LA LUZ DE UN LAGO – EL CONDE DE TORREFIEL


Presentato con Piemonte dal Vivo in condivisione con Torinodanza

Il 12 e 13 ottobre 2023 lo spettacolo LA LUZ DE UN LAGO della compagnia catalana EL CONDE DE TORREFIEL è andato in scena presso il Teatro Astra, in occasione della 29esima edizione del Festival delle Colline Torinesi.

El Conde De Torrefiel è una compagnia fondata a Barcellona nel 2010 da Tanya Beyeler e Pablo Gisbert. Il loro lavoro si articola attraverso un’estetica testuale e visuale tra teatro, coreografia, letteratura e arti plastiche, all’interno di una drammaturgia multimediale esposta ai minimi termini.

Questo spettacolo vuole essere un esperimento sonico e sensoriale in un’ottica multidisciplinare.
La compagnia è tornata al Festival, dopo il precedente lavoro Imagęn Interior, riallestendo e concentrandosi sulle essenze della multimedialità drammaturgica.
El Conde si è rifugiato in una sala cinematografica e ci ha offerto un pezzo bello, intimo, contemplativo, che continua a indagare sulle possibilità del linguaggio scenico. La pièce è una meraviglia di dispositivo in cui la scena diventa un corpo con una propria entità e prende vita. Il suo cervello, la parola, l’azione e il suo cuore viaggiano con un suono travolgente.
Dal giorno in cui hai ascoltato sulle cuffie Atrocity Exhibition dei Joy Division negli anni ’80, al Vendredì di Flavier Berger nel 2015. Questo è il lasso di tempo, l’educazione sentimentale, che affronta il lavoro di El Conde. Lo fa attraverso quattro storie che compongono un film che non sarà mai visto sul palco, ma immaginato. “Questo è un film” dice all’inizio la voce fuori campo di Tanya Beyeller, direttrice della compagnia insieme a Pablo Gisbert, di fronte a uno spazio vuoto allestito con alcuni pannelli che serviranno per proiettare le storie.
Ma durante l’intero spettacolo non ci sarà alcuna proiezione di alcuna immagine del film. Invece, testi detti e proiettati ci introdurranno in quella specie di vite incrociate che compongono il film. E lo spazio vuoto man mano si trasformerà, con pannelli e oggetti vari, per far emergere le immagini mentali di quei testi. La scena batte e si sfrena con la parola, con la storia. Un attrito che mira a creare l’immagine all’interno di ogni spettatore, trasformando così i loro cervelli in vere e proprie macchine di montaggio.
La narrazione si spoglia di tutti gli artifici, concentrandosi su una società dello spettacolo agganciata all’immagine, al dramma vuoto e all’emozione falsa, reagendo ed eliminando la mediazione – non c’è attore che dica una parola o la interpreti – di conflitti teatrali e di strutture aristoteliche.
L’immagine del pubblico fermo che ascolta e legge i testi mentre guarda le azioni sul palco è molto potente. Non succede nulla sulla scena e allo stesso tempo tutto accade. È un teatro precedente o parallelo alla tragedia greca. È un teatro minimale.
I testi sono secchi, intelligenti, aperti alla discussione, ma allo stesso tempo agganciati al racconto di storie di individui, come dice il testo “personaggi che non hanno immagine e sono solo parole sono come gocce d’acqua attraversate dalla luce che le fa brillare per un istante e poi le riporta alle profondità dell’anonimato”.
Da lì nasce la storia di due ragazzi di 23 anni a Manchester del 1995, di come dopo un concerto dei Massive Attack – impressionante la combinazione tra testo descrittivo del concerto con il tema Angel del gruppo – decidono di andare al tempio della musica del momento, il mitico New Osborne. Lì, quei tre giovani scopriranno il suono del loro tempo: Tanya e Pablo ci hanno spiegato che c’è “Una musica semplice, costante e ripetitiva, senza variazioni, senza complessità. Musica che non ha testi, musica che non ti dice nulla, musica che non intellettualizza, musica che non ti inganna, musica che ti penetra e soprattutto musica con volume. Un colpo grave, ritmico e senza fronzoli. Un colpo continuo che ricorda la semplicità del tempo e allo stesso tempo la complessità del tempo”.

Copio qui quel lungo testo per cercare di trasferire la sua potenza. Un testo che finirà per dire: “Una marea di persone agita i loro corpi allo stesso ritmo. Invocano la complessità del tempo e ballano volendo scomparire…” Amore, corpi e LSD si manifestano tra loro. Questa prima storia (poi ne arriveranno altre tre) è fondamentale nello spettacolo. Ci parla di quel passato in cui una generazione si è aperta al mondo, quando Margaret Thatcher disse “La società non esiste, esistono solo gli individui…” come altri faranno dopo e lo stanno facendo ora. Allo stesso modo mette uno specchio in cui lo spettatore affronta se stesso di fronte all’inesorabile passare del tempo.
Da lì, verranno altre storie che giocheranno tra loro sulla sottile linea tra finzione e realtà. Nella seconda, un impiegato di banca che, in un cinema sperduto in una Atene d’inizio crisi del 2006, vede il film di quegli stessi giovani e in sala s’innamora di un tizio più giovane di lui, il tutto narrato da una voce over. Una gay story che potrebbe omaggiare il cinema di Fassbinder.

Nella terza storia troviamo una biologa marina trans che tornando a casa legge una lettera lasciatagli dalla nonna morta, dove la vecchiaia addomesticherà questo mondo crudele, “Non aver paura” dice la nonna a sua nipote. Un testo in fondo che è puro Thomas Bernhard. Le didascalie accompagnano gli occhi nostri sotto il suono delle pennellate nere.
Alla fine arriverà la quarta storia, ambientata nel futuro, esattamente 2036 a Venezia, al teatro La Fenice, dove in mezzo ad un dramma dai contenuti social environmental, irrompe in scena un gruppo di eco-attivisti smerdando gli spettatori in sala. Non si tratta nemmeno di raccontare ciò che accade. Basta sottolineare che forse quest’ultima vicenda, che funziona come epilogo di riflessione meta-artistica, è la meno essenziale dell’opera, ma che El Conde salva dal fatalismo. Forse questo pezzo è uno dei più intimi della compagnia. La scena di tre grandi pannelli di metallo che vibrano, amplificati fino all’eccesso è la cosa più vicina alle altezze del film Dune di David Lynch. Il cuore di questo passaggio è nel suono, è lì che la compagnia batte, soffre e condivide con gli spettatori.
Non c’è trucco non c’è inganno, non esiste nessuna divisione tra le storie, né c’è una consequenzialità: i tre attori-tecnici sul palco eseguono al ritmo della narrazione i movimenti di cambio scena muovendo i pannelli con un finale da arte concettuale.
Una domanda che ci solleva, anche se è molto generazionale: chi siamo ora, chi eravamo trent’anni anni fa? Ian Curtis, il cantante dei Joy Division, che viene anche citato, si è suicidato all’età di 24 anni. Nell’ultimo album dei Cure, pubblicato dopo più di 16 anni, Robert Smith canta una litania che potrebbe essere la colonna sonora di questo lavoro di El Conde: “E tutto si ferma, siamo sempre stati sicuri che / non saremmo mai cambiati, ma tutto si ferma / e chiudiamo gli occhi per dormire / e sognare un ragazzo e una ragazza / che sognano che il mondo non è altro che un sogno”.

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Luigi (Luis) Rinaldi

  • regia e drammaturgia Tanya Beyeler e Pablo Gisbert
  • scenografia La Cuarta Piel (César Fuertes, Iñigo Barrón García, Ximo Berenguer), Isaac Torres, El Conde de Torrefiel
  • performer Mireia Donat Melús, Mauro Molina, Isaac Torres
  • sculture Mireia Donat Melús
  • coordinazione e direzione tecnica Isaac Torres
  • suonoRebecca Praga, Uriel ireland
  • luci Manoly Rubio García
  • video Carlos Pardo, María Antón Cabot
  • distribuzione e produzione Alessandra Simeoni
  • una produzione CIELO DRIVE – Alessandra Simeoni
  • con il supporto di ICEC – Generalitat de Catalunya, Festival TNT, Terrassa Teatre Principal de Lloret de Mar
  • coproduzione Festival GREC – Barcelona, CC Conde Duque – Madrid, Théâtre St. Gervais – Genève, Teatro Municipal de Porto – Rivoli, Festival d’Automne – Paris, Festival delle Colline Torinesi, Teatro Metastasio di Prato, VIERNULVIER – Gent

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