L’idea per lo spettacolo Come tutte le ragazze libere, andato in scena al Teatro Gobetti dal 21 al 26 febbraio all’interno della stagione teatrale 2022/2023 Out of the blue, nasce da un singolare fatto di cronaca: sette tredicenni, originarie della Bosnia Erzegovina, al ritorno da una gita scolastica scoprono di essere rimaste incinte. La notizia ha un impatto globale, attorno ad esso si crea un dibattito accesso per capire di chi siano le responsabilità di un’educazione sessuale non adeguata, se non addirittura mancante. La scuola e le famiglie scaricano queste responsabilità l’una sulle altre.
Da tutto questo la drammaturga Bosniaca Tanja Sljivar prende l’ispirazione per scrivere, nel 2017, questa pièce teatrale, nella sua versione italiana tradotta da Manuela Orazi e diretta da Paola Rota.
Il pubblico entra all’interno del teatro e trova già in scena tre delle attrici, che successivamente racconteranno la loro storia, impegnate in giochi infantili per preparare sia loro stesse che il pubblico allo spettacolo. Le ragazze in scena iniziano a parlare rivolgendosi direttamente agli spettatori ed accentrando poco a poco tutta l’attenzione sul palcoscenico. Il brusio si affievolisce e tutte le attrici entrano in scena, rimanendoci per tutta la durata dello spettacolo.
A livello recitativo è molto presente e di impatto una struttura corale, in cui ognuna racconta se stessa all’interno di un’unica storia ed il ritmo è molto serrato: si passa infatti da piccole battute che rimbalzano da una ragazzina all’altra fino ad arrivare ad interi monologhi, talvolta molto lunghi e complessi, recitati ogni volta da una attrice diversa. Il testo molto spesso risulta crudo, “volgare”, forte.
Una delle scene in particolare risulta essere piuttosto cruda, quella in cui una delle ragazze racconta, con un misto di frustrazione, schifo e amore per un proprio caro, le riflessioni nate mentre è intenta a cambiare alla nonna il pannolone. La ragazza, guardando la nudità della nonna pensa che potrebbe toccarla, per “farle del bene” ma subito frena i pensieri perché si rende conto che “è una cosa privata, che appartiene solo a lei e che è necessario avere il consenso per toccare il corpo di un’altra persona.” Il tema del consenso viene quindi portato in scena in modo davvero brutale. Ma è ancora necessario spiegare al pubblico il concetto di consenso? È ancora necessario spiegare che ogni individuo ha il diritto di disporre del proprio corpo come meglio crede? Per una “bolla” all’interno della quale vivono alcune persone sembrano concetti così ovvi e alla base dei rapporti umani da sembrare quasi ridondanti, ma ci si rende purtroppo conto che, usciti da quella “bolla”, invece è ancora troppo necessario parlarne.
Le ragazze che vengono portate in scena parlano di se stesse senza veli, si raccontano, raccontano il loro mondo fatto di realtà rurali e social network, la loro malizia e la loro infantilità. Ma alla domanda principale che lo spettatore continua a porsi non ci sarà una risposta: come è possibile che sette tredicenni siano tornate tutte incinte dopo una gita scolastica?
Lo spettacolo non si sofferma troppo sulla questione, ma si concentra piuttosto su ciò che accade dopo. Nel gruppo ogni ragazza elabora la propria gravidanza in modo molto personale: c’è chi, spinta da un forte senso di maternità, sostiene di volere tenere il figlio; chi invece, spaventata dai cambiamenti inevitabili che il corpo subirà e dalla maternità stessa, esprime con fermezza la volontà di voler abortire. Qualsiasi sia la scelta portata avanti si nota quanto brutalmente la società sia pronta a giudicare, a parlare, a dare opinioni…
“La maternità è un dono del cielo”, “L’aborto è sbagliato, chi smembrerebbe un feto innocente?” ma anche “Come pensa di essere in grado di portare a termine una gravidanza così giovane?” “Di sicuro si farà aiutare da sua madre per crescere il bambino.” Tutti sembrano avere qualcosa da dire e ogni scelta sembra profondamente sbagliata. La verità è che la società si sente in diritto di parlare, ma non fa niente di concreto per aiutare le ragazze in questione. La critica sociale all’interno dello spettacolo è molto forte: dove sono famiglia, scuole e istituzioni quando si parla della necessità di un’educazione sessuale adeguata? Dov’è il diritto ad un aborto sicuro, senza l’utilizzo di metodi che mettono in pericolo la vita delle madri, quando gli ospedali sono pieni di medici obiettori di coscienza? E dov’è il supporto per chi invece vorrebbe essere madre, quando ci sono così tante madri abbandonate a loro stesse perché tanto “Il figlio è tuo, l’hai voluto tu”?
Nel finale le ragazze protagoniste della storia promettono di essere solidali tra loro e immaginano un mondo diverso, un’utopia, una collettività meno giudicante ma più unita che sia in grado di crescere i figli come fossero di tutti. Un’utopia che, forse, non è tanto distante dalla Città del Sole teorizzata da Tommaso Campanella.
Beatrice Taranto
Autrice Tanja Sljivar
Regia Paola Rota
Traduzione Manuela Orazi
Progetto Paola Rota, Tanja Sljivar, Simonetta Solder
Con Silvia Gallerano, Liliana Massari, Irene Petris, Simonetta Solder, Sofia Celentani, Sara Mafodda, Martina Massaro, Sylvia Milton
Light design Cristian Zucaro
Sound design Angelo Elle
Teatro Stabile di Torino
Molto interessante questa tematica. Sembra che i tempi “oscuri” che giudicavano la gravidanza fuori dal matrimonio siano solo un ricordo ma non è così. Oggi oltre alla società giudicante ci sono le problematiche di ordine economico e affettivo/familiare. Le madri hanno più compiti da assolvere e se non ricevono l’aiuto adeguato, come avviene nei paesi “civili” una donna da sola, senza un compagno accanto, non ce la può fare. La “sorellanza” auspicata, sogno utopico ma meraviglioso…