LA NOTTE – PIPPO DELBONO

Due punti di vista per uno stesso spettacolo a cura di Bianca Ferretti e Gabriele Corbo

La notte di Pippo Delbono alla Fondazione Merz è per lo spettatore una camminata lenta e inquieta in un corridoio pieno di quadri. 
Pochi e semplici ‘colori’ ne costituiscono la tavolozza: due sedie, una chitarra elettrica, un microfono su asta, un leggio e un plico di fogli destinati a spargersi a terra, intorno all’attore, come fossero pezzi di Storia lasciati cadere nell’oblio.

In questa essenzialità scenografica Delbono innesca col pubblico un piano di realtà concreto e La notte più che uno spettacolo si mostra agli occhi di chi ascolta come il flusso di coscienza di un essere umano.
Ci si addentra, grazie alla voce dell’attore, profonda e scura come un antro di caverna, e grazie alla musica di Piero Corso in un viaggio che parte dal testo di Bernard-Marie Koltès La notte poco prima della foresta e dalle parole del fratello di Bernard-Marie, François Koltès, che in una lettera del 20 agosto 2013 scrive a Delbono dandogli il consenso di tagliare e manipolare il testo originale per dare vita alla sua “Notte”.

Il primo quadro è dunque una lettera personale. François scrive a Pippo e lo fa da una nostalgica, struggente e sommessamente rabbiosa Siracusa.
Lo spettatore viene accompagnato all’interno di questo suggestivo e malinconico scenario che sembra già morto mentre l’attore lo porta alla luce.
Un luogo di mare, male e sole. Un luogo di sarde e vigneti sulle pendici dell’Etna. Ma anche di barche in rovina e numeri: barconi con 128 persone, scialuppe con 147 e ancora 234 esseri umani salvati da bagnanti.
A guidare è la voce di Delbono, quasi appesantita dalla durezza delle parole ma che pare, a tratti, divincolarsi con giochi di intonazione, sibili leggeri che nel testo di François si ritrovano nella corsa di quei ragazzini, trafitti dai raggi solari, che sulle spiagge di Ortigia rincorrono una spensieratezza perduta.
C’è rabbia e tenerezza, ma ci sono soprattutto gli elementi di un paesaggio unico. Le note della chitarra rievocano il suono del mare e la voce dell’attore ci avvicina a quei volti duri, spesso giovani, ma già pregni di vita. 
Quando si lasciano le parole di François comincia uno stretto intreccio fra drammaturgia originale di Bernard-Marie e lavoro inedito di Delbono.
Qui lo scenario cambia completamente.
Si passa dal suono delle onde all’alba alle luci notturne di un’anonima città, alle stanze di un hotel, alla “maledetta” pioggia battente e al “maledetto” vento che soffia sulle impalcature.
L’immaginario diventa più confuso, le note si fanno più stridenti.
Si percepisce una generale caoticità alimentata da sentimenti di angoscia e frustrazione e il protagonista intraprende una corsa inutile ed eterna (“ho corso…ho corso… e ho corso ancora… perché non trovavo… solo pioggia… la pioggia”).
Si entra in un loop spazio-temporale da cui è difficile uscire, vengono lanciati gridi di denuncia che restano però inascoltati, cominciano ad accavallarsi personaggi differenti e lo stesso spettatore finisce per sentirsi spaesato.
Delbono sembra quasi combattere con queste immagini adoperando anche il linguaggio del corpo che rimane tuttavia circoscritto solo a qualche breve attimo.
Scenari forti come quello di una donna che ingoia terra in un cimitero arrivano più vividi ma al contempo in più momenti la frenesia drammaturgica, unita a un uso criptico di musica e parole, grammelot e gestualità, finisce per mescolarsi e quasi perdersi nell’utilizzo eccessivo di più elementi non sempre armonici fra loro.
Il personaggio corre, corrono i suoi pensieri, le sue azioni ma così facendo si corre anche il rischio di lasciare il pubblico in uno stato di confusione e creare uno scollamento e distacco rispetto a quello che sta accadendo in scena.
Sebbene le parole rievochino immaginari forti e drammatici, la sensazione che rimane addosso è simile a quella di assistere a un’idea di sofferenza, a un concetto, e non a una situazione concreta. Quasi ci fosse una dissociazione fra le parole che raccontano e le azioni raccontate.
E così la domanda: “Dove andare? Dove andare?”, ripetuta più volte nel testo, risuona anche nello spettatore stesso una volta intrapreso quest’oscuro viaggio.

Le tinte dell’ultimo quadro infine recuperano una dimensione più malinconica e meditativa e si ritrova così una sorta di calma.
Torna la penna di Bernard-Marie il cui inchiostro questa volta scorre per una persona particolare.
In questa lettera Koltés parla alla “Cara piccola mamma” per rivendicare, con parole nette e sicure, la propria visione dell’amore.
E il suo diventa quasi un appello all’amare davvero, a non fermarsi di fronte a una superficialità materialista ma fare umanamente fatica per sentire e godere davvero di quel sentimento unico e viscerale qual è l’amore.

Nonostante quest’ultimo atto si presenti come un inno all’amore e alla vita, arrivati a questo punto, lo spettatore fa forse fatica a sentirsi coinvolto.
Dopo un frenetico susseguirsi di quadri talvolta estremamente criptici, alla riaccensione delle luci in sala, rimane un senso di confusione e spaesamento rispetto all’operazione generale.

Bianca Ferretti

Lo spettacolo si apre con l’ingresso degli unici protagonisti della scena: Pippo Delbono, interprete e unica voce, e Piero Corso, musicista che, con la sua chitarra elettrica, accompagnerà le parole del testo. La premessa iniziale chiarisce che il testo è tratto da La notte poco prima della foresta scritto da Bernard-Marie Koltez e che debutta nel 1977 ad Avignone.

Le parti originali del nuovo testo sono la lettera di Francois Koltez, fratello di Bernard-Marie, indirizzata a Delbono, in cui lo autorizza a interpretare e fare proprio il testo, e un’altra, alla fine, dello stesso Bernard-Marie. Oltre all’autorizzazione all’uso del testo, Francois condivide in modo sentito le proprie riflessioni ed emozioni riguardo la situazione a Siracusa con gli sbarchi dei migranti: le dinamiche raccontate sono molto tristi e scoraggianti in una situazione in cui i soccorsi tardano a arrivare e molte persone perdono la vita in mare mentre si era in fuga alla ricerca di un’occasione per una vita migliore. Di qui lo spunto per denunciare le disparità umane tra vari gruppi di appartenenza e in poco tempo la lettera diventa un vero e proprio manifesto a favore dei più deboli e degli oppressi, delle minoranze emarginate della cui condizione siamo almeno in parte responsabili ma allo stesso tempo restiamo inermi.

Terminata questa travolgente lettera, che purtroppo non racconta un lieto fine, ci si approccia al vero nucleo del testo (in una dinamica dove non riconosciamo a fondo dove finisca la figura autobiografica di Pippo e dove incominci quella di un personaggio) che racconta di tutti noi in un’ipotetica notte piovosa e senza riparo per dormire.
La musica dal vivo e quella registrata creano un’atmosfera di isolamento e di perdizione che risuona molto bene con la situazione raccontata predominando il senso di non appartenenza al luogo così come alla situazione sociale.

Il testo, mantenendo uno sguardo disilluso e rabbioso, in poco tempo si accende prendendo toni più forti e non avendo timore di assumere una posizione apertamente politica in uno sfogo coinvolto con uno sconosciuto che diventerà il nostro “compagno” per la serata. Da qui in poi il testo si fa un po’ più confuso e gli spettatori non riescono sempre a seguire bene il racconto, ma lo spettacolo si chiude poi efficacemente con una nuova lettera di Bernard-Marie Coltez alla madre defunta nella quale egli rivendica il concetto di amore universale in risposta alle critiche sulla sua sessualità.

Gabriele Corbo

Di Pippo Delbono

Da “La nuit juste avant les forêts” di Bernard-Marie Koltès

Con Pippo Delbono

Musiche Piero Corso

Produzione Compagnia Pippo Delbono, TPE – Teatro Piemonte Europa, Festival delle Colline Torinesi

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