suggestionato la scrittura, ma sul palcoscenico salgono due attori, due persone, Astrid e Francesco, che in quel momento somigliano di più a due stand-up comedian, perché parlano di come essi stessi provano dolore in una chiave totalmente ironica e leggera. L’ambiente che si crea è ricco di battute, risate, intimo e di condivisione; il pubblico non è estraneo, ma partecipe di un piccolo gruppo di amici con il quale empatizza, viene addirittura accolto con grissini e vino e canta, su richiesta di Astrid, l’Internazionale.
Sulla scena è presente l’autoritratto di Franz Ecke, copertina di un’edizione della rivista Frigidaire. Ecke ha il naso rotto, coperto da una benda che sale fino alla fronte e lascia liberi solo gli occhi e la bocca con un leggerissimo accenno di un sorriso. Francesco è convinto che i due, forse per il taglio degli occhi o la barba incolta (non lo sa nemmeno lui perché), si somigliano.
Ebbene, quella tela e quella somiglianza sono l’allegoria di ogni spettatore, che sente Astrid raccontare di suo padre, si riconosce in quel dolore.
In una condizione sociale e politica come quella dell’ultimo periodo con quasi tre anni di pandemia, che ha anche aumentato il numero di persone con disturbi d’ansia e depressione; una guerra, non solo una, che ha cambiato lo stile di vita di tutti; il cambiamento climatico; la lotta contro il regime da parte delle donne iraniane. Tutto questo da una parte allena l’empatia, ma dall’altra sembra nascondere il dolore del singolo, soprattutto se lo si porta nel “righello del dolore”, misurandolo e mettendolo a paragone con altri dolori, tendendo a sminuire il proprio e a sentirsi in colpa perché “c’è chi sta peggio”.
“Fa più male la depressione o perdere il padre a 17 anni?”
In questo caso, invece, per poco più di un’ora si è “costretti” ad ascoltare, in particolare, il racconto e il lutto di una donna che a 17 anni ha perso suo padre, che era consapevole che stava morendo, ma non sapeva come affrontare “quella volpe che risucchia il plesso solare”, e anche se in forma diversa si è portati a rivedersi in quella sofferenza.
Diario di un dolore è uno spettacolo che abbraccia il dolore e accompagna nel pianto: inizia con Astrid che recita il pianto di un bambino di 3 anni, spiegando anche che da attrice per piangere non ha bisogno di immaginare qualcosa che la smuovi interiormente, lo fa come se fosse un gioco – termine estremamente appropriato se si pensa che “recitare” in inglese si dice “to play” – e finisce con lei che mostra il momento in cui una mattina, mentre copia i compiti di greco, il telefono squilla: la notizia della morte di suo padre (“va bene, grazie, arrivo…”) e il non sapere come reagire davanti a quel dolore.
Federica Mangano