NEL LAGO DEI LEONI – MARCO ISIDORI

QUI POTES CAPERE, CAPIAT

Entriamo in sala, al Teatro MarcidoFilm!, un ambiente ristretto, dalla capienza limitata, con sedili in pendenza da un lato e il proscenio dall’altro, a ridosso delle prime file . Siamo subito abbagliati da una gigantesca tela illuminata raffigurante il muso di un leone disegnato con colori vivaci, opera della scenografa e pittrice Daniela Dal Cin, che contribuisce a limitare lo spazio. L’immagine simbolica allude a quella condizione infernale provocata dall’assenza di Dio e che viene descritta dalla protagonista attraverso una metafora: Il lago dei leoni. Poi improvvisamente cade il sipario.

Appare già in scena immobile ed illuminata Maria Luisa Abate, truccata in viso con base bianca e matita sul contorno occhi, vestita tutta in bianco monotinta. Siede su una specie di sedia elettrica sospesa in aria, legata da fili di ferro agganciati a due strutture di supporto laterali. La protagonista è Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, mistica e suora vissuta in un Convento di Firenze nel ‘500, vittima e/o prediletta delle rivelazioni di Dio, come testimoniano diari e lettere personali e gli appunti commentati dalle consorelle alle quali confessava le sue dolorose e sofferenti esperienze estatiche. Proprio su queste fonti si basa la “trascrittura spiritualmente adelfica” del regista Marco Isidori.

Così come la monaca raccontava i suoi postulati teologici appropriandosi dei timbri vocali dei personaggi delle storie (voce grave per imitare Dio, ad esempio) ed esibendo qualità retoriche e drammatiche tipiche degli antichi aedi, l’Abate si fa giocoliere della parola, salta con abilità da una tonalità all’altra, vocalizza fraseggi sonori inafferrabili e sfuggenti. Il monologo scorre dunque repentino, il ritmo irregolare è scandito da accelerazioni e pause, le parole vengono fuori di bocca una dietro l’altra con dimestichezza. E sembra non respirare mai. E sembra non essere umana. La marionetta di Craig si incarna nel corpo in miniatura dell’attrice con effetto comico-burlesco, poiché risulta già fisicamente avvantaggiata nell’interpretazione grottesca, date le sue minute dimensioni. E in questa aderenza si condensa l’energicità massima di un agone che lavora maniacalmente sulla plasticità corporea, al fine di ottenere una altrettanta precisa coincidenza fra impulso emotivo/cognitivo interiore e reazione fisica esteriore. Drammaturgia, voce e gesto simbolico contribuiscono a designare uno scenario angoscioso e demoniaco, piuttosto che il beato volto di Cristo. In questo modo si configura un climax ascendente agevolato anche proprio dal movimento dell’attrice, la quale si alza in piedi sulla sedia, con le braccia penzolanti dall’alto dell’impalcatura, per poi scivolare giù. I farfugliamenti estatici della sua voce si trasformano, al momento finale della Passione, in striduli strazianti, alternati ad un intervento musicale elettronico. Le uniche interruzioni sono le intersezioni narrative recitate quasi sempre all’unisono dal “Coro delle Monacelle” (composto dall’attore Paolo Oricco e dalle attrici Valentina Battistone e Ottavia Della Porta) nascoste dietro tre maschere d’acciaio dorate.  

La poetica dei Marcido fa proprio un tipo di lavoro che trova forse in Ettore Petrolini l’antesignano e in Carmelo Bene l’archetipo insuperabile di una concezione del teatro alternativa, fuori dagli schemi tanto della tradizione borghese quanto della più recente avanguardia. Gastone avrebbe dovuto suscitare in noi un’inquietudine straziante; dietro il “ghigno” di Petrolini si celava l’amarezza esistenziale e il sorriso altro non era che un segno di morte. Allo stesso modo il Pinocchio di Carmelo Bene è una rappresentazione che lungi dall’intrattenimento infantile ci propone la versione di un individuo incatenato ad una condizione di privazione della libertà che incombe sull’interà umanità. Ancora Grotowski, in un’intervista rilasciata ad Eugenio Barba nel 1964 poi intitolata Il Nuovo Testamento del teatro,  sottolineava il successo incontrato dai drammi che descrivono un’infanzia infelice poiché riconosceva che «vedere rappresentate sulla scena le sofferenze di un fanciullo innocente rende più agevole al pubblico un sentimento di solidarietà verso la sfortunata vittima: è un modo per sentirsi rassicurati circa il proprio livello morale».

Ho scoperto così che assistere ad uno spettacolo dei Marcido significa accettare coscientemente l’inaspettato, il “disturbante”, l’ “incomprensibile”. Il loro non è un teatro suggestivo che ha bisogno di essere concettualizzato. Il loro è a tutti gli effetti un atto teatrale che logora e si consuma nel fatto stesso di esibirsi (da parte dell’attore) e di esperire (dello spettatore). Allora l’invito alla disponibilità di essere “rivoltati come un calzino”, per esprimerci con le parole del regista Marco Isidori, non è indirizzato solo agli studenti del laboratorio, ma anche al pubblico. Ergo, si tratta di un tipo di teatro “non accogliente”, piuttosto destinato a quanti si predispongono totalmente alla volontà e compatiscono collettivamente l’agonia dell’interprete.

E allora ridondano assiduamente i versi latini pronunciati dalla Maddalena come un’avvertenza ai prescelti della cerimonia ad essere attivi, anzi re-attivi, perché quanto ci viene profetizzato deve fungere da stimolo all’autocritica: qui potes capere, capiat.

Alessandra De Donatis

dalle Estasi di Maria Maddalena de’ Pazzi

con Maria Luisa Abate, Paolo Oricco, Valentina Battistone, Ottavia Della Porta

tecniche Sabina Abate

luci Fabio Bonfanti

scenografia Daniela Dal Cin

regia Marco Isidori

produzione Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa

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