Un palco gremito ed un faro sul pubblico ci hanno introdotti allo spettacolo Hexploitation che le She She Pop hanno presentato lo scorso 25 ottobre al Teatro Astra.
Una scelta inusuale quella di tenere le luci di scena accese, che si è rivelata, però, essenziale dopo aver compreso lo spettacolo per quello che era: un gioco, un dialogo che il gruppo espone sulla propria età e sul proseguimento di un’attività artistica in cui il corpo è assolutamente centrale.
In Hexploitation le She She Pop creano numerosi spazi, quasi il palco divenisse un set cinematografico in cui lo spettatore\voyeur si ritrova inaspettatamente, scrutando pensieri intimi e monologhi plateali.
Le She She Pop, che si autodefiniscono autrici drammaturghe e performer, usano la propria autobiografia come base nevralgica della produzione artistica, quasi un mezzo per il fine ultimo della sperimentazione artistica e la scoperta continua di nuovi commistioni tra i media.
Quello di Hexploitation è un testo che non poteva essere niente di più personale, una cruda (e nuda) analisi della donna che invecchia come strega o vecchia da schernire, vittima più meno consapevole di un occhio capitalista che vede il corpo femminile solo se giovane e bello.
Proprio per non distogliere lo sguardo dal caos barocco del palco il gruppo, che mette in scena solo propri testi in tedesco, ha deciso di non utilizzare come consuetudine l’ausilio dei sottotitoli ma ha fornito l’audience di cuffiette tramite le quali vengono tradotti in simultaneo i dialoghi delle performer. Una scelta ancora più delicata se si pensa che l’opera, pur se non improvvisata, è un continuo botta e risposta fra i perfomer che coinvolge il pubblico completamente. Le She She Pop si sono proposte di esplorare I limiti della comunicazione e superarli, creando un teatro che fosse proiezione di un proprio desiderio di analisi.
Il titolo Hexploitation cita il film del 1962 di Aldrich “Che fine ha fatto Baby Jane?” che segna il ritorno sulle scene di Bette Davis. Un thriller psicologico-horror in cui le protagoniste, due star del cinema sulla via del tramonto, vengono proposte come “psicho biddy” (“vecchiette psicopatiche”) e che segna l’inizio di un genere cinematografico, la “hagsploitation” che non è che il riflesso di una società che dà valore alla donna solo se sfruttabile (exploitation: hag “megera” e exploitation “sfruttamento”) .
Le riflessioni che ne scaturiscono hanno attraversato i temi pregnanti della femminilità e dell’invecchiamento, della necessità femminista di soverchiare l’idea che un corpo che invecchia sia mostruoso. Tutto in maniera leggera ma non di meno densa.
Il primo dialogo ripercorre la trama di Angoscia, film di Cukor del 1944 in cui per la prima volta si parla di Gaslight, pratica spesso usata in relazioni tossiche per indurre il partner a dubitare della propria memoria e percezione così da affidarsi completamente al gaslighter.
Nel corso dello spettacolo le numerose spiegazioni di persuasiva accuratezza storica sono state intervallate da interessantissimi momenti di vera e propria videoarte in cui le performer riprendevano e proiettavano dettagli del loro corpo, tanto occhi e bocche, quanto seni e vulve, ponendosi interrogativi sul proprio futuro.
Le piccole camere che le performer hanno usato in scena sono state lenti di una indagine intima grazie alla quale il corpo è stato elevato, moltiplicato, ingigantito e proiettato fino a circondare il pubblico.
La scena a quel punto diveniva uno smacco al divismo introdotto dalla celeberrima battuta di Norm Desmond: «Mr. DeMille, sono pronta per il mio primo piano!» (Sunset Boulevard, 1950) che anticipava ogni momento di monologo videografico.
La diva protagonista del film si mette di fronte allo specchio, assumendo una posa studiata, osserva il suo volto invecchiato – una versione distorta di come lei vede sé stessa – e lancia un grido raggelante. Questa è diventata un’immagine iconica. Un chiaro riferimento a Speculum, l’Altra Donna, di Luce Irigaray, caposaldo del femminismo moderno in cui lo specchietto de-medicalizzato è usato come metafora di un occhio di cui ci si deve riappropriare.
Metafora più unica che rara all’interno di uno spettacolo che di metaforico non aveva niente, i corpi erano veri, la scenografia chiara e precisa, la musica didascalica, come Young and Beatiful di Lana del Rey intonato da tutte sul finale.
“Will you still love me when I’m no longer Young and Beautiful”
Chiara Papera Ungaretti
Di e Con
Sebastian Bark, Johanna Freiburg, Fanni Halmburger, Lisa Lucassen, Mieke Matzke, Ilia Papatheodorou, Berit Stumpf
Musica
Santiago Blaum
Fotografia e Installazione Video
Benjamin Krieg
Scene
Sandra Fox
Costumi
Lea Søvsø
Assistenza ai Costumi
Lili Hillerich and Mads Dinesen
Consulenza Artistica e Drammaturgica
Laia Ribera Cañénguez
Sound Design
Manuel Horstmann
Disegno Luci
Michael Lentner
Direttore Tecnico
Sven Nichterlein
Supporto Video
Daniela Garcia del Pomar
Produzione
She She Pop
Coproduzione
HAU Hebbel am Ufer Berlin, Kampnagel Hamburg, Künstlerhaus Mousonturm, FFT Düsseldorf, Residenz Schauspiel Leipzig, HELLERAU – Europäisches Zentrum der Künste, Kaserne Basel, Festival delle Colline Torinesi / TPE – Teatro Piemonte Europa.