NOBODY NOBODY NOBODY. It’s ok not to be ok. Collective experience, è un complesso progetto dove il coreografo e danzatore Daniele Ninarello coniuga sperimentazione laboratoriale e performance. La ricerca artistica di questo lavoro nasce durante i primi mesi di restrizione dovuta alla situazione pandemica da Covid-19. L’autore indaga il movimento, inteso come azione di protesta contro i dispositivi di potere, la mascolinità tossica e il bullismo. NOBODY NOBODY NOBODY rappresenta un modo per potersi esporre alla propria vulnerabilità, agendo di conseguenza la propria rivoluzione nella maniera più libera possibile. Un attento processo, costituito da diverse residenze artistiche, che il coreografo ha già condiviso e che continuerà a condividere con gli studenti di diverse scuole, affiancato dalla sociologa Mariella Popolla.
Ad oggi, sono diversi gli istituti scolastici in cui l’autore ha potuto sviluppare l’indagine inerente alla cultura della violenza. Dalle prime tappe presso alcuni licei di Trento, Ninarello si è spostato in Germania dove ha avuto modo di lavorare, in un mese di residenza, con gli allievi della Montessori Oberschule di Potsdam. Sul finire del 2022 ha condiviso le pratiche laboratoriali con gli allievi IIS Primo Levi di Torino. Il progetto con l’attraversamento torinese non è però giunto a conclusione. In questo momento l’autore sta incontrando gli allievi dell’IPSAR Veronelli di Casalecchio di Reno e della scuola secondaria di primo grado F. Malaguti di Crespellano, entrambe nel bolognese.
A distanza di qualche mese dall’ultima tappa di NOBODY NOBODY NOBODY it’s ok not to be ok, che si è conclusa con la replica serale del 25 novembre 2022 presso la Lavanderia a Vapore di Collegno, ho avuto la possibilità di incontrare Daniele Ninarello per un’intervista in merito al lavoro.
Michele Pecorino: Bentrovato, Daniele, Ti ringrazio per il tempo che mi stai concedendo per questo dialogo in merito al tuo ultimo lavoro NOBODY NOBODY NOBODY it’s ok not to be ok. Come prima cosa ti chiederei come e quando nasce questo ampio progetto che mette in contatto diverse realtà.
Daniele Ninarello: Nasce durante il primo periodo di lockdown. Ad innescare la riflessione sono state le intuizioni suscitate dalla situazione in cui tutti ci siamo ritrovati all’improvviso. Quelle misure di costrizione e chiusura, sicuramente pensate per non diffondere ulteriormente il Covid, indubbiamente hanno avuto delle conseguenze nei corpi.
All’inizio stavo molto in pace, per me era un momento di riposo. Nel tempo, col protrarsi della situazione, ho iniziato a sentire l’esigenza di muovermi e di uscire. Col passare dei giorni e poi delle settimane, era diventato pesante dover convivere con quella situazione di controllo esterno e autocontrollo. La piena obbedienza alle coercizioni spaziali e fisiche, nel mio caso, ha portato a galla una sfilza di sensazioni negative. Credo che questo sia accaduto, in differenti misure, anche ad altri. Tutti, chi più chi meno, subiamo nella vita delle forme di controllo, per cominciare da quelle dinamiche sociali che sono diventate normalizzate, un esempio è la coercizione vissuta durante il covid. Altre invece sono più individuali, riferibili a specifiche esperienze vissute in determinati momenti della propria vita.
Questo lockdown ha contenuto il virus, ma ha fatto anche del male alle persone, ai corpi. Li ha segnati, sotto un certo punto di vista.
Nel mio caso, quello che mi ha portato a riflettere sull’emergeredi una cattiva sensazione, è stato un episodio che ho temuto. Un episodio che oggi definisco stupido, ma che mi ha fatto riflettere sull’elemento del controllo. Sempre durante il lockdown, mi trovavo per strada a gettare i rifiuti fuori dall’orario consentito. L’arrivo di una pattuglia della polizia mi ha causato un’ansia pazzesca. Devo però dire che la miccia che ha fatto detonare il tutto non è stata quella. Nel corso di un periodo in cui si sta quotidianamente chiusi in casa 24 ore su 24, è inevitabile che si ripetano dei pensieri, delle sensazioni. Il corpo, raggiunto il grado massimo di sopportazione, non resiste più. È proprio in quel momento che ho sentito l’esigenza di esprimere quello che stavo vivendo. Ho iniziato a muovermi in casa, ma la cosa strana è stata che non riconoscevo la mia danza. O meglio, la riconoscevo in quanto affine a ciò che sentivo, ma mostrava delle mobilità diverse da quelle che stavo affrontando in quel momento. La grossa bolla di silenzio, che si è formata attorno a me, rispetto a prima, ha creato uno spazio di ascolto maggiore. Le cose, che fino a quel momento non si erano ascoltate, stavano emergendo, danzavano il mio corpo. Tutto quel riemergere si collegava alla sensazione di paura, controllo e isolamento. Mi sono trovato ad avere il un corpo che parlava mentre si muoveva. Da lì è nato tutto.
Michele Pecorino: Dunque il linguaggio della danza ti ha permesso di sovvertire quel dispositivo di potere, quali sono state le misure restrittive e le tue esperienze pregresse.
Daniele Ninarello: Assolutamente sì. Per me è stato un modo per sovvertire fisicamente. Questo lavoro è nato con una serie di proteste, che definisco “Proteste Silenziose”.
Ho condensato queste azioni in alcuni luoghi della città di Torino e, con la prima apertura, in altre città italiane. Erano degli speech dove non ero io a parlare, ma piuttosto a farlo erano le parti del mio corpo. La mano tirava fuori un gesto intrappolato, il braccio un movimento carico di tutto quello che sentivo in quel momento, la gamba sinistra altro ancora.
Ho iniziato a pormi delle domande su quanto il mio corpo, i nostri corpi, fossero abituati a percorrere e ripercorrere in maniera consapevole circuiti e cortocircuiti che sono l’essenza della nostra identità. Ho pensato che facendo silenzio tutte queste cose avrebbero potuto rivelarmisi come volevano essere narrate. Ad iniziare questo processo è stato il mio personale atto di dissidenza. Attraverso l’ascolto, ho potuto attuare una decolonizzazione del corpo.
Michele Pecorino: Hai lavorato sulla memoria del corpo. Lo hai ripercorso attraverso un ascolto consapevole, in modo da far riemergere la democrazia che sta alla base di esso.
Daniele Ninarello: Sì, Proprio così. E questo non si può che raggiungere mettendosi in ascolto dei propri corpi. Guardo alle mie proteste silenziose come a momenti di ascolto nei confronti del corpo.
Michele Pecorino: Cosa hanno suscitato queste proteste silenziose in te e in chi ti osservava?
Daniele Ninarello: Una delle prime azioni che feci fu proprio sotto casa mia. Di notte mi sdraiai sulla strada, proprio davanti all’ingresso di un supermercato. Questo mio gesto ha prodotto delle ulteriori azioni da parte degli altri. Qualche condomino mi riprendeva col proprio cellulare. Attraverso queste tracce video, dopo, ho potuto osservare ciò che era successo. Dalle registrazioni ho visto che era come se io lasciassi fluire attraverso il corpo delle questioni. Delle volte il mio corpo tremava, aveva delle tensioni. Era immerso in degli stati d’ansia. Mi sono chiesto da dove venissero queste sensazioni, da quale passato remoto stessero riaffiorando.
Alcuni di questi video sono poi stati consegnati alla cantautrice Cristina Donà e al musicista Saverio Lanza. Cristina su queste proteste silenziose ha scritto dei testi. Quando ho ascoltato le canzoni, mi sono accorto di una completa risonanza con la mia storia e con quello che sentivo. Io non le avevo detto nulla, eppure i suoi testi parlavano di un corpo abbandonato che chiedeva di essere ascoltato. Parlavano del silenzio come luogo preservato per l’ascolto. Per me le sue parole hanno rappresentato un grande atto di amore nei confronti del mio corpo, ma anche verso gli altri.
Dopo questa prima fase, grazie alla mia ricerca che lavora su pratiche psico-somatiche oltre che di movimento e grazie allo studio di metodi che si avvicinano all’ipnosi, pian piano ho riconosciuto che il mio corpo stava rilasciando delle tensioni accumulate molto tempo prima. Questo ha innescato un processo consolatorio o comunque trasformativo. Mi stavo lasciando andare a delle cose che potevano essere riprocessate in un altro modo. Finalmente potevo osservare il mio corpo da un punto di vista esterno.
Attraverso queste prime osservazioni, ho capito che il lavoro aveva l’esigenza di agganciarsi ad un passato personale. Un trascorso legato a violenze subìte in ambito scolastico per il mio orientamento sessuale e per quello che rappresentavo nel complesso.
Sin da piccolo ho iniziato a danzare, a 11 anni ho iniziato a fare calcio. Si mischiavano due differenti piani che uno sguardo binario faceva, e fa, ancora fatica a vedere insieme.
Molte delle tensioni del mio corpo si riferiscono specificamente a quello spazio temporale. Ho sentito la necessità, o forse la voglia e il desiderio, di provare a fare una residenza che mi permettesse di incontrare delle persone che stavano vivendo ancora quel tipo di stato dell’offesa. Il mio corpo stava espellendo, raccontando, attraversando tutta una serie di gestualità in grado di liberare degli avvenimenti legati alla cultura dell’offesa e del controllo. A volte ce l’abbiamo in noi, una mascolinità tossica è incorporata e non ne siamo consapevoli. Ciò ha suscitato in me la voglia di incontrare un gruppo di persone nelle cui menti probabilmente questo tipo di domande sono ancora accese. Mi sono domandato come vivessero i liceali queste sensazioni.
C’è da tenere conto che oggi tutto si è spostato anche sul piano virtuale. Dobbiamo fare i conti con il cyber-bullismo, con gli haters e con tutta una serie di violenza che è quasi accettata.
Sulla base di tutto questo, a Torino, mi è stata concessa una residenza al liceo Primo levi.
Ho incontrato per due mesi, insieme alla sociologa Mariella Popolla, una classe. Attraverso esercizi e assemblee abbiamo fatto un’ampia ricerca. Ho voluto che il confronto avvenisse orizzontalmente e mai verticalmente. Grazie a questa e ad altre residenze ho incorporato alcune cose, venute fuori dagli incontri con i ragazzi, nel mio lavoro. Naturalmente lo spettacolo non si compone solo di quel materiale. Molte cose sono nate in casa mia, sempre attraverso lunghe meditazioni. Ad un certo punto mi son chiesto: “se invece di tradurre e filtrare, portassi in scena il corpo così com’è? Come il riemergere di alcune situazioni, immagini e risonanze porta in vita il mio corpo, permettendogli di parlare?”
Michele Pecorino: Attraverso le tue parole si va chiaramente a delineare il processo attuato durante la fase creativa. Una divisione per tappe la vediamo anche nello spettacolo.
Daniele Ninarello: Certamente. Nella prima parte, attraverso un corpo sempre sull’orlo di dire qualcosa ma che non dirà mai, perché ha paura. Questa parte si riferisce a tutti quei corpi che ancora oggi hanno questa paura.
Michele Pecorino: Tanti piccoli gesti che si susseguono nell’aggiunta di nuovi. Una reiterazione che si svela a piccoli passi.
Daniele Ninarello: Sì, anche se io non amo definirla una reiterazione. Questa parte ha una duplice faccia. Se da una parte c’è grande attenzione e cura rispetto a quello che sul mio corpo si sta per svelare, dall’altra parte c’è una dichiarazione di auto-boicottaggio, di autocensura, che il corpo ha imparato a fare.
Michele Pecorino: Questo è da imputare ad un fattore culturale che attraversa i corpi?
Daniele Ninarello: Sì, la cultura che attraversa i nostri corpi ha delle conseguenze notevoli su di essi. I nostri corpi non sono liberi.
C’è una grande dicotomia tra ciò che pensiamo di essere e le modalità attraverso le quali ci mostriamo nello spazio pubblico e politico.
Michele Pecorino: Questo crea delle tensioni…
Daniele Ninarello: Indubbiamente. Da un lato queste tensioni ci hanno invaso come un cancro, dall’altro hanno creato la mia, le nostre identità. Per me è stato un processo lungo, dove ho raccolto le posture comuni di riferimento. Le ho analizzate attentamente e mi sono accorto che hanno già colonizzato il mio corpo. Per me il primo e il secondo atto sono un tentativo di decolonizzazione. Un processo non rivolto al presente, ma all’avvenire.
Michele Pecorino: Per riflettere sullo sviluppo di decolonizzazione hai dovuto mettere al centro il tuo trascorso….
Daniele Ninarello: L’intero lavoro si poggia su delle questioni autobiografiche. I miei percorsi da danzatore e da musicista assumono un valore importante. Forse musicista è una parola grossa però, prima di fare questo mestiere, quando ero adolescente suonavo in una band. Avevo studiato percussioni e chitarra perché trovo che la musica sia estremamente liberatoria. Poi durante il lockdown mi sono ritrovato a prendere nuovamente la chitarra in mano.
Il suono ha aiutato a liberarmi da alcune questioni. Le musiche che si sentono nello spettacolo le ho prodotte seguendo, in contemporanea, una pratica di movimento. Ho suonato la chitarra danzando. La creazione di un corpo sonoro mi ha permesso di tradurre quello che pensavo e sentivo. Dopo ho cercato di capire, attraverso una logica sensoriale ed emotiva, quale traccia sonora restava di più nel mio corpo. Mentre in fase di creazione ho fatto un lavoro di sottrazione, in scena ho innescato un’addizione suonata sulla danza. L’accumulazione, sia a livello sonoro che a livello fisico, mi ha consentito di riempire lo spazio. Le centinaia di posture che cambiano costantemente e le sonorità che pian piano lasciano intendere un corpo saturo di temperature, vengono tradotte in modi diversi. Non è uno sfogo, ma è un modo per poter leggere un corpo mentre è in movimento. Per ridefinire l’aspetto sonoro, di vitale importanza è stato l’aiuto di Saverio Lanza. I riferimenti alla nostra cultura sono tanti, dalle musiche alle immagini di riferimento. Capita spesso che ci appropriamo di alcune questioni, cancellando il loro vero significato. Molti elementi sono legati nel profondo al mio passato. La musica mi libera e al contempo mi riporta ad una svolta nella mia storia personale. Gli atti di bullismo cessarono proprio nel momento in cui decisi di fare un concerto a scuola. Proprio quando decisi di cantare davanti a tutti. Ogni atto che avevano fino a quel momento perpetrato nei miei confronti, cessò.
Michele Pecorino: Da cosa nasce la parte in cui fai l’appello del pubblico presente in sala?
Daniele Ninarello: Questa è ancora una volta una forma di protesta: è una sezione nata da un’intuizione. Assume un doppio valore: è una chiamata di alleanza rispetto alla protesta che sto portando in atto ma è anche un momento in cui ci sentiamo vulnerabili perché ci hanno chiamati per nome e cognome davanti a tutti. Effettivamente, all’improvviso, determinate persone si sentono vulnerabili davanti a questa scena. Il mio intento è quello di creare una situazione frontale in cui fare l’appello significa domandare: “Ci sei? Ti unisci?”
Questa penultima parte è un vero e proprio atto simbolico.
Michele Pecorino: Tutto si svolge sotto un’illuminazione diffusa priva di qualsiasi evoluzione.
Daniele Ninarello: Per le luci ho semplicemente pensato a qualcosa che fosse la massima esposizione. Ho deciso di portare tutto alla luce e di lasciare osservare senza veicolare in alcun modo lo sguardo. È tutto sotto una completa esposizione.
Michele Pecorino: Per quanto riguarda il costume, ancora una volta fai ricorso ad un immaginario riconoscibile da tutti?
Daniele Ninarello: Nel mio immaginario la giacca, la camicia, il pantalone nero rappresentano l’uomo di potere. Se da un lato pensavo al costume dell’uomo di potere, dall’altro mi sono chiesto: “Come mi voglio vestire per comunicare ad un pubblico un mio atto decisionale?”
Quando da piccolo guardavo il telegiornale, vedendo certi uomini con abiti formali, pensavo che un giorno sarebbe toccato a me vestirmi in quel modo, per poter parlare di fronte ad una platea. Nello stesso tempo, quell’abito è una forma di coercizione. Pensiamo di essere liberi, ma in fondo non lo siamo. Ci vengono imposte delle etichette. Naturalmente nessuno ci costringe verbalmente o fisicamente.
Durante la residenza al Mart (Museo di Arte Moderna e Contemporanea Di Rovereto e Trento), sono stato per molto tempo nelle sale espositive mentre venivano attraversate dal pubblico. In alcuni momenti ero completamente nudo, in altri indossavo dei pantaloncini. In questa prima residenza ho sperimentato molto sul costume. La vulnerabilità, invece, la esprimo attraverso alcune parti del corpo scoperte.
Michele Pecorino: Cosa hai ricevuto dagli studenti che ti è servito nella costruzione del tuo lavoro?
Daniele Ninarello: Alle ragazze e ai ragazzi ho chiesto di aiutarmi a scovare quelle che oggi sono le modalità di interazione tra i loro corpi. Insieme a loro, ho indagato su quali fossero le posture che si riferiscano a parole come “violenza”, “vulnerabilità”, “offesa”, “accoglienza”, “attacco”, “difesa” e tante altre. Abbiamo lavorato su tanti aspetti. Loro hanno tirato fuori esempi provenienti dal loro panorama, quali potrebbero essere i social, i videogiochi, le posture dei gruppi ultrà negli stadi. Dopo questa fase, siamo andati a creare delle sequenze di movimento. L’ultima scena dello spettacolo è molto carica di questi movimenti. Ho voluto creare come un flusso di coscienza.
Insieme a Mariella Popolla, la quale mi segue per quanto riguarda l’aspetto teorico e riflessivo, ci siamo accorti che ai ragazzi manca uno spazio d’ascolto così come lo vorrebbero. Questo nonostante oggi ci sia molto più spazio, si pensi al virtuale. I ragazzi non riescono ad istituire uno spazio dove poter liberare ciò che sentono.
Sulla base di questa osservazione, abbiamo dato loro uno spazio dove poter creare dei manifesti e dei cortometraggi. Abbiamo chiesto ai ragazzi, naturalmente a chi volesse farlo, di scrivere delle lettere anonime indirizzate a persone che, in qualche modo, hanno causato delle sofferenze. Questo come atto liberatorio. Ad oggi abbiamo ricevuto più di 500 lettere. Questo evidenzia un grande desiderio, da parte dei ragazzi, di uno spazio autentico dove potersi esprimere.
Nell’anonimato esplode tantissimo questo desiderio. Al contrario, dove non c’è questo spazio protetto, la paura di esprimersi è tanta.
Michele Pecorino: Il progetto sta continuando in altre scuole….
Daniele Ninarello: Adesso lo stesso percorso lo sto portando avanti a Bologna, insieme alla tournée. Per me questo è “laboratorio-residenza” dove non si va nelle scuole a divulgare o insegnare. Rappresenta uno spazio di ascolto individuale e collettivo. Io non porto alcuna pratica, ma questa va a comporsi con i ragazzi. Un’altra interessante residenza è stata quella a Potsdam, in Germania. Lì ho incontrato i ragazzi dell’istituto Montessori.
Michele Pecorino: Le residenze sono state tante, questo fa capire che il progetto ha una base molto solida….
Daniele Ninarello: Devo dire che mi sono accorto con piacere che la richiesta per questo laboratorio è stata tanta. Insieme a Mariella, abbiamo iniziato con una singola azione, proprio con la volontà di lavorare ad un progetto. Poi inaspettatamente la richiesta è stata tanta e abbiamo deciso di continuare. Naturalmente abbiamo cercato di salvaguardare l’identità artistica e creativa propria del progetto. Come dicevo prima, per noi non significa andare nelle scuole a sensibilizzare o a divulgare. Per me significa andare ad ascoltare dei corpi che desiderano essere ascoltati.
Michele Pecorino: Daniele, non posso che ringraziarti del tempo che mi hai concesso.
Daniele Ninarello: Grazie a te.
Michele Pecorino
Creazione e Danza Daniele Ninarello
Accompagnamento alla creazione Elena Giannotti
Drammaturgia Gaia Clotilde Chernetich
Musica Daniele Ninarello
Elaborazioni sonore Saverio Lanza
Direzione tecnica Eleonora Diana
Sguardo esterno Vera Borghini
Produzione Codeduomo / Compagnia Daniele Ninarello
Co-produzione Oriente Occidente
con il supporto di Fondazione Piemonte dal Vivo/ Circuito Regionale Multidisciplinare di Spettacolo dal Vivo, Lavanderia a Vapore/ Centro di Residenza per la Danza, Centro per la Scena Contemporanea – Bassano del Grappa e DiR – Dance in Residence Brandenburg, un progetto di cooperazione di fabrik moves Potsdam e TanzWERKSTATT Cottbus. Il programma è creato in cooperazione con Pro Potsdam, Bürgerhaus am Schlaatz, fabrik Potsdam e the Brandenburg State Museum of Modern Art | Dieselkraftwerk Cottbus e con il support di DIEHL+RITTER/TANZPAKT RECONNECT, fondato da the Federal Government Commissioner for Culture e the Media come parte di NEUSTART KULTUR, the State of Brandenburg, the City of Potsdam e the City of Cottbus.
Realizzato nell’ambito della ricerca sull’innovazione didattica del progetto Media Dance – Lavanderia a Vapore di Collegno.
In collaborazione con Mart – Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, Atelier delle Arti Livorno.