Voglia Dio concedere a tutti noi, a noi bevitori, una morte tanto lieve e bella.
Nello spettacolo La leggenda del santo bevitore, per l’adattamento e la regia di Andrée Ruth Shammah sul testo poetico di Joseph Roth, Carlo Cecchi è protagonista e narratore: Andreas Kartak è un clochard parigino segnato da precarietà e debolezza di natura e economica e morale. All’inizio parla in prima persona e racconta al locandiere (Giovanni Lucini) la sua sfortunata vicenda e alcuni dei suoi accidentali incontri cui si è imbattuto in vita; dopodiché passa alla testimonianza dei fatti in terza persona, adottando le vesti di un narratore onniscente. Questo palese passaggio metateatrale allude all’impossibilità di mimesi, di immedesimazione e di identificazione.
Movimenti burattineschi e meccanici delle braccia, citazione di gesti e non gesti psicologici, pause prive di senso logico e connotate piuttosto da un fraseggio musicale, maschera antinaturalistica e caricatura del personaggio concorrono a delineare uno stile recitativo straniante, volto cioè all’evidenziazione della finzione. L’acteur (per dirla alla Jouvet) mantiene per la maggior parte del tempo costanza e staticità, eppure paradossalmente nulla sulla scena sembra in stato di “fissità”, a partire dal temperamento grottesco d’attore, contraddistinto da una personalità forte e sovrastante e da un’inconfondibile voce roca.
Tutto quanto ruota attorno Cecchi è deputato all’esaltazione totalizzante del grande attore: dal punto di vista della prossemica, la distribuzione dei materiali di scena e le distanze dal soggetto all’oggetto risultano calcolate ed eseguite in tempi precisi. Quindi al “rintocco” della battuta, dopo un lungo esordio, Cecchi si alza, si volta e và a sedersi sulla sedia lungo la parete in attesa che lo raggiunga il suo interlocutore, esortandolo a bere e ad ascoltare questa sorta di “finale ammissione di colpe”.
La scenografia, a carattere tridimensionale, cioè costruita sulla base di modellini architettonici, riproponendo concretamente l’ambiente del café bar parigino in cui Kartak trascorreva le sue giornate ad ubriacarsi, si trasforma durante lo spettacolo: sulle vetrate delle finestre e sulla porta vengono proiettati contenuti audiovisivi che talvolta sanciscono il passaggio spaziale/temporale della narrazione (ad esempio, un pomeriggio di pioggia, una strada, un parco), talvolta illustrano il volto dei personaggi menzionati (ad esempio, la donna incontrata in hotel con la quale Andreas aveva consumato un rapporto sessuale). In questo modo, in realtà il contingente (l’arredamento) è immobile. A prendere forma in divenire sono le visioni oniriche del protagonista e dello spettatore insieme, evocate dal narratore medesimo in modo suggestivo e sollecitate semplicemente dall’importante presenza scenica di Cecchi.
La dimensione onirica è simbolicamente stimolata anche dalla presenza “extradiegetica” di una fanciulla (Claudia Grassi) seduta in proscenio a leggere il libro di Roth. La giovane donna interviene di rado a leggere alcune note di una traduzione del testo originale, interrompendo il flusso di coscienza di Kartak e incarnando la fugacità, la caducità e l’inafferabilità dell’amore e della vita di un uomo disperato, che, a pochi passi dal riscattare il debito economico e morale che gli aveva causato tanti danni, ha un malore e muore.
di Alessandra De Donatis
di Joseph Roth
adattamento e regia di Andrée Ruth Shammah
con Carlo Cecchi
e con Claudia Grassi e Giovanni Lucini
spazio scenico disegnato da Gianmaurizio Fercioni
suggestioni visive di Luca Scarzella e Vinicio Bordin
luci Marcello Jazzetti
costumi Barbara Petrecca
produzione di Teatro Franco Parenti