YOU WERE NOTHING BUT WIND – MOTUS

Durante l’ultima settimana del Festival delle Colline Torinesi la scena è stata dedicata ai Motus che hanno portato, al centro della ribalta, tre dei loro lavori più emblematici e forti. Nelle giornate di martedì 1 e mercoledì 2 novembre, presso la Fondazione Merz, è andato in scena You were nothing but wind

Attraverso questo lavoro si accede ad un luogo, dove pian piano emerge una eco antica, primordiale. È un evento teatrale rifulgente, che mira ad un impatto violento nei partecipanti. Gli spettatori, ritrovatisi all’ingresso della Fondazione, si sono diretti tutti contemporaneamente nella sala ubicata al piano semi-interrato, dopo aver attraversato gli altri locali della struttura. In queste stanze lo spettatore si è imbattuto negli occhi selvaggi di numerosi sciacalli, proiettati in monocromia sulle pareti bianche della Merz. Gli animali sono il primario punto di partenza dell’ultima installazione dell’artista israeliana Michal Rovner. In Alert, questo il titolo dell’opera, l’ideatrice porta il visitatore ad immergersi in una dimensione altra, animalesca. Una dimensione in cui viene ribadito il diritto alla rivendicazione, al lamento straziante. Sembrerebbe quasi una divagazione, il parlare della video installazione di Rovner, ma non lo è. I punti di congiunzione tra Alert e You were nothing but wind sono molteplici. 

Giunti nel luogo predisposto per l’azione, lo spettatore si trova di fronte ad una nuova esperienza. Al centro della scena, un cumulo di trucioli. Non è affatto semplice capire se si tratti di trucioli di legno o di altro materiale. La montagnola è circondata da barre luminose, aventi una colorazione fluorescente tendente al viola. Le sedute per gli spettatori sono disposte intorno alla scena. A racchiudere questo spazio circolare vi sono, prima delle mura della stanza, altre strisce luminescenti, dello stesso colore delle prime. Riecheggia un grido inumano, primitivo, ma ancora flebile per potersi sentire in maniera definita. Lo si sente nell’aria, nascosto tra la polvere che gravita lontana dalla percezione dell’occhio. La circolarità è uno degli elementi che si coglie in maniera limpida. Questa organizzazione dello spazio richiama una dimensione strettamente rituale, sacra. Chi prenderà parte all’evento teatrale compirà esso stesso un gesto. Attraverso la propria presenza, attraverso il proprio corpo. Il cumulo di trucioli, sembra muoversi. Sembra celare qualcosa come un respiro, una figura umana. L’atto teatrale inizia dal momento in cui il primo spettatore entra in sala. Pian piano emerge la figura umana, ma le sue fattezze lasciano presto il posto ai gesti che imitano quelli di una bestia. I latrati, dapprima silenziosi, iniziano a diffondersi, sempre più sostenuti. La dimensione orbicolare e tragica del mito esplode in tutta la sua carica. L’attenzione è tutta su quella figura animalesca, che altro non è che Ecuba. Prigioniera sulle rive del Chersoneso tracico (odierna penisola di Gallipoli in Turchia), si lascia andare ad un’esternazione lontana dai confini umani. Il latrato della performer porta ad una dimensione nuova, resa possibile attraverso una disumanizzazione per mezzo del corpo stesso. Si va verso un dolore inconsolabile ed implacabile. Il sentiero su cui si incamminano i Motus è quello tracciato da Euripide, ma non solo. Non è difficile pensare a Le Troiane di Jean Paul Sartre.

Ecuba sembrerebbe essere sola in questo scenario post-apocalittico. Al contrario, gli spettatori sono al suo pari, immersi nelle viscere di questo coacervo informe. Dalla bocca di Ecuba non escono fuori che mugolii strazianti. Quest’ultimi, insieme agli occhi infuocati, sono il frutto della maledizione lanciatale da Polimestore. Il mito vuole che la moglie di Priamo, nonché regina di Troia, per vendicare l’uccisione di suo figlio Polidoro, abbia accecato il re di Tracia, non prima di avergli trucidato i figli. Questo, però, le costò, da parte del re ormai cieco, un anatema. Il corpo si fa dunque espressione visiva di un dolore che non può più essere nascosto.

La performer crea una relazione tangibile con chi prende parte all’evento teatrale. Cattura lo spettatore e lo trascina in un peregrinare straordinario e profondo segnato dal tormento. I latrati, in graduale crescita, creano una sorta di partitura ritmica, all’interno della quale si inscrive la gestualità e il movimento.

Il rito, sembrerebbe essere proprio ciò a cui si assiste, è estremamente lacerante nella sua profonda intelligenza. La suggestione che crea, una volta usciti dalla sala e ritrovatisi faccia a faccia con gli sciacalli dell’opera Alert, non lascia indifferenti. È una materia che non si disgrega, ma che muta nell’interazione con lo spettatore. Un corpo che riemerge, che appare nell’eternità dei corpi che si distruggono.

Michele Pecorino

ideazione e regia Daniela Nicolò, Enrico Casagrande e Silvia Calderoni

conSilvia Calderoni

ambienti sonori Demetrio Cecchitelli

suono Enrico Casagrande

luci Daniela Nicolò

props e sculture sceniche _vvxxii

video e grafica Vladimir Bertozzi

una produzione Motus

con il sostegno di MiC, Regione Emilia-Romagna

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