L’ISTRUTTORIA – LEONARDO LIDI

IL TEATRO COME TESTIMONIANZA

Alla  propaganda della bellezza, soprattutto in Italia, siamo esposti fin da piccoli: ci svezzano a pane e bello; e se non è dannoso, ci induce quantomeno a un’errata postura nell’accostarci a oggetti che vanno tutti sotto un unico cappello: “arte”. Così finiamo per osservare un quadro di Giotto, un’icona bizantina e una pittura romantica con le stesse lenti della bellezza, spesso unita a un altro concetto, ugualmente utilizzato a sproposito, logoro:  il concetto di “genio”.

Le icone bizantine, infatti, non sono fatte per la loro bellezza o per leggervi la bravura dell’artista – peraltro, in questo contesto, perlopiù sconosciuto – ma sono uno strumento di preghiera; strumento, come un tavolo, una sedia, un cucchiaio, una forchetta.

È bene tenerlo a mente, perché a forza di interpellare la bellezza, si rischia di perdere una visione della l’arte che dovrebbe rimanere per lo più poliedrica e totipotente.

E il teatro, tra le sue varie funzioni, ha quello di documento, documento storico, ci può aiutare nell’esercizio della memoria; e così come le Stolpersteine (le pietre di inciampo) dell’artista tedesco Gunter Demnig o Shoah di Claude Lanzmann si emancipano dalla loro natura artistica e diventano documento storico, così anche L’istruttoria di Peter Weiss, recitato al Teatro Gobetti  dal 23 al 28 gennaio dagli allievi della scuola per attori del Teatro Stabile di Torino diretti da Leonardo Lidi, testo questo che utilizza i mezzi del teatro per diventare uno strumento del ricordo.

È bene ricordare che non siamo di fronte a una drammaturgia, il testo infatti non forza i confini del dramma, ma si pone in un altro spazio nettamente diverso e separato da un testo drammaturgico. Siamo di fronte a un Oratorio, strutturato in 11 canti (il pensiero va a Dante) composti a partire dagli appunti stilati da Weiss durante le sedute dei processi penali contro un gruppo di SS e di funzionari del Lager di Auschwitz, che si tennero a Francoforte sul Meno tra il 10 dicembre 1963 e il 20 agosto 1965. Questo fu il primo processo voluto dal governo tedesco per giudicare le responsabilità del nazismo nella tragedia dell’olocausto. Nelle 183 giornate di processo vennero ascoltati 409 testimoni, 248 dei quali sopravvissuti al campo di sterminio.

I modi per attivare questo dispositivo della memoria non sono univoci. In Italia ricordiamo due modalità in cui è stato fatto. Nel ’67 Virginio Puecher per il Piccolo Teatro portò questo testo in spazi molto grandi: palazzetti dello sport, palazzi delle esposizioni, usando massicciamente le tecnologie e ibridando materiali eterogenei. Il risultato è quello del corpo di un performer che si dà ma viene continuamente negato annullato, oppresso dai media. Per esempio, vediamo i volti attraverso lo schermo dal momento che danno le spalle al pubblico, pezzi di documentari si alternano al testo di Weiss. (Usiamo la parola performer per la difficoltà qui di adoperare parole come attore o messa in scena; nel tempo che viviamo lo spettacolo tende a fagocitare ogni aspetto, soprattutto a teatro).

 In aggiunta l’impianto scenografico di matrice costruttivista di Josef Svoboda, che crea un setting da studio televisivo, evitando un unico punto focale, accentua lo straniamento, lo spettatore è costretto, pungolato, ad assistere alla testimonianza. Il teatro si pone come strumento efficace di documentazione e memoria perché è un documento incarnato nel presente, opera un corto-circuito tra passato e presente, fa rivivere la storia. Inchioda lo spettatore alla vergogna.

Una foto del lavoro portato nel ’67 da Virginio Puecher

Un’altra via percorribile è quella che sceglie il Collettivo di Parma nell’84 con la regia di Gigi Dall’Aglio.

 Un’esecuzione intima, quasi un rito, altrettanto ustorio: in un ambiente nero, lo spettatore è costretto a sostare in piedi in diversi spazi, per tutta la durata del primo canto. Gli oggetti che vediamo possiedono un grande potere evocativo, come nel secondo canto: mentre si racconta dell’espoliazione delle vittime, un uomo e una donna con le loro valigie sono portati al centro e fatti spogliare, le loro valigie vuotate, e gli oggetti disposti con cura davanti a loro. Sul finale, il piccolo spazio scenico è inondato di fumo e forti luci, per cercare di evocare l’orrore delle camere a gas.

Questo rito laico è in repertorio e viene riproposto a Parma ogni anno.

L’istruttoria a Parma per la regia di Gigi Dall’Aglio

Il lavoro curato da Leonardo Lidi a cui abbiamo assistito adotta invece un’impronta estremamente minimale. Nel voler portare a teatro il racconto delle vittime e dei carnefici di Auschwitz l’intento di Lidi, assieme agli allievi della scuola per attori del Teatro Stabile, sembra quello di voler spogliare di ogni orpello il rito della recita, lasciando la nuda testimonianza unica vera protagonista. Scrive infatti Lidi nel programma di sala che “l’importante non fosse creare un vero e proprio spettacolo, ma un momento di sincera condivisione sociale assieme alle persone venute per ascoltare ma anche per partecipare ad una giornata di grande importanza”. È per creare un’atmosfera di condivisione, dunque, che il pubblico entra in sala trovando già presenti gli interpreti sparpagliati per la platea, quasi come entrassero in una piazza, e che le luci rimangono accese fino agli ultimissimi istanti della performance. Il pubblico vede gli interpreti, gli interpreti vedono il pubblico. Sul palco l’impianto scenico è asettico, composto unicamente da una struttura a gradoni bianchi. I performer, in giacca nera e camicia bianca (eccezion fatta per i carnefici, in sola camicia bianca), una volta presa posizione su di essi restano quasi esclusivamente fermi sul posto, alzandosi solo per parlare. Il movimento più presente è quello dei microfoni, passati di mano in mano per far parlare i vari testimoni. La testimonianza viene trasmessa in maniera diretta, pronunciando il testo senza particolare inflessione, senza lasciar trasparire alcun sentimento di troppo. Sarebbe stato fin troppo facile lasciarsi andare ad un’interpretazione emotiva del testo, lasciarsi trasportare dall’orrore delle immagini da esso evocate. Troppo spesso le opere che trattano questo argomento tendono a scadere nel sentimentalismo, nella riproposizione patetica degli eventi, andando così a minare il messaggio di fondo: “è accaduto. Può accadere ancora. Non dobbiamo lasciare che accada”. In questo senso Lidi e gli allievi dello Stabile operano invece un rigoroso esercizio di sottrazione, e le poche emozioni che traspaiono dai volti dei performer sappiamo essere autentiche, uno scorcio nei loro pensieri che ci è dato vedere quasi per sbaglio, non simulate o evocate per la scena. Lo stesso non si può dire di alcuni individui del pubblico, che forse perché illuminati per tutto il tempo e dunque presi nell’insieme tendono talvolta a dimostrare platealmente con ampi movimenti della testa il proprio sdegno per gli eventi descritti. Questo lavoro porta all’estreme conseguenze l’atto del vedere insito nel teatro sin dal suo etimo, mentre guardiamo, da una parte il racconto è talmente insostenibile che dobbiamo abbassare lo sguardo, dall’altra è una mano che ci fa alzare la testa e ci riporta al dovere della memoria. Il dolore dell’olocausto, che poi è dolore dell’umanità tutta perché è il fallimento per antonomasia dell’umanità, traspare in tutta la sua violenza dalle semplici parole, dalla pulizia con cui vengono enunciate. In un terreno d’indagine in cui ogni cosa, anche dare e ricevere applausi, rischia di apparire irrispettoso o non adatto, un approccio come quello qui messo in atto mostra una qualità di giudizio lodevole da parte di Lidi e degli interpreti. Tutto è sottratto per lasciare posto all’evidenza di ciò che è stato. “È fondamentale” scrive sempre Lidi nel foglio di sala “evitare il più possibile il rischio inopportuno di spettacolarizzazione del dolore, una trappola frequente che dovremmo combattere proprio a fianco delle nuove generazioni”.  

E se qualcuno ahimè quest’anno volesse mettere in discussione la legittimità di ricordare la shoah, bisogna ricordare che la memoria della shoah è di tutti, come scrive Anna Foa: “In questo terribile conflitto, in cui due estremismi opposti si combattono nel dolore delle vittime di entrambe le parti, ora l’importante è fermare l’operazione bellica che sta distruggendo Gaza e che sempre più precisa come suo obiettivo l’annessione dei territori occupati a formare una grande Israele. Vedremo risorgere, con tutti i suoi limiti, ma anche con le sue aperture e le sue speranze, l’antica Israele dei suoi padri fondatori, e vedremo i palestinesi disfarsi degli estremisti e lavorare alla creazione di uno stato che viva in pace coi suoi vicini? Per quanto difficile sia, distruggere la memoria del maggiore genocidio del Novecento, oppure anche soltanto lasciarla come patrimonio solo degli ebrei, sottraendola all’umanità intera, non può certo aiutare a raggiungere questo obiettivo.

È importante che a realizzare questo lavoro siano degli attori in formazione: tra le prerogative di un attore non è secondaria quella di porsi come custode della storia. In un presente in cui la memoria tout-court tende a essere merce rara, gli attori possono esserne il veicolo.

Giuseppe Rabita e Edoardo Perna

Per un’approfondimento sulle precedenti messe in scena in Italia: “ Storia e performance: un confronto fra due scritture sceniche de L’istruttoria di Peter Weiss” di Roberta Gandolfi

di Peter Weiss
con gli allievi della
Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino
(in ordine alfabetico)
Alessandro Ambrosi, Francesco Bottin, Cecilia Bramati
Ilaria Campani, Maria Teresa Castello, Hana Daneri
Alice Fazzi, Matteo Federici, Iacopo Ferro
Samuele Finocchiaro, Christian Gaglione, Sara Gedeone
Francesco Halupca, Martina Montini, Greta Petronillo
Diego Pleuteri, Emma Francesca Savoldi
Andrea Tartaglia, Nicolò Tomassini, Maria Trenta

regia Leonardo Lidi
regista assistente Francesca Bracchino
scene Fabio Carpene
Teatro Stabile Torino – Teatro Nazionale

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