Maria Alterno e Richard Pareschi spiegano la loro visione dell’ecodramma byroniano
Nella suggestiva area esterna della Fondazione Merz di Torino, i due giovani attori Maria Alterno e Richard Pareschi raccontano il processo creativo che li ha portati, dalle prime ricerche romantiche, ad una moderna versione dell’ecodramma byroniano.
Portano sulla scena del Festival delle Colline 2022 una nuova interpretazione del Manfred, esplorando con originalità la tematica complessa della crisi climatica in corso, tema attuale oggi come nell’Ottocento del Romantic Disaster.
Vi siete confrontati con un testo teatrale molto impegnativo, affrontato precedentemente da Carmelo Bene. Come è nata la vostra idea? Si tratta più di una rilettura o di un’attualizzazione dell’opera?
Richard: Il rapporto con il Manfred di Bene è sempre stato per noi un rapporto affettivo. Siamo entrambi cresciuti guardando la sua interpretazione. Proprio poche settimane fa ricordavamo gli inizi, quando eravamo ancora dei ragazzini, e abbiamo iniziato a conoscere l’opera di Bene… sui sedici, diciotto anni. La sua operazione ha avuto un fortissimo impatto sul nostro amore per il teatro… la volontà di riprendere l’opera si può dire che viene un po’ dall’amore stesso che ci ha sempre legato a questa. Ci siamo sempre detti “Un giorno faremo un Manfred” e ci pensavamo come a qualcosa di lontano nel tempo, dopo anni di carriera alle spalle… qualcosa da sviluppare una volta raggiunta una certa maturità artistica. Forse con una giusta, ci auguriamo, ingenuità, con lo spirito di lanciarci. Abbiamo avuto un’idea, un collegamento. Ed è giunto il momento di fare il nostro Manfred.
Più che una rilettura dell’opera di Bene, si tratta di un’operazione che sentiamo molto vicina alla volontà di Byron: di rappresentazione della sua opera. Doveva essere un’opera, paradossalmente irrappresentabile, come la definiva lui “impossibile per la scena”.
In un periodo storico in cui il teatro faceva della scenotecnica il suo punto più forte e gli spettacoli presentavano in scena, sempre qualche meraviglia… c’erano queste scene dinamiche, si muovevano più volte durante lo spettacolo, le Alpi che passavano sulla scena… si ricercava un impatto un po’… come dire, di straordinarietà. Il pubblico doveva essere sempre a bocca aperta. Lui ha voluto scrivere quest’opera andando contro tutto questo, e lo fa inserendo pochissimi riferimenti come note, che adesso definiremmo “registiche”, pochissimi elementi da drammaturgo, dalle Alpi, Jungfrau, la galleria gotica…accenni, un compromesso lo aveva fatto. Ma già lui aveva immaginato quest’opera per voce, ci doveva essere la voce e uno spazio minimale.
Maria: Sì, voleva che fosse più per una lettura interiorizzata, che quindi fosse irrappresentabile e impossibile per la scena. E anche per questo la nostra scelta è ricaduta sugli schermi: una visibilità ridotta della scena. Di fatto, in quanto spettatore, ascolti e leggi. Abbiamo quindi cercato di rispettare la volontà di Byron, con questa lettura interiorizzata del testo.
Diversi romantici inglesi, Keats, Byron e Shelley hanno messo in poesia questo tema, hanno scritto di quello che hanno vissuto, a livello contemplativo… nessuno sapeva che si stava vivendo questo anno senza estate. Noi oggi sappiamo che stiamo vivendo il riscaldamento globale. Sappiamo tutto e conosciamo il problema. Loro potevano solo contemplare attraverso la pratica della percezione visiva.
Questi paesaggi sublimi, i ghiacciai, che avanzavano alla stessa velocità a cui oggi si riducono… ed è in quel momento che Percy Shelley e Byron si trovavano a Ginevra, sulle Alpi, a Villa Diodati, che era un po’ la loro base, dove spesso si ritrovavano, perché il brutto tempo gli impediva qualunque attività ed è lì che nacque Manfred concepito da Byron, così come il Frankeinstein è stato scritto allora da Mary Shelley. E anche moltissime poesie di Percy Shelley, confluiscono tutte nel nostro precedente lavoro, Romantic Disaster. Lì la poesia sul cambiamento climatico di ieri è relazionata all’attivismo climatico di oggi. I giovani di ieri e i giovani di oggi, il raffreddamento globale e il riscaldamento globale.
Da questa lunghissima ricerca che abbiamo intrapreso nel 2020, anche complice il lockdown… abbiamo avuto del tempo che di solito non si ha per concepire un prodotto artistico. Ci siamo quindi immersi in questi materiali e Manfred è un po’ il secondo step di questa ricerca, ovvero, quello di prendere un testo del 1816, che non sarebbe esistito senza l’anno senza estate, non sarebbe stato scritto… e non sarebbe stato concepito se Byron non si fosse trovato sulle Alpi, in quanto l’ecosistema alpino è fondamentale all’interno dell’opera e si respira: la strega delle Alpi… le scene del Manfred sono ambientate sulle Alpi, a Ginevra. Perché abbiamo deciso di virare verso questo testo?
Perché c’è un cambiamento di rotta nel pensiero di Byron, che con quest’opera esprime un punto di vista profondamente ecologico… noi ci basiamo molto sulla lettura eco critica letteraria: lo studio dei testi letterari in senso ecologico. Per questa lettura eco critica ci siamo affidati alle interpretazioni di Diego Saglia, professore di letteratura inglese all’Università di Parma, e di Timothy Morton, filosofo che ha scritto proprio una lettura eco critica sul Manfred di Byron.
Ci ha colpito come Byron avesse un pensiero ecologico diverso dai suoi contemporanei, anche rispetto agli Shelley e Keats: sviluppa una forma di scetticismo nei confronti delle interrelazioni tra essere umano e natura. È come se in qualche modo andasse verso il superamento dell’antropocene ed è stato molto moderno in questa visione, quasi di un veggente. Sviluppa un pensiero ecologico non ortodosso, non era fiducioso delle interrelazioni tra uomo e natura.
Infatti, nel Manfred le forze naturali e l’essere umano sono entità dialoganti in conflitto. Di fatto nella nostra versione abbiamo ripreso tutte le parti di testo in cui Manfred e le forze della natura sono in relazione, seguendo l’ordine cronologico degli eventi. Il tutto cercando di attenerci a questa lettura eco critica e metterla in scena nel lavoro.
Molto affascinante. L’atmosfera così densa di fumo e i toni purpurei della messa in scena volevano essere un richiamo all’evento dell’eruzione?
Richard: No, in realtà quello che concerne la scena nel nostro lavoro si rifà alla volontà di Byron, quindi volevamo annullare il più possibile la scena.
Maria: Sì, per renderla meno visibile.
Si tratta un tentativo di far vedere solo il fumo… come se fosse il testo stesso il protagonista?
Richard: Esatto… solo questa voce. La parola è realmente la protagonista del lavoro, o per meglio dire, il suono è il protagonista.
Maria: Inoltre, il suono è sia verbale che strumentale.
Avete quindi, in qualche modo, ripreso l’interpretazione di Carmelo Bene dell’opera, come suono e luce.
Richard: Esatto. Diciamo che è lo stesso dialogo, la direttrice principale del lavoro, un lavoro su suono e luce e in questo caso, chiaramente la luce è costituita da moltissime cose… dai micro-fendenti che si possono intravedere e questo permette allo spettatore di immergersi completamente all’interno dei suoni. Volevamo renderlo in qualche modo impossibile alla visione, permettere una visione interiorizzata. Allo stesso tempo è anche il lavoro che abbiamo effettuato sulla musica, soprattutto la Avant- noise… è stato come reference, ispirazione ad un mondo che ci affascina parecchio, quello del live set. È un genere molto in voga in Danimarca, in Norvegia… dove la Avant-noise e l’elettronica di quel tipo sono molto presenti. E molte volte in questi live set, che tra l’altro sono spazi molto simili a quelli che stiamo utilizzando in questi giorni… infatti siamo molto felici per lo spazio che Sergio e Isabella ci hanno riservato, ci è piaciuto fin da quando ci è stato descritto lo spazio a noi dedicato.
Lo spazio è stato funzionale alla vostra scenografia, era quello che cercavate?
Richard: Sì, sì decisamente. E sono questi live set dove spesso c’è moltissimo fumo, come nel Manfred, ricorre molto l’uso di una scala di grigi… tonalità di grigio che la luce bianca con il fumo riesce a creare.
E quindi abbiamo messo insieme, da una parte la volontà di Byron e dall’altra questo mondo estetico introdotto dalla musica che entra, anche in senso drammaturgico nel lavoro… il tutto insieme alla scena, e il rapporto di Schumann e la Avant-noise.
Era a tratti anche disturbante per lo spettatore… volevate dare l’impressione di sopraffazione rispetto all’intensità del suono e della luce?
Richard: Sì è proprio un qualcosa che abbiamo ricercato, quasi “lottato” per ottenerlo, nel senso che è chiaramente una scelta… mettere lo spettatore in una condizione scomoda è in qualche modo un atto di responsabilità… volevamo mettere la parola in un conflitto, che poi è un conflitto interiore che lo stesso Manfred attraversa. Un conflitto con tutto ciò che lo circonda. Lo spettatore diventa in qualche modo Manfred.
…lo spettatore diventa in qualche modo Manfred.
Interessante, si tratta quindi di mettere lo spettatore nella stessa condizione di disagio che provava Manfred?
Maria: Sì, Manfred sta parlando della condizione dell’umanità. È come se fosse ciascuno di noi. L’essere umano in questa condizione ecologica, fisica, esistenziale che stiamo vivendo… un po’ come metterlo davanti ad un problema che ci riguarda tutti in questo senso. E la “scomodità” tra virgolette, in questo senso, stimola maggiormente la percezione dello spettatore, che quindi non è semplicemente osservatore, ma è più coinvolto, in qualche modo fisicamente, dall’uso dei suoni, dall’uso della luce.
Lo spettatore non è più semplicemente un osservatore…
E diventa quindi un’esperienza sensoriale?
Maria: Percettiva, più che sensoriale. Proprio la percezione di ciò che circonda lo spettatore stesso gli fa pensare al proprio modo di osservare quello che vede e quello che sente. In questo senso percettivo… è un esperimento percettivo.
Carmelo Bene ha interpretato il ruolo principale, Manfred. Come va letta la variazione dei ruoli nel vostro spettacolo, perché la scelta della recitazione prevalente della parte femminile?
Maria: Non ci siamo posti un problema di genere in questo senso. La voce di questo Manfred è universale e non ha genere, è più una condizione umana che andiamo ad analizzare. Poi per quanto riguarda, come unica distinzione, la voce degli spiriti e la parola di colore differente sugli schermi, va a riprendere una lettura che negli anni è stata fatta, dal punto di vista critico e letterario… se queste voci siano interiori o esteriori per Manfred… non si sa se lui parli con sé stesso, anche quando parla con la Strega delle Alpi… quando parla con gli spiriti in realtà non si sa neppure se siano spiriti dentro di lui o meno. E Byron lascia la questione in sospeso. La risposta si trova in questo cambiamento di colore, in qualche modo il mezzo rimane lo stesso: quegli schermi proiettano sia la parola di Manfred e che della natura, il mezzo resta un’unica sorgente.
Richard: E c’è anche il discorso delle voci in campo e fuori campo, fatto da Carmelo Bene...il suo Manfred lavora su metà voci in campo e fuori campo: ci siamo ritrovati successivamente a confrontarci su questo aspetto… e ci siamo resi conto che anche nel nostro Manfred è così: ci sono metà voci in campo, ma la metà delle voci sono sugli schermi.
Vengono lette dagli spettatori. Leggendo si sente costantemente una voce interiore. Le voci del Manfred di Bene sono poi state affidate a Lydia Mancinelli, a dei tenori, soprani… in questo caso noi scegliamo di darla allo spettatore e in qualche modo torniamo sempre a Byron, che ci auguriamo possa essere felice del nostro lavoro.
Leggendo si sente costantemente una voce interiore…
…in questo caso scegliamo di darla allo spettatore
Che tipo di valutazione avete fatto per alternare le parti di musica con quelle recitate?
Maria: Abbiamo ragionato su una struttura che tendenzialmente seguisse l’andamento in atti e in scene del testo originale, però, come ti dicevo prima, prendendo tutte le parti in cui Manfred si relaziona con le forse naturali, gli elementi della natura, seguendo il più possibile l’ordine cronologico. Ci sono degli innesti di frasi di altre scene, che confluiscono in altre…
Richard: Sì, c’è anche questo aspetto…
Maria: ad esempio la scena dell’apparizione di Astarte contiene delle frasi che vengono dalla seconda scena, quella del suicidio. Quindi ci sono dei mix che abbiamo fatto in questo senso. Prima c’è stata sicuramente una fase di scrematura del testo in ordine cronologico e poi dal materiale raccolto abbiamo creato dei brani, che noi chiamiamo M1, M2, M3, M4, M5, che abbiamo poi composto man mano. E lavorando con Donato Di Trapani, il nostro compositore, mentre Angelo cura in live e il sound design in scena, live… e quando abbiamo lavorato con Donato sulla composizione abbiamo individuato questi brani, che avvengono in questo ordine e ognuno rappresenta un pezzo diverso del testo.
Abbiamo immaginato inizialmente un’overture di Schumann e una maledizione, che avviene dopo la prima scena, l’abbiamo spostata all’inizio, quindi abbiamo inserito dapprima overture, maledizione e poi la prima scena…è stato questo il processo decisionale… individuazione di brani che abbiamo cercato di trattare musicalmente a seconda del momento drammaturgico del testo, cercando sempre di inserire sinfonia e noise, trattando la sinfonia in modi molto diversi.
A volte abbiamo inserito un singolo strumento a suonarla, a volte un sintetizzatore, o abbiamo preso un tema e suonato questo a seconda del timbro e della qualità del suono… abbiamo preso l’overture da una registrazione esistente, l’abbiamo inserita in un modulo e fatta agire in reverse. Modificando, registrando e usando i moduli abbiamo creato le musiche, che poi abbiamo inserito nei punti dove volevamo introdurre la sinfonia.
Che talvolta si va anche a sovrapporre alle parti cantate
Maria: Sì, esatto… crea un impasto. La volontà era sempre quella della frase: “Half dust half deity” è il cuore della nostra interpretazione, di questa essenza dell’essere umano. Di questa condizione dell’uomo che è scisso tra cielo e terra… e anche nella musica si esplicita: è come se DUST fosse il noise e il DEITY fosse la sinfonia…un po’ sinfonia e un po’ noise.
Che tipo di rapporto avete con il gruppo Motus?
Maria: Facciamo parte di un progetto di Motus, insieme ad altre compagnie, che si chiama Motus VAGUE ed è un sostegno che loro danno da un punto di vista amministrativo per le pratiche di agibilità e sostegno dei contratti. Hanno sviluppato negli anni un sistema di supporto enorme per le giovani compagnie come noi… e chiaramente sapendo come muoversi ci danno una mano nel disbrigo delle pratiche amministrative, oltre alla loro disponibilità per consigli, suggerimenti e feedback.
È una sorta di Vague, appunto, un’onda, un umore… nel percorso di una giovane compagnia è fondamentale avere la possibilità di scrivere e confrontarsi con una compagnia che ha poi un’esperienza trentennale, che stimiamo e sono un punto di riferimento, artisticamente preziosissimo per una realtà giovane.
Vi ritenete nel complesso soddisfatti del vostro lavoro, anche tenendo conto dei progetti precedenti?
Richard: Sì, sicuramente. È in realtà una valutazione che stiamo facendo anche in questi giorni, proprio in quest’ultimo periodo…
Maria: E che si fa sempre.
Richard: Sì, sempre… assolutamente, e siamo felici di riscontrare che c’è un’aderenza maggiore tra il principio di un’idea e il modo in cui riusciamo a tradurla su carta. E poi dalla carta alla scena. Inizia ad assottigliarsi questa distanza. Mentre all’inizio, non che abbiamo chissà quale esperienza decennale… esistiamo da sette anni… ma all’inizio c’era moltissima distanza. Da quando pensavamo a qualcosa a quando lo mettevamo in scena sembrava di vedere un’altra cosa ancora… e questo chiaramente dipende dall’esperienza, dal riuscire a conoscersi e a conoscere sempre di più il proprio modo di lavorare. Non dico di crearsi un metodo, non abbiamo quel tipo di approccio… ma alla fine hai una poetica, che puoi scrivere o meno, ce l’hai dentro di te e inizi a conoscerla e inizi a capire con quale materia ti confronti quando lavori ad un progetto… e poi inizi a fare dei passi, ad acquisire qualcosa interiormente “Okay, questa è un’esperienza, questo è il modo giusto per farlo, questo è meno giusto” … e vediamo che, appunto, si sta sempre più assottigliando questa distanza tra l’immagine iniziale e poi l’immagine finale, ecco… e questa è una cosa che ci dà gioia.
Quest’ultima esperienza vi sta proiettando verso nuove idee da sviluppare in futuro?
Maria: Sì, stiamo iniziando un po’ a pensare ad un nuovo progetto, per il 2024. È ancora un baluginìo… non ancora un’idea definita, ma iniziamo a pensarci…
Richard: Sì, essendo adesso dentro, anche un po’ al vortice delle date… non siamo ancora nel mood giusto, insomma… ma è lì che ci aspetta. Siamo pronti ad iniziare a leggere.
Maria: Sì, leggere e pensare.
Grazie a Maria Alterno e Richard Pareschi per il prezioso tempo che hanno generosamente dedicato all’intervista, a Beatrice Biondi per il supporto e alla Fondazione Merz che ha ospitato il nostro incontro.
Irene Turchetto