La mia passione per il lavoro di Gabriele Vacis dura dal 2016, da due lezioni folgoranti, di cui ricordo ogni dettaglio.
Ricordo come entrò nell’aula, attraversando il grande spazio vuoto in silenzio, fino a raggiungere l’unica sedia della stanza, in mano l’Amleto tradotto da Cesare Garboli. Noi seduti per terra, attorno a lui.
Ricordo come ci mostrava le casse armoniche naturali del corpo umano, facendosi passare la voce dal naso, al diaframma e anche dietro nelle spalle. Me lo ricordo illustrarci la differenza tra tono, volume e ritmo, aggiungendo: «e state attenti alla manomissione delle parole. Nei talk show, quando dicono abbassate i toni si riferiscono al volume » e così poi ci dimostra come si può tenere una nota acutissima a un volume bassissimo.
Me lo ricordo citare Aldo Busi – con la veletta – che dice: «La letteratura è ritmo». Me lo ricordo mentre ci fa ascoltare l’Aria dalle Variazioni Goldberg suonata da Glenn Gould, prima negli anni’50, velocissima, e poi più lenta, nell’incisione degli anni ’80. «Glenn Gould» ci dice Vacis «incanta il tempo, quando leggete ad alta voce, avete la possibilità di incantare il tempo».
Me lo ricordo mentre tira fuori Il piccolo principe e parla dei lagami che si possono creare tra chi legge e chi ascolta; me lo ricordo mentre legge l’incipit de Il profumo, di Süskind, e dice: “La lingua è un’orchestra”. Me lo ricordo, il secondo giorno, quando ci ha preparati alla lettura ad alta voce, mostrandoci come si abita lo spazio e il tempo, come si sta in relazione con lo sguardo. Mi ricordo l’emozione, dopo quella lezione, di come abbiamo applaudito con le lacrime agli occhi, mentre lasciava l’aula.
Due lezioni intensissime che non bastavano a contenere il lavoro di una vita; volevo saperne di più.
Così l’ho cercato, e l’ho seguito il più possibile.
La prima cosa che ho imparato è che il suo teatro si declina solo al plurale, dagli esordi con Laboratorio Teatro Settimo, addirittura le regie dei primi lavori sono regie collettive. E se qualcosa ho capito del modo in cui lavora Vacis, un mistero per me rimaneva il processo creativo del suo sodale che lo accompagna dalla prima ora, Roberto Tarasco.
Tarasco si occupa di Scenofonia. Volevo saperne di più, e gli ho proposto di fare una chiacchierata assieme, mentre i PEM si preparano alla ripresa di Antigone e i suoi fratelli, che ha debuttato lo scorso anno alle fonderie Limone.
Tarasco è energico, le frasi sempre vitali, ama raccontare, ma prima centra il cuore della questione, senza troppi giri di parole.
Prendiamo il toro per le corna. Che cos’è la scenofonia?
La scenofonia è quel mestiere che si occupa dei fenomeni della scena: luci, suoni e oggetti. Colui che fa la scenofonia è infatti lo scenofomeno.
Quale sarebbe la differenza tra i mestieri come li conosciamo tradizionalmente separati: scenografo e addetto alle musiche ai suoni?
Se tu togli i confini tra due cose, il risultato è che ti allontani il più possibile dal realismo. Pensa a uno scenografo nel teatro tradizionale; viene incaricato di mettere in scena oggetti: il camino, la poltrona, creare il salotto. Invece io con un semplice suono, posso farti vedere: posso evocarti un gregge di pecore, un fiume. Il teatro, per quanto mi riguarda, il teatro che a me piace, è il luogo dell’evocazione. Non il luogo della mimesi.
Hai inventato un mestiere, dunque?
Sì, in pratica sì, per anni ho lavorato mandando suoni e lavorando con la luce. Ho collaborato negli anni con tantissimi artisti: Baricco, Binasco, Balasso, per citarne alcuni.
(Lo vedo che si entusiasma dietro agli occhiali tondi, mentre va indietro negli anni con la memoria) Raccontami.
Era il 1987. Gabriele era già un regista affermato; eravamo in macchina, stavamo andando a conoscere un giovane scrittore, Alessandro Baricco, appunto; ai tempi lavorava in radio, aveva un programma in cui metteva musica, leggeva delle cose… e io dissi a Gabriele: ma, insomma, tu sei il regista, e io come mi presento? E mi venne in mente questa parola: scenofonia. Io faccio la scenofonia.
Già maneggiavi la luce e il suono nell’87?
Sì esatto, a dir la verità ho iniziato come attore, non ho fatto un percorso canonico, negli anni Settanta, quando ho iniziato, fare teatro era malvisto: il teatro era sinonimo di teatro borghese, noi faceva azioni performative; un teatro – se vogliamo usare questa parola – politico, impegnato.
L’unico corso che ho seguito è stato un seminario a Bologna sull’arte del Mimo con Alessandra Galante Garrone, allieva di Jacques Lecoq. dunque dicevamo ho iniziato come attore, ma pativo troppo il fatto della ripetizione. Già allora scappavo dalla scena per occuparmi della scenofonia. L’ultima volta è stata con Riso Amaro, era proprio l’87. In scena ero con Lucilla Giagnoni, Rossella Testa, Paola Nervi, Marco Paolini.
E quando nasce questa attenzione al suono e alla luce?
Intorno ai 16 anni, quando ho visto 2001: Odissea nello spazio. Avevo scoperto che la musica aveva una potenza espressiva straordinaria. Cercavo di capire, lo vedevo e rivedevo, magari tappandomi le orecchie per smontare la costruzione di immagine e suono e carpirne il segreto. Da lì ho cominciato a maneggiare suoni, ho accumulato 5000 dischi. All’epoca compravo tutto un disco e magari ne estraevo solo pochi secondi per uno spettacolo. Ho raccolto canti popolari, dialetti… all’epoca poi il montaggio del suono era tutto analogico, lavoro manuale, con i nastri.
Sono curioso di entrare nel tuo laboratorio. Come trovi il suono giusto per una scena, che aiuta gli attori?
Non c’è una ricetta. Sono come un rabdomante, un cane da tartufo. Ho sviluppato questa sensibilità, l’ho affinata negli anni, ma consapevolmente non so come faccio. Sto con gli attori, metto dei suoni e vedo come reagiscono.
Veniamo ad Antigone, raccontami qualcosa della scelta dei suoni.
In Antigone per esempio mi è capitato di usare dei suoni campionati da un signore che faceva suonare dei pezzi di vetro rotto. Si sentono durante il monologo sulla nascita della stirpe di Tebe oppure il suono degli elicotteri.
C’è una caratteristica che ricerchi nelle scenofonia?
Cerco sempre di evitare la fissità, cerco il movimento, l’evoluzione, un oggetto che non sia statico. E ancora: le scene realistiche sono spesso ferme.
Quando abbiamo fatto Orazi e Curiazi di Brecht ho usato delle bacchette molto lunghe per fare le lance, delle quinte armate erano gli scudi, e per fare gli archi dopo una lunga ricerca ho trovato degli elastici molto lunghi che si usano nella fisioterapia, messi in tensione e poi lasciati creano un suono pazzesco, soprattutto in un ambiente molto grande come il palazzo della Ragione a Padova. Oggetti che quando si muovono creano suono, pensa in scena erano 100 ragazzi.
Voglio sottoporti un fenomeno: la musica passiva. Quella musica non scelta ma imposta nei bar, nei ristoranti, nei mercatini. Cosa ne pensi?
È molto invadente, è come se ti mettessero le mani addosso, bisogna imparare a difendersi, chiedere di spegnere.
Un suono può limitarci nell’azione? Oltre alla musica passiva, penso anche ai rumori bianchi. Soprattutto in scena, in cui ogni segno è amplificato.
Certo. L’altra sera c’erano i riscaldamenti accesi durante la replica di Antigone, si sono spenti sul finale, Letizia inizia il monologo, e credimi quel monologo aveva un’intensità straordinaria.
E vorrei aggiungere: se l’ecologia acustica è importante, lo stesso discorso vale per le luci. Mi capita di andare nelle case e spostare le fonti luminose, non amo le fonti luminose a vista
Parliamo delle luci.
Io amo parlare di materie luminose, perché amo ricercare materiali di scarto che fanno luce.
Non ho studiato illuminotecnica, come per la musica è un sentire. Ho provato a studiare musica, ma ho capito che lo studio mi allontanava da un sapere istintivo. Ho provato a fare un percorso canonico sulla luce, ma mi è successa la stessa cosa. Io spesso uso delle luci che non si trovano in teatro, in una maniera che non è frequente vedere a teatro. In Fenicie nel 2000 la luce veniva dal basso, ed erano luci al sodio, di solito vengono usate nelle gallerie; si accendono molto lentamente, durante l’accensione mantengono lo spettro dei colori normale, poi una volta accese lo distorcono, è come una sorta di bianco e nero. Oppure amo molto le luci a ioduri metallici, fanno una luce molto fredda, in teatro non si usano perché si accendono lentamente, e poi quando si spengono, la luce va via di botto.
Oppure i neon, li uso in Antigone, sono tutti materiali di scarto che ho recuperato.
Gioco molto con l’intensità, la direzione, mi piace una luce poco realistica dichiarata. Trasgredisco la grammatica del teatro tradizionale.
Sei un anarchico?
(ride) Sì, non amo le convenzioni. Spesso in teatro si usa il fondale nero, io amo vedere gli edifici, mi piace anche che la luce illumini tutto, se questo è necessario allo spettacolo.
Insomma ti piacciono le imperfezioni.
Assolutamente. Credo che sia una caratteristica del teatro, e che sia una qualità etica. Mi spiego: ogni teatro – come edificio – è diverso. Perché eliminare queste differenze? perché rendere lo spettacolo dal vivo, mutevole per costituzione, un prodotto standard, sempre uguale? mi vengono in mente i nazisti, o forse sto esagerando. Però non trovo sana questa ricerca di perfezione seriale. Abbiamo alle spalle la commedia dell’arte, non possiamo dimenticarlo.
(Mentre rifletto sul valore politico di questi pensieri, mi viene voglia di incamminarmi sulla sua strada, come i bambini giocare con le cose più impalpabili: luce e suono) Che consiglio daresti a chi è interessato alla scenofonia?
Stare in attenzione, con lo sguardo aperto, e le orecchie aperte. Bisogna essere recettivi.