L’aria a Berlino era diventata irrespirabile.
Parole che risuonano senza una chiara provenienza all’interno delle cuffie bluetooth distribuite al pubblico, mentre quest’ultimo, sotto il portico di Palazzo Carignano, si guarda intorno alla ricerca della bocca che le ha pronunciate. Poi, dopo un breve giro di sguardi da una parte all’altra, l’attenzione si volge oltre le colonne, verso piazza Carlo Alberto. Poco distante, su una panchina, ecco la fonte della voce: un uomo in giacca e cravatta con una valigetta nera posatagli di fianco. Siede da solo e parla, lo sguardo fisso a terra, mentre la gente seduta sulle panchine lì accanto lo ignora o gli volge qualche occhiata incuriosita. Chi è quest’uomo? Al giudizio dei passanti che lo guardano distrattamente potrebbe benissimo sembrare un pazzo che parla da solo, non molto dissimile da certi altri personaggi peculiari che quotidianamente si lasciano intravedere in giro per il centro di Torino. Noi, però, sappiamo non trattarsi di un pazzo, bensì di un profugo: Walter Benjamin.
Studioso, importantissimo filosofo del novecento, autore di testi tuttora rilevanti tra i quali primeggia L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Benjamin emigra dalla natìa Germania per fuggire dal governo nazista salito da poco al potere. Nel marzo del 1933 giunge a Parigi, dove resterà fino all’arrivo dei nazisti nel 1940, anno in cui riprenderà la sua fuga verso la Spagna.
Questo periodo di stasi nella vita di Benjamin, momentaneamente al sicuro ma tormentato dall’ombra del totalitarismo che avanza di giorno in giorno, è ciò che lo spettacolo Passage – conversazione con alcuni posteri, debuttato in questa 28esima edizione del Festival delle colline Torinesi, si propone di far rivivere.
Riprendendo il titolo di un’opera incompiuta del filosofo (I passages di Parigi), lo spettacolo, monologo itinerante ideato e diretto da Sergio Ariotti, anche direttore artistico del festival, sfrutta la suggestiva ambientazione della Galleria Subalpina di Torino per immergere gli spettatori nella Parigi del ’33. Molte, infatti, sono le similitudini che legano la galleria torinese ai passages parigini vissuti e descritti da Benjamin, in particolare alla Galerie Vivienne, che come la nostra Subalpina sfocia nei pressi di una biblioteca, la Bibliothèque Nationale tra i cui scaffali lo studioso trovava rifugio la maggior parte del suo tempo. È dunque del tutto logico che lo spettacolo di Ariotti veda come luogo di partenza la piazza antistante un’altra Biblioteca Nazionale, quella di Torino.
Munito di cuffie, il pubblico segue Benjamin (“riportato in vita” dall’attore Paolo Musio) a distanza ravvicinata, quasi pedinandolo attraverso la folla che fluisce da ogni direzione, mentre egli vi si mescola, muovendosi come un fantasma verso l’entrata della galleria poco distante.
All’interno della galleria, il pedinamento prosegue. Con qualche sosta, Benjamin si fa seguire per tutto lo spazio, descrivendo a chi lo ascolta la fauna che popola l’architettura dei passages parigini, la figura del Flâneur, il passeggiatore con cui egli stesso si identifica nel recitare il monologo in movimento. Proprio questa veste itinerante è ideale per trasmettere un senso di immersione necessario al testo, che senza lo spazio della galleria con le sue vetrine storiche e soprattutto senza l’atto fisico di esplorazione che muove la performance non avrebbe lo stesso impatto sullo spettatore. La regia risulta calcolata e insieme lasciata al caso, con più di un esempio di piccoli “incidenti felici” che donano un tocco di poetico accompagnamento, seppur anacronistico, ai discorsi di Benjamin (uno su tutti il suonatore di fisarmonica posto abitualmente a una delle entrate della galleria, che fornisce un’involontaria ma comunque azzeccata colonna sonora). Il pubblico è immerso in toto nella vita della città, ne fa parte, in alcune occasioni si scontra letteralmente con essa, poiché il traffico quotidiano della galleria non è interdetto alla folla, che prosegue nelle sue passeggiate e nei suoi discorsi che vengono occasionalmente captati dal microfono dell’attore ed entrano a far parte del tappeto sonoro che circonda la performance. Interessante pensare anche al pubblico come figurante attivo dello spettacolo, in veste di ascoltatore, certo (i posteri a cui fa riferimento il sottotitolo), ma anche rimando in un certo senso dell’occhio inquisitore che perseguita il filosofo nel suo esodo personale, seguendo ogni suo passo senza mai perderlo di vista, mentre i passanti, pur nella loro indifferenza, offrono un qualche breve riparo. In un caso specifico la folla inghiotte del tutto Benjamin, che continua a camminare lungo un breve tratto dei portici di piazza Castello, mentre il pubblico resta ad aspettarlo all’imbocco della galleria, perdendolo di vista ma continuando a sentirne i pensieri; ci vuole qualche minuto prima che egli riemerga dalla folla, tornando visibile agli spettatori e riprendendo il suo giro del “passage”.
Una prova d’attore non facile ma ben sostenuta da Paolo Musio, che nonostante qualche visibile (e più che comprensibile) difficoltà a mantenere la concentrazione nell’andirivieni caotico dei passanti, resta efficacemente nel personaggio, e anche i suoi tentennamenti risultano tutto sommato adatti a delineare la figura di un uomo che avverte l’artiglio del nazismo sempre ad un passo dall’afferrarlo. Un altro piccolo “incidente felice” che funziona a favore della performance anziché minarla.
Per quanto riguarda le scelte consapevoli di regia, non mancano le immagini pregne di significato.
Davanti alle vetrine ormai vuote della Casa del Libro, storica libreria aperta nel 1926 e chiusa solo di recente (e che per involontaria ironia era soprannominata “l’ebreo” dai suoi avventori), Benjamin si sofferma a lungo, nella sosta più emotiva del monologo, durante la quale descrive agli ascoltatori l’Angelus Novus di Paul Klee, da lui acquistato e gelosamente custodito, ispiratore della figura dell’angelo della storia che così ci viene descritta dal filosofo: “Il suo volto è rivolto al passato. Laddove leggiamo una catena di eventi, lui vede un’unica catastrofe che continua ad accumulare rovine su rovine e le scaglia ai suoi piedi. L’angelo vorrebbe restare, risvegliare i morti e riparare ciò che è stato distrutto. Ma una tempesta sta soffiando dal Paradiso, che ha ingabbiato le sue ali con tale violenza che l’angelo non può più chiuderle. La tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine davanti a lui cresce verso il cielo. Questa tempesta è ciò che chiamiamo progresso”.
Per Benjamin, il progresso dei suoi tempi era un futuro nero oscurato dall’ombra dei totalitarismi imperanti in Europa; fuggito anche da Parigi in vista dell’occupazione nazista, si ritroverà nel 1940 in una piccola città di confine in Spagna, in attesa di imbarcarsi per gli Stati Uniti. Non vi arriverà mai, preferendo togliersi la vita piuttosto che affrontare la possibilità di essere catturato.
L’angelo della storia ha nel contesto della vita del filosofo e della storia novecentesca un profondo impatto, ma è quasi pleonastico rimarcare che l’immagine ha una forte valenza anche nella nostra società contemporanea, per un motivo o per l’altro. La perdita d’identità a cui Benjamin è soggetto in quanto profugo è un rischio che incombe pesante in molte altre forme, e in ogni epoca. Una contemplazione significativa, quindi, quella che avviene davanti ad un luogo di storia svuotato, al cui interno Benjamin può vedere solo il suo riflesso spento.
Ancora qualche parola di compassione rivolta ai profughi come lui, un appello a vedere la storia dietro l’individuo, a non respingerli, a non fermarsi alla superficie, poi lentamente il fantasma di Benjamin, così come aveva cominciato il suo vagare, si dirige a passi lenti verso la biblioteca, abbandonando il passage per trovare rifugio tra i suoi scaffali, trascinato inesorabilmente verso il resto della sua storia, verso un futuro che sembra fatto di macerie, mentre la folla del centro gli passa accanto senza vederlo.
Edoardo Perna
uno spettacolo di Festival delle colline Torinesi
da un’idea di Sergio Ariotti
con Paolo Musio