Romeo Castellucci incontra il pubblico del Festival delle colline Torinesi. Il suo Bros, in scena alle Fonderie Limone il 29 e il 30 ottobre è infatti uno dei titoli di punta di questa 27esima edizione.
Ustorio, crudele, potente, Bros è un’indagine sulla possibile violenza perpetrata dalle forze dell’ordine in quello iato, ahimè necessario – ogni ideologico pregiudizio è estraneo all’opera – per l’ordine pubblico, tra la persona e la divisa, il cittadino e l’istituzione.
Non c’è traccia di sprezzatura, non vi è posa nell’umiltà con cui Castellucci risponde alle domande di Sergio Ariotti in sala Pasolini del Gobetti, la mattina di domenica 30 ottobre.
Il lavoro colma l’assenza di questo tema in teatro che, dice, è molto presente invece al cinema, in letteratura. La genesi dell’opera è a Parigi, quando la città era in tumulto a causa dei gilet gialli. La casa del regista era costantemente assediata dalla Polizia.
È notevole la quantità di volte in cui il regista emiliano risponda: “Non so” quando è sollecitato a spiegare questa o quest’altra soluzione artistica. Castellucci non si pone come l’eletto, l’illuminato: per lui l’artista è uomo del popolo, che raccoglie dei frammenti, delle intuizioni molto caotiche, e poi cerca di dare un ordine a questo caos.
Il lavoro di Castellucci è un fatto da immagini, di icone, la parola è ridotta all’osso. La drammaturgia, il montaggio, s’inserisce nella creazione quando arriva il titolo: come fosse un faro illumina e direziona ogni momento dell’opera. Bros è la fratellanza, la confraternita, con un forte riferimento a un immaginario del poliziotto del cinema americano.
L’opera, continua Castellucci, ha un forte elemento rituale, che è un elemento del teatro in sé, ma che in questo spettacolo assume tinte macabre. È necessaria una liturgia per istaurare un potere.
Si sentono forti i rimandi ad Artuad. Il teatro come specchio ustorio, che deve turbare e mettere in discussione lo spettatore. Infatti Castellucci, oltre la quarta parete, ne indica una quinta, la più importante: la mente e il corpo dello spettatore. Lì avviene lo spettacolo.
La conversazione si avvia a conclusione, mentre Castellucci sottolinea l’importanza, per un artista, di esporsi al ridicolo: solo così può creare l’arte come pietra di inciampo, fare scandalo.
A dicembre potremo leggere una pubblicazione per i tipi di Hopefulmonster, introdotta da Sergio Ariotti, in cui Romeo Castellucci e Alfredo Jaar rispondono alle stesse domande un’intervista parallela.
Il volume inaugura una collana che mette in relazione l’arte contemporanea e il teatro, come quest’anno ha scelto di fare il Festival delle colline Torinesi.
Giuseppe Rabita